DYNAMITE GIRL [1918]

Camminavano verso la stazione con una certa fretta, ma non potevano fare a meno di guardarsi negli occhi. E di sorridere.

Si tenevano per mano e, nella mano libera, ognuno di loro portava una valigia.

Non c’era spazio per le parole. Non c’era nemmeno il tempo.

Tutto era per sguardi e sorrisi. Lo spazio che li separava dalla stazione ed il tempo che rimaneva fino alla partenza del treno.

Lui con i capelli di un nero scurissimo, lunghi, ricci, pettinati all’indietro.

Non passava inosservato. Alto, bello, aitante. E vestito bene, elegante. Cappotto verde scuro con collo di astracan e un berretto di pelliccia.

Lei aveva un cappellino con appuntata una rosa dorata, da cui le spuntava la frangetta.

Piccola e bella. Il viso di una bambina ma con uno sguardo che faceva intuire altro.

Indossava un cappotto scuro su una camicetta di lana scozzese e una gonna marrone.

Stazione di Steubenville. Treno per Chicago.

Tempo finito.

Arrivava l’ora dell’addio. Che doveva essere solo un arrivederci.

I due registrarono uno dei bagagli. Poi, lui l’aiutò a portare l’altra valigia nello scompartimento.

Si salutarono così, con uno sguardo, un sorriso, qualche parola sussurrata, un bacio lunghissimo.

Lei salì sul treno. E lui se ne andò per la sua strada.

Il treno andava.

La ragazza nello scompartimento si mise seduta a leggere il libro che si era portata per alcune ore. Se ne andò a mangiare verso le 23 e poi tornò a dormire.

La ragazza si svegliò all’alba per colpa del freddo che invadeva il locale. Scese dal letto e scoprì che il riscaldamento, chissà quando, aveva smesso di funzionare. Uscì dalla cabina ed andò a cercare l’addetto ai vagoni-letto.

L’uomo, tale T. W. Johnson, le assicurò gentilmente che sarebbe andato subito a verificare.

La ragazza non poteva sapere che l’addetto la teneva d’occhio. Quel lungo bacio alla stazione e l’aspetto da italiani della coppia, avevano risvegliato la sua curiosità e il suo sospetto, e lei gli aveva appena dato il pretesto per svolgere il suo vigile compito di bravo patriota.

Certo, il buon T. W. Johnson, non si aspettava di trovare ciò che trovò curiosando nella borsa di quella che, ancorché sospetta, era una minuta e dolce signorina.

In preda al panico, l’addetto si affrettò a raggiungere il capotreno e a informarlo della sconvolgente notizia. Quest’ultimo chiamò senza indugi la polizia della stazione di Chicago.

Verso le 11:30, la ragazza, stanca di aspettare, tornò al suo scompartimento ma trovò la cabina chiusa a chiave. Andò a cercare di nuovo il signor Johnson, però questi, con varie scuse, si rifiutò di aprirle la porta.

A quel punto, la ragazza capì di essere stata presa in trappola.

Alle ore 12:30, il treno entrò nella Union Station di Chicago.

Il binario era stracolmo di agenti di polizia. Nessuna via di scampo. Nessuna possibilità di fuggire.

Le forze dell’ordine controllavano tutti I passeggeri che mettevano piede sulla banchina.

La ragazza si mise tranquilla ad aspettare.

Fu presa in consegna da sei poliziotti, tra cui il comandante del locale commissariato ed un agente federale.

Il suo bagaglio registrato era già stato aperto e controllato. Non conteneva niente di strano. Vestiti da donna, foto della ragazza con quelli che sembravamo essere i suoi genitori e una ciocca di capelli nerissimi.

Ciò che gli agenti aspettavano era, però, di vedere il contenuto della valigia chiusa in cabina.

Dopo che Johnson ebbe aperto, I poliziotti entrarono e con estrma l’aprirono.

La ragazza aveva viaggiato fino a Chicago con 36 candelotti di dinamite e una Colt automatica calibro 32 carica.

La giovane donna venne immediatamente portata al distretto di polizia presente in stazione.

Durante il primo interrogatorio, la ragazza disse di chiamarsi Linda José, disse di essere stata accompagnata alla stazione di partenza da un certo Carlo, del quale però non fornì il cognome, disse che sapeva che la valigia conteneva dinamite, disse che un suo zio le aveva chiesto di portarla fino a Chicago.

Altro, la ragazza non disse.

La ragazza venne in seguito portata al Dipartimento di Giustizia della città e venne interrogata una seconda volta da Clinton Clabough, capo del Bureau of Investigation del Midwest.

La ragazza ripetà la versione che aveva dato in stazione con, se possibile, ancor meno particolari.

La ragazza che diceva di chiamarsi Linda José, nel tardo pomeriggio venne presa e portata davanti ad un commissario federale con l’accusa di possesso illecito di armi e dinamite.

La cauzione venne fissata a 20.000 dollari.

Linda José venne subito condotta nella prigione di Lake County a Waukegan.

*

Correva l’anno 1918. Era gennaio. La grande guerra non era ancora terminata, dopo quasi quattro.

Gli Stati Uniti si erano uniti alla carneficina da poco meno di un anno, dall’aprile del 1917, ma era stato fin dall’inizio del conflitto, alla fine del luglio del 1914, che l’isteria patriottica nelle terre nordamericane era cresciuta esponenzialmente.

Il Congresso degli Stati Uniti, nel giro di pochi mesi, aveva approvato tre leggi largamente applaudite dall’opinione pubblica, quali l’Espionage Act (1917), il Sedition Act (1918) e l’Immigration Act (1918).

Erano tempi in cui ogni discorso, ogni atto, ogni scritto erano passati al setaccio.

Erano tempi in cui il solo fatto di essere un immigrato, uno straniero ti faceva automaticamente passare come sospetto.

E, soprattutto, erano tempi in cui ogni voce critica alla politica bellica veniva messa a tacere.

Lo strumento di cui si avveleva il Governo Federale era un corpo istituito all’interno del Dipartimento di Giustizia, il Bureau of Investigation.

Uno dei primi nemici in cima alla lista del Bureau si chiamava Luigi Galleani.

Luigi Galleani viveva in terra americana da molto tempo. Nato a Vercelli nel 1861, da giovane aveva studiato legge all’università di Torino prima di abbracciare le idee anarchiche. Espulso e ricercato in mezza Europa, si era imbarcato per l’America nel 1901, stabilendosi a Paterson, nel New Jersey, dove appoggiato gli scioperi degli operai tessili, guadagnandosi un mandato d’arresto. Si era rifugiato, quindi, in Canada, ma era tornato clandestinamente dopo appena un anno, andando a vivere a Barre, nel Vermont, dove, nel 1903, aveva fondato il periodico Cronaca Sovversiva. Questo foglio di quattro pagine che propugnava senza mezzi termini la rivoluzione sociale, in breve, aveva raggiunto la tiratura di migliaia di copie distribuite tra i lavoratori italiani sparsi nelle varie comunità degli States.

Quando era iniziata la guerra in Europa, tutti i gruppi radicali, chi più chi meno, avevano preso posizione contro l’intervento. Quelli di Cronaca Sovversiva naturalmente si trovavano in prima fila nella lotta.

Luigi Galleani

Sotto la guida del Bureau o Investigation si moltiplicarono le perquisizioni, i sequestri, gli arresti e i provvedimenti di espulsione nei locali e case ai danni di stranieri rei di avere idee antipatriottiche. La stampa applaudiva i provvedimenti e ne invocava di ancora più severi. Gli anarchici erano quelli più presi di mira.

In mezzo a questo clima surreale di isteria avvenne, finalmente, il tragico episodio.

Il 9 settembre del 1917, a Milwaukee, durante una manifestazione antianarchica nel quartiere a maggioranza italiana di Bay View indetta dal reverendo Augusto Giuliani fecero irruzione i diretti interessati che, durante l’inno americano, salirono sul palco e strapparono la bandiera a stelle e strisce. Ne seguì una baruffa e, quando arrivò la polizia, vennero esplosi numerosi colpi d’arma da fuoco. Restarono sul terreno due anarchici italiani ed un altro ferito grave, raggiunto da un proiettile alle spalle.

Vennero arrestati undici anarchici. La sede del loro piccolo circolo, intitolata al pedagogo Francisco Ferrer, perquisita ed i presenti malmenati.

La sera del 24 novembre successivo, una bambina undicenne figlia della donna addetta alle pulizie della chiesa di Bay View, trovò casualmente nel seminterrato del luogo di culto un tubo metallico di circa 30 cm di lunghezza e 20 cm di diametro.

L’oggetto venne portato al più vicino commissariato per essere esaminato. E proprio quando si trovava sul tavolo, con la polizia intenta ad ispezionarlo, che l’ordigno decise di esplodere uccidendo dieci agenti e una donna che si trovava sul posto per fare una denuncia. Altri sei poliziotti vennero gravemente feriti. La sede del commissariato risultò devastata dall’esplosione.

Gli undici arrestati per la sparatoria di settembre vennero portati in giudizio pochi giorni dopo la strage.

Come è facile immaginare, il processo fu il pretesto per vendicarsi della morte degli appartenenti alle forze dell’ordine. Nel pronunciare la sentenza, il giudice A. C. Backus, apostrofò gli imputati:

Tutti voi siete stranieri, residenti nel paese da pochi anni. Avete rifiutato tutto delle istituzioni americane, nonostante queste vi offrissero grandi possibilità. Questo è il migliore paese del mondo. Ma le vostre idee ananrchiche ed il vostro modo di fare hanno cercato di distruggerlo con la violenza. Voi non siete una forza creativa né costruttiva. I vostri propositi portano distruzione e rovina e la corte deve emettere una pena adeguata al crimine che avete commesso.

Vennero tutti condannati a venticinque anni di carcere per tentato omicidio.

*

Se si aspettano che confessi, possono aspettare finché avrò i capelli bianchi, perché non c’è nessuna confessione da fare.

[La sedicente Linda José ad un’altra prigioniera]

A due mesi di distanza dalla strage di Milwaukee, la scoperta di 36 candelotti di dinamite aveva evidentemente allertato i massimi organismi federali.

La sedicente Linda veniva interrogata a Chicago a più riprese dal procuratore federale Borrelli. Ma la ragazza continuava ad essere reticente.

Procuratore: Sapevi a cosa serviva la dinamite?

Ragazza: Sapevo che era usata nelle miniere.

P.: La domanda è se sai a cosa serviva la dinamite.

R.: Certo, sapevo che era un esplosivo.

P.: E sapevi che era usata nelle miniere per provocare esplosioni?

R.: Sì.

P.: Sapevi che era usata anche per far saltare in aria i palazzi?

R.: Sapevo che era un esplosivo.

Con le sue brevi risposte ai giornalisti che l’attendevano fuori dal palazzo federale, i quali fin da subito avevano preso a chiamarla Dynamite Girl, divenne un personaggio pubblico ideale per i pennivendoli della carta stampata.

Una ragazzina dalla dubbia identità, invischiata in un torbido affare di esplosivi, che poteva essere detestata o amata per gli stessi identici motivi.

Non credo in Dio né al governo né alle leggi. Non credo nella guerra. Non m’importa cosa mi succederà”, dichiarava la sedicente Linda José.

*

La mattina del 15 aprile del 1918, vennero rinvenute due bombe presso la casa del procuratore Zabel, capo dell’accusa nel processo di Milwaukee. I due ordigni, però, a causa della pioggia che era caduta incessantemente per tutta la notte, non erano esplosi.

Le due bombe pesavano 10 kg e contenevano una quantità di dinamite e pezzi di metallo tale che avrebbero di certo distrutto l’abitazione del funzionario e diverse altre case negli immediati paraggi.

Questo non è altro che un tentativo di risposta per aver spedito i dodici [sic] implicati negli scontri di Bay View a Waupun per venticinque anni”, dichiarò il procuratore Zabel.

Ed aveva ragione, ma non aveva assolutamente idea di chi materialmente aveva attentato alla sua vita.

La più logica delle piste portava ai compagni di Milwaukee delle persone che aveva fatto condannare. Ma, nonostante gli interrogatori e le perquisizioni, non veniva fuori niente di concreto.

Zabel si rese presto conto di brancolare nel buio.

*

È la ragazza più intelligente che abbia mai incontrato nella mia carriera di investigatore.”

[Clinton G. Clabaugh]

Fu con un’innegabile espressione di trionfo che il caposezione del Bureau of InvestigationClabaugh, ricevette l’ormai famosa Dynamite Girl nel suo ufficio di Chicago.

Aveva appena scoperto l’identità della ragazza.

Si chiamava Gabriella Antolini. Di anni 18. Italiana di nascita. Sposata.

Gabriella, chiamata da tutti Ella, era nata nel 1899 nella provincia di Ferrara in una famiglia di contadini poveri. Tanto poveri che, nel 1907, avevano deciso di tentare la fortuna in America, in Louisiana precisamente.

Ella aveva tre fratelli più grandi di lei ed una sorella più piccola.

Dopo cinque anni di vita miserevole, passata in cera di lavori malpagati di città in città, di baracche in cui vivere, il padre e la madre, stanchi, avevano deciso di tornare nei luoghi di origine, portandosi dietro le figlie.

I figli maschi, Luigi, Alberto e Renato, erano restati negli States. In breve tempo avevano trovato tutti un impiego, I primi due a fare I muratori a New Britain, nel Connecticut, e l’ultimo come coltivatore a Vineland, nel new Jersey.

Nel 1913, quindi, Ella, con i genitori e la sorella, aveva attraversato di nuovo l’Oceano e si erano stabili a New Britain.

Ella aveva frequentato un anno di scuola, poi era stata mandata a lavorare in fabbrica.

Era una bambina particolare. Nonostante la fatica del lavoro, era assetata di conoscenza. Leggeva tantissimo, sia in italiano che in inglese, attratta soprattutto dalla letteratura e dall’arte.

Ben presto, influenzata da Luigi ed Alberto, che si professavano anarchici e che erano abbonati nonché distributori di Cronaca Sovversiva, Ella aveva cominciato ad interessarsi anche ai temi sociali.

Ungiorno del giugno del 1915, Alberto aveva invitato nella loro casa al 129 di Lawlor Street, un suo amico, un operaio ventitreenne di origini trentine di nome August Segata.

Agli occhi di Ella, August detto Gugu era bello. Biondo, parlava di anarchia con un accento che lo rendeva attrattivo. Ed Ella se ne era innamorata subito.

Ella e Gugu si erano sposati, e non poteva essere altrimenti, il primo di maggio dell’anno successivo e si erano trasferiti in un piccolo appartamento al numero 236 di Oak Street, non lontano dalla famiglia di lei.

Ella, allora diciassettenne, aveva trovato un lavoro nella fabbrica Fafner Bearing Company. Ma fuori era ormai impegnata a tutti gli effetti con il movimento anarchico. Il suo caporeparto avrebbe dichiarato in seguito:

… parlava spesso di socialismo e guardava con aperta simpatia all’anarchia.

Con il marito, facevano parte del circolo anarchico I Liberi, al numero 85 di Mill Street nel quartiere industriale della città, e insieme frequentavano I numerosi picnic, balli, conferenze e opere teatrali che il gruppo libertario organizzava. Ella aveva cominciato a recitare delle parti nelle opere che venivano rappresentate, opere di Pietro Gori ed altri autori anarchici.

Era per questo che le era venuto in mente di fornire alla polizia il nome di Linda José, da uno dei personaggi che interpretava.

Nell’estate del 1917, durante una delle tournée teatrali, Ella aveva conosciuto, tra gli altri simpatizzanti di Galleani e di Cronaca Sovversiva, Carlo Valdinoci che, all’epoca, stava vivendo anche lui a New Britain, a casa di Giobbe e Irma Sanchini, tra I principali animatori del circolo I Liberi e come dei genitori per la ragazza.

Carlo era di quattro anni maggiore di Ella, essendo nato nel 1895, anche lui originario dell’Emilia Romagna. Di professione falegname, era emigrato negli Stati Uniti poco più che adolescente, stabilendosi a Roxbury, nel ???, dove abitavano molti anarchici suo compaesani. Era diventato anarchico a sua volta ed aveva stretto una forte amicizia con un tale Mario Buda.

Nel ’13, era diventato sostenitore di Cronaca Sovversiva e, insieme a suo fratello Enrico ed a Mario, si era trasferito a Cambridge travando lavoro nella fabbrica di ceramiche A. H. Hess Company. Dal 1915, si era messo a lavorare in proprio come carpentiere.

Carlo era un giovane alto e bello, il cui tratto che più colpiva erano I lunghi capelli ricci e neri come la notte, pettinati all’indietro.

Intelligente, brillante, dotato di una parlantina sciolta, restava immediatamente simpatico agli uomini e faceva cadere innamorate le donne.

Ella non aveva fatto eccezione ed aveva continuato a frequentare Carlo ma “sempre con mio marito, non c’era niente di male”.

Alla fine dell’estate, però, August Segata e Carlo Valdinoci, insieme ad un pugno di sostenitori di Cronaca Sovversiva, tra i quali c’erano Mario Buda, Giovanni Scusset, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, erano partiti per il Messico.

I motivi di quel viaggio erano dati dalla necessità di sfuggire alla coscrizione obbligatoria, per alcuni, e dalla convinzione che, da lì a poco, in Italia sarebbe scoppiata la rivoluzione sull’esempio di quella russa.

Il gruppo, stabilitosi a Monterrey, si era messo ad esercitarsi nelle armi ed alla fabbricazione di ordigni esplosivi. Ma le settimane erano passate e dall’altra parte dell’Oceano non era arrivata alcuna notizia di sollevazioni.

In compenso, a quella sessantina di sovversivi era arrivata la voce dell’eccidio di Milwaukee di settembre. Alcuni di questi uomini, desiderosi di un’azione che tardava ad arrivare, decisero di rientrare clandestinamente negli Stati Uniti per cercare vendetta.

*

Durante il periodo in cui gli uomini erano fuggiti in Messico, Ella era rimasta in contatto epistolario anche con Carlo ma, a partire da novembre, le lettere di quest’ultimo non erano più arrivate.

Poi, all’inizio di gennaio del 1918, alla vigilia della sentenza per i fatti di Milwaukee, Ella aveva ricevuto una lettera con la firma di Carlo. Questi le chiedeva di raggiungerlo a Youngstown per un affare della massima importanza.

Il giorno dopo, lei ed August si erano recati a Hartford e, da lì, avevano preso il treno per Youngstown. Una volta giunti a destinazione, un taxi li aveva portati al numero 910 di West Woodland dove vivevano Carlo Valdinoci e Giovanni Scussel, ospiti di una famiglia italiana. Era la mezzanotte del 13 gennaio.

I quattro erano rimasti a parlare davanti alla stufa fino all’alba per poi crollare addormentati.

Ella ed il marito si erano svegliati verso le 15 ed erano andati allo York Hotel, dove si erano registrati come il signor e la signora Bianchi.

La mattina dopo, di buon ora, si erano recati a fare colazione in caffè vicino in cui erano attesi da tre uomini. Uno di questi era Carlo. Gli altri due si erano presentati ad Ella come Luigi Backet (in realtà Bacchetti) e Mario Rusta (in realtà Buda). Quest’ultimo le aveva passato la valigetta nera con la dinamite, che doveva essere usata per altre azioni a Milwaukee. Il compito di Ella sarebbe stato quello di portarla fino a Chicago.

Il 16 gennaio, Ella e Carlo, lasciando August a Youngstown, anziché prendere un treno con destinazione Chicago, avevano preso un convoglio per Steubenville.

Un agente federale avrebbe successivamente commentato: “È proprio un bel giro lungo da Youngstown a Steubenville; quel che avevano da fare doveva essere molto importante.

in effetti, in quella città abitava tale Emilio Coda, altro sostenitore di Cronaca Sovversiva che aveva fatto parte del gruppo che era andato in Messico, e che poteva, dato il suo lavoro di minatore, facilmente reperire altra dinamite.

Backet gli aveva inviato un telegramma preannunciando l’arrivo della coppia.

Il fatto era stato che Coda non lo aveva mai ricevuto, essendo fuori casa per un giro di conferenze, e Carlo ed Ella si erano ritrovati soli a Steubenville senza sapere né cosa fare né dove andare.

Avevano deciso quindi di affittare una stanza in hotel per passare la notte, poiché il treno per Chicago sarebbe partito solo l’indomani.

Quella notte, Ella e Carlo era finalmente diventati amanti.

*

Nonostante tutto, una traccia che poteva far risalire a Carlo, Ella l’aveva lasciata.

Una traccia che avrebbe anche,forse, potuto portare alla scoperta degli autori della bomba di Milwaukee e delle altre bombe che sarebbero esplose successivamente.

Tra la corrispondenza inviata dalla ragazza subito dopo il suo arresto, risultava una lettera del 18 gennaio spedita al numero 448 di Lansing Avenue a Youngstown per un tale Carlo Rossini.

Clabaugh aveva trasmesso l’informazione al responsabile di Cleveland, Charles DeWoody, e questi aveva incaricato d’indagare il suo miglior agente, Rayme Finch.

L’agente federale aveva cerificato che l’indirizzo in questione corrispondeva alla residenza di un certo Arduino Tremonti e che questo Rossini solo vi ritirava la posta.

Il tenace Finch non si era certo fermato e, nel giro di poco, aveva scoperto la casa in cui questo Carlo abitava, solo che qua si faceva chiamare con il cognome di Lodi.

La casa corrispondeva, naturalmente, a quella in cui Ella ed August si erano fatti portare la notte in cui erano arrivati a Youngstown, il 910 di West Woodland Avenue, di proprietà di Luigi Coda.

Mentre attendeva l’arrivo dei due affittuari, Finch si era messo ad interrogare la figlia del padrone di casa, Penn Coda. La ragazza aveva riconosciuto la sedicente Linda José in una foto che gli era stata mostrata ed aveva descritto Carlo, soffermandosi soprattutto sui capelli, scuri come l’ebano e pettinati all’indietro. “Erano molto ricci e bellissimi.”, confermando che probabilmente era lo stesso uomo che aveva accompagnato Linda José alla stazione di Steubenville.

Alla fine, in casa, si era presentato il solo Giovanni Scussel che Finch, dopo una perquisizione nella sua stanza, aveva arrestato per il possesso illegale di due pistole.

Carlo, invece, sembrava aver annusato il pericolo e non si era presentato.

Finch, però, non era certo il tipo da mollare la presa e si era messo sulle sue tracce. Ma, ogni volta che l’arresto sembrava cosa fatta, l’uomo dai lunghi capelli ricci e neri, non si sa come, riusciva a sfuggirgli.

L’inseguimento lo aveva portato attraverso diversi stati, fino a Fairmont, in West Virginia, dove Carlo aveva fatto in modo di dileguarsi definitivamente.

*

Ella fu finalmente incriminata davanti al Gran Giurì per trasporto illegale di esplosivi il 3 giugno del 1918.

Il 21 ottobre successivo, fu condannata alla pena massima, 18 mesi di reclusione e 2.000 dollari di multa.

All’inizio di novembre venne trasferita nel carcere federale Missouri State Penitentiary di Jefferson City.

Il carcere ospitava allora circa 200 detenuti di cui una ottantina di donne.

Ella venne messa nella cella accanto a quella della celebre anarchica di origini russe, Emma Goldman.

La Goldman, 48 anni, che era stata condannata a due anni per propaganda contro la leva obbligatoria, fu particolarmente colpita dall’arrivo della giovane italiana: “Come un raggio di sole portò allegria tra le recluse e a me una grande gioia.

Tra le due nacque un profondo rapporto di amicizia molto simile però a quello che possono avere una madre e una figlia.

Lavoravano insieme durante il giorno, cucendo grembiuli giacche e bretelle, e la sera passavano il tempo in lunghissime conversazioni.

Emma Goldman

Nell’aprile del 1919, entrò in carcere Kate Richards O’Hare, 43 anni, la più famosa donna socialista dell’epoca negli Stati Uniti, condannata a 5 anni per violazione dell’Espionaga Act, per aver parlato contro la guerra durante un comizio.

Emma si prese cura di me e di Ella, come un padre e una madre insieme. È proprio una gran cosa avere qui con me due donne come le due politiche”. Emma è molto gentile e dolce e una compagna di idee, mentre la giovane ragazza è un tesoro. Stiamo vivendo momenti davvero interessanti.

Vivendo in celle una vicina all’altra, le tre presero a parlare di loro stesse come del “Soviet rivoluzionario americano”.

Con Emma ed Ella al mio fianco, il Comitato esecutivo tiene riunioni segretissime per dirigere gli affari del mondo. Immagina che storie interessanti potranno scrivere gli storici del futuro su questo strano trio e le cose che faceva.”

Oltre al carattere dolce e solare di Emma, Kate fu colpita anche dalla sua sete di conoscenza. Leggeva tutto quello che lei le passava, analizzava e discuteva parole e pensieri, ed aveva incominciato a scrivere una storia della sua vita.

Però, questa specie di soggiorno forzato ma in qualche modo felice, era destinato a finire.

Il 4 dicembre del 1919, ad un mese circa dalla data della sua scarcerazione, gli agenti del Bureau of Immigration portarono ad Ella un mandato per la richiesta di deportazione in Italia.

*

Nel frattempo, per il giornale Cronaca Sovversiva ed i suoi sostenitori, i tempi si erano fatti ancora più difficili.

Dopo l’arresto di ScusselBacket e Segata si erano resi irreperibili.

I materiali rinvenuti nelle loro abitazioni, però, mettevano indiscutibilmente il relazione gli indagati con il giornale di Luigi Galleani.

Con queste specie di prove, Finch si era presentato dal suo capo, DeWoody, chiedendo l’autorizzazione per una perquisizione nei locali di Cronaca Sovversiva.

Non ci aveva messo molto a convincere il suo superiore. Si potevano trovare elementi che potevano collegare il periodico ed i suoi seguaci alla dinamite di Chicago, portare all’arresto del famoso Carlo e deportare Galleani e quanti fossero stati a lui strettamente legati.

Il 22 febbraio del 1918, decine tra agenti del Bureau of Investigation, sceriffi federali e poliziotti locali, con a capo lo stesso Finch, avevano fatto irruzione nei locali di Cronaca Sovversiva a Lynn.

Anche se non erano riusciti a mettere le mani sull’elenco dei sottoscrittori del giornale, dalle etichette con gli indirizzi sulle copie dell’ultimo numero, gli agenti avevano potuto ricavare una lista di sovversivi comunque abbastanza lunga.

Sulla base dei documenti sequestrati, il Bureau of Investigation aveva spiccato un centinaio di mandati di cattura per anarchici sparsi in tutto il paese, anche se all’incirca la metà di questi abitavano nel New England.

Il 15 maggio era scattata la retata. Erano stati tratti in arresto una trentina di anarchici in qualche modo legati a Cronaca SovversivaGalleani era stato arrestato il giorno successivo e portato negli uffici del Bureau of Immigration a East Boston.

Il 18 giugno, Cronaca Sovversiva era stata messa fuori legge.

Galleani, però, da parte sua, non aveva certo intenzione di smettere di editare la sua creatura. Tutte le macchine da stampa erano state smontate pezzo per pezzo e, insieme ai materiali utili per la pubblicazione, erano state portate di nascosto a Providence.

Da lì, i sostenitori di Galleani sarebbe riusciti a pubblicare altri due numeri, nel marzo e nel maggio del 1920.

il 24 giugno del 1919, Galleani, insieme ad altri otto suoi compagni, era stato trasferito da Boston ad Ellis Island, l’anticamera della deportazione.

Dopo diciotto anni vissuti in America, il vecchio anarchico fece, dunque, ritorno in Italia.

Nel febbraio del 1919, erano state rinvenute in tutto il New England copie di un volantino dal titolo GO-HEAD! a firma The American Anarchists.

Il testo terminava con queste frasi:

Voi non avete dimostrato pietà nei nostri confronti! Noi faremo lo stesso!

E deportateci! Noi vi faremo saltare in aria!

La mattina del 28 aprile, un piccolo pacco era arrivato per posta nell’ufficio del sindaco di SeattleOle Hanson.

Essendo questi assente, il pacco era stato aperto da un impiegato. Per sua fortuna, lo aveva aperto dal lato sbagliato e una bottiglietta ripiena di liquido era rotolata sulla scrivania.

Si trattava dell’innesco di una bomba artigianale costituita da un candelotto di dinamite e piena di pezzi di metallo.

Il sindaco Hansen, che era l’obbiettivo dell’ordigno, nel febbraio precedente aveva chiamato l’esercito per stroncare uno sciopero dei lavoratori contro l’aumento del costo della vita.

Il giorno dopo, un pacco identico venne recapitato a casa dell’ex senatore Thomas Hardwich, promotore l’anno prima del disegno di legge sulla deportazione, ad Atlanta,

La moglie dell’uomo politico aveva chiesto alla cameriera di colore di aprire la scatola. L’esplosione aveva fatto perdere la mai alla serva e aveva bruciato il collo e parte del viso della padrona.

Grazie alla diffusione della descrizione del pacco, una scatola di circa diciassette cm per sette ricoperta da carta marrone con un’etichetta di Gimbel Brothers , con le scritte Novelty e Sample e il disegno di uno scalatore di montagna, un impiegato delle poste di New York aveva segnalato alla polizia che, tre giorni prima, aveva messo da parte 16 pacchi identici per un¡affrancatura insufficiente ed latri ancora li aveva spediti.

Alla fine erano stati rinvenuti 30 pacchi bomba, tutti indirizzati a politici, giudici, imprenditori e poliziotti. Tra questi figuravano Mitchell Palmer, procuratore generale degli Stati Uniti, Anthony Caminetti, commissario generale per l’Immigrazione, e gli uomini d’affari John Rockfeller e J. P. Morgan.

Nessuna delle bombe aveva raggiunto il suo obbiettivo ma lo scalpore era stato comunque enorme.

Una di queste bombe era stata indirizzata all’agente Finch, che tanto alacremente aveva lavorato per incastrare I galleanisti.

Finch era stato allora preso dalla paura. Si era dimesso “per motivi di salute” e si era ritirato a vita privata sulle montagne della Pennsylvania, lontano da tutto e da tutti.

Il clamore per la serie di attentati era appena scemato quando, il 2 giugno, erano esplose bombe in sette diverse città.

Questa volta gli esplosivi erano stati portati direttamente a mano dagli attentatori davanti alle case dei loro obbiettivi designati.

Tutte le bombe erano esplose attorno alla mezzanotte e, nei pressi dei luoghi delle esplosioni, erano stati lasciati dei volantini dal titolo Plain Words.

Voi avete provocato lo scontro. Voi ci avete rinchiuso, deportato e ucciso. Noi accettiamo la sfida. Il proletariato ha il diritto di proteggersi, in quanto la sua stampa è stata soffocata, le bocche imbavagliate, intendiamo parlare per esso con la voce della dinamite […]”

La dinamite aveva distrutto la facciata delle case del giudice Albert Hayden, che aveva condannato I manifestanti del 1º maggio, e del deputato Leland Powers, che aveva introdotto nel Massachussets una legge antisedizione simile a quella federale, tutti e due a Boston; quella del giudice della Corte municipale Charles Nott, che quattro anni prima aveva condannato due anarchici italiani per aver tentato di piazzare una bomba nella cattedrale di StPatrick, a New York; quella di Harry Klotz, presidente della Suahna Silk Company, che si era attivamente opposto all’introduzione della settimana di 48 ore lavorative, a Paterson; quelle del giudice della Corte distrettuale degli Stati Uniti, W. H. S. Thompson e dell’ispettore del Bureau of Immigration, W.W. Sibray, che avevano entrambi seguito i procedimenti di espulsione di radicali stranieri, a Pittsburgh; quella del sindaco di Cleveland, Harry Davis, anche lui che aveva represso la manifestazione del 1º maggio; e della chiesa della Our Lady of Victory, a Philadelphia.

Tutte queste bombe provocarono ingenti danni materiali, con le facciate delle abitazioni quasi completamente distrutte, i vetri in frantumi, ma, tranne qualche ferito lieve, nessuna vittima. Questo se si esclude la bomba più sensazionale, quella esplosa a Washington, davanti al portone dell’abitazione del procuratore generale Palmer, in R Street nel quartiere di Northwest.

Erano all’incirca le 23:15 quando, mentre Palmer e sua moglie si stavano preparando per andare a letto, si udì un’esplosione terribile. Le pareti della casa tremarono, i vetri delle finestre andarono in frantumi. Le case vicine subirono la stessa sorte. In tutta la zona si sentiva un forte odore di acido.

Nel giro di poche ore, la strada si riempì di polizia, di pompieri e di agenti federali. Quello che scoprirono, tra i detriti sparsi un po’ ovunque, furono pezzi di ciò che una volta era stato una persona.

Non potevamo fare un passo senza vedere pezzi di carne umana. La casa di fronte a quella di Palmer ne era piena”, raccontò il sergente Burlingame.

Evidentemente, la bomba, per qualche motivo, era esplosa prima del previsto, uccidendo chi la stava depositando.

Pezzi di gambe, di colonna vertebrale, ossa, ma niente dita della mano che, forse, avrebbero aiutato all’identificazione della vittima attraverso le impronte digitali.

Passando al setaccio l’intero quartiere, la polizia fu in grado di rintracciare tra le macerie un revolver Smith & Wesson calibro 32 intatta e pezzi di una Colt calibro 32, resti di un borsone in finta pelle nera, un dizionario italiano-inglese, un sandalo marrone, frammenti di un abito scuro, di una cravatta blu a pois e di una bombetta nera. Poi, come nelle altre esplosioni, copie di Plain Words.

Il 3 giugno, sul tetto di una delle case in S Street, un pompiere ritrovò un’intera ciocca di capelli “neri e ricci”.

Dal momento in cui ricevette questa notizia, Ella capì che non avrebbe rivisto Carlo. Mai più.

*

Ella Antolini, la Dynamite Girl, non venne deportata.

Il giorno della sua scarcerazione, il 3 gennaio del 1920, venne direttamente trasferita a StLouis in attesa che si formalizzasse il decreto che la doveva obbligare a lasciare la terra americana.

Kate, tramite il marito Frank, riuscì a trovarle un avvocato che alla fine ottenne il non luogo a procedere.

Alla fine di aprile del 1920, Ella venne rimessa in libertà e fece ritorno dalla sua famiglia a New Britain.

In seguito, Ella si sarebbe spostata a Detroit dove avrebbe sposato il sarto Jerome Pumillia, con il quale avrebbe avuto due figli.

Si trasferì poi a Bston e, nel 1940, chiese il divorzio e andò ad abitare a Needham, dove erano andati a vivere gli ultimi sostenitori di Cronaca Sovversiva rimasti.

I suoi vicini di casa si chiamavano Emilio Coda e Giovanni Scussel.

Era ancora una donna stupenda. Tutti i giovani compagni andavano pazzi per lei.

Anni dopo, Ella si trasferì in Florida, continuando a nutrire la sua insaziabile sete di conoscenza, frequentando biblioteche e musei.

Nel 1982, ebbe un ictus che la lasciò parzialmente paralizzata, anche se lei, testarda, continuò a camminare e guidare la macchina per recarsi in biblioteca.

Ella morì di cancro il 23 gennaio 1984.

Secondo le sue volontà, venne cremata e le sue ceneri sparse nel parco nazionale di Everglades.

IL REICHSTAG BRUCIA! [1933]

– Perché lo ha fatto?

– Il nuovo mondo sta arrivando, ma non abbastanza in fretta. Il vecchio mondo se ne va, bisogna dare una spinta a quello che se ne va.

L’orologio era appena scattato sulle ore 21 e 15 del 27 febbraio, quando la stazione dei pompieri ricevette la chiamata da parte di uno studente universitario che, passando davanti al Reichstag, il palazzo del parlamento, aveva notato delle fiamme uscire dal tetto della costruzione.

Non era il primo allarme che i vigili avevano ricevuto in quei giorni.

Solo un paio di sere prima, gli addetti avevano dovuto intervenire tre volte nel giro di poche ore per salvare dalle fiamme edifici in qualche modo legati allo Stato. Fiamme che erano, comunque, riusciti a spengere nel giro di poco tempo.

Non era stato così quella sera del 27 febbraio. Quando le forze antincendio arrivarono sul luogo del delitto, l’edificio era già irrimedialmente in preda al fuoco.

Uno spettacolo visibile ormai da ogni punto della città di Berlino.

Lampi di luce nella notte …

Nuvole di fumo che si perdevano complici dell’oscurità …

La gente nelle strade che guardava verso il cielo … un cielo nero e carico di oscuri presagi …

La polizia arrivò subito dopo. Ma, soprattutto, giunse come una furia il sindaco di Berlino, Hermann Göring.

Passato poco tempo, i pompieri rintracciarono all’interno dell’edificio un giovane vestito solo da qualche straccio e dalla fuliggine che gli anneriva la pelle.

Una visione infernale, senza dubbio.

Quella creatura strana non ebbe esitazioni.

Si fece avanti. Passo dopo passo. E si consegnò praticamente ai pompieri, i quali lo portarono dalla polizia lì presente.

L’uomo era in possesso di un passaporto olandese, che riportava il nome di Marinus Van der Lubbe, e di una vecchia tessera d’iscrizione al Partito Comunista dello stesso paese.

Lo sapeva già? Non lo sapeva? Il piccolo grande uomo con quei baffi che sarebbero passati per sempre alla storia che comparve, dieci minuti dopo, al fianco di Göring, con gli occhi che riflettevano le fiamme degli ultimi focolai dentro il parlamento, aveva organizzato il tutto? O aveva afferrato semplicemente l’opportunità?

Poche ore dopo, veniva ordinato, e immediatamente eseguito, l’arresto dei principali dirigenti del Partito Comunista tedesco e quello dei bulgari Georgi Dimitrov, Vasil Tanev e Blagoi Popov, membri del Comintern presenti sul suolo germanico.

L’indomani, Hitler presentò sul tavolo del presidente Hindemburg un decreto che resterà famoso con il nome di Reichstagsbrandverordnung (Decreto dell’incendio del Reichstag) che dava al cancelliere, e cioè a lui stesso, il potere assoluto su tutti i Länder e di emanare condanne a morte per qualunque atto considerato contro lo Stato.

Contemporaneamente, Göring si recava dal capo della polizia prussiana, con una lista di 4.000 nomi di comunisti che dovevano al più presto messi in stato di arresto.

L’incendio del Reichstag era stato il chiaro segnale per l’insurrezione dei comunisti. Questa era la tesi di Görig e di Hitler, anzi , era la verità ufficiale.

La tesi opposta, presentata dai comunisti, era quella che l’incendio del Reichstag sarebbe stato opera dei nazisti stessi che avrebbero utilizzato un giovane per far ricadere la colpa su di loro e per scatenare la repressione sulla classe operaia. Che poi questo giovane fosse un agente al soldo di Göring e Hitler oppure un semplice mentecatto raggirato a piacimento, questo aveva poca o nessuna importanza.

Il dibattito sarebbe durato a lungo, e non sarebbe mai terminato, ma non avrebbe tenuto conto del personaggio principale di questa storia, il giovane che aveva appiccato l’incendio, relegandolo quasi sempre alla figura di marionetta di cui altri tiravano i fili.

Marinus Van der Lubbe, all’epoca dei fatti, aveva appena ventiquattro anni, essendo nato a Leiden, in Olanda, il 13 gennaio 1909.

Non aveva certo avuto un’infanzia facile, Marinus. I genitori si erano separati poco dopo la sua nascita ed era rimasto con la madre che, però, era morta quando lui aveva appena dodici anni.

Era stato costretto quindi a lavorare come muratore per poter sopravvivere. Ben presto, nel 1925, si era iscritto al Partito Comunista del suo paese.

Due incidenti sul lavoro, peròavvenuti a tre anni di distanza l’uno dall’altro, che gli avevano tutti e due procurato ferite agli occhi, erano destinati a cambiargli, ancora una volta, la vita.

Perso il lavoro, Marinus si era adattato a campare con il sussidio di sette fiorini e mezzo che gli dava l’ufficio di disoccupazione e con l’aiuto di svariati lavoretti occasionali.

A detta di chi lo conosceva, il ragazzo era un buon compagno ed ottimo lavoratore e, in città, avevano cominciato a chiamarlo Dempsey, come il pugile campione dei massimi, per la somiglianza e la forza.

Il suo sogno era quello di prendere in affitto un fondo da trasformare in una biblioteca ed in luogo di ritrovo e discussione per i compagni del quartiere e, già che c’era, ricavarci un posto per dormire in modo stabile. Ma gli mancavano i soldi e, almeno per il momento, decise di rinunciare.

Partì allora per un viaggio, a piedi ed in autostop, per alcune settimane, in cui visitò Belgio, Germania e Francia.

Al suo ritorno, i contrasti che sentiva di avere con la linea del Partito cominciarono ad evidenziarsi in modo che, più di una volta, Marinus venne espulso e poi, dietro atto di pentimento, riammesso tra le sue fila. In realtà, lui si sentiva più attratto dal comunismo detto consiliare, cioè dei consigli operai, che criticava il parlamentarismo e i sindacati, per propugnare l’azione diretta e l’autonomia di classe.

 … queste cose provano che non sono un buon bolscevico. Sento che ora, non sono certamente quello (ancorché radicalmente opposto al capitalismo e a tutto ciò che ne è legato) e che forse non lo sarò mai.

Adesso, a volte, mi sento totalmente estraneo in questo campo (intendo nel Partito).

[Marinus Van der Lubbe, dicembre 1929]

Tormentato dai dubbi, Marinus si risolse a partire per l’Unione Sovietica, per verificare in prima persona come si viveva nella patria del comunismo reale.

Insieme ad un amico, si scattarono una foto abbracciati e con i pugni alzati, e con quella fecero tutta una serie di cartoline con la scritta “viaggio operaio di sport e studio attraverso l’Europa e la Russia sovietica” in varie lingue. Le avrebbero vendute lungo il percorso, l’unico mezzo di autofinanziamento tra un tratto a piedi e un passaggio di fortuna sul retro di un camion.

Ma il Partito, che tutto veniva a sapere, decise di sabotare il progetto. Minacciando l’amico di Marinus di espulsione, naturalmente.

Rinus decise di partire lo stesso, da solo, ma prima, passò a dare una volta di più e, pensava, una volta per sempre, il suo addio al Partito.

Era l’aprile del 1931.

Marinus raggiunse Berlino ed al consolato russo si informò sul costo di un visto per entrare in Unione Sovietica. Troppo per le sue povere tasche, tanto che decise di tornare indietro.

Una volta messo piede in Olanda, venne arrestato e trattenuto in carcere per dieci giorni con l’accusa di propaganda sovversiva e vendita illegale. In pratica, le famose cartoline che dovevano aiutarlo ad arrivare nella supposta terra promessa.

Dopo aver lavorato come stagionale, Marinus ripartì, questa volta per visitare i Blacani, arrivando fino a Belgrado.

Tornato in patria, Marinus si rimise in cerca di finanziamenti per poter prendere in affitto un locale dove impiantare la sua biblioteca/casa. Si recò quindi all’ufficio di disoccupazione per chiedere un contributo per i costi. Ma gli impiegati non condividevano affatto il suo entusiasmo.

Al secondo rifiuto, Marinus perse la pazienza e decise di vendicarsi e, una notte, andò a spaccare le vetrine dell’ufficio.

Ricercato per quel gesto, nel gennaio del 1932, il giovane tentò di nuovo, con mezzi di fortuna, di raggiungere l’Unione Sovietica.

Venne arrestato proprio al confine con la Polonia e, accusato di attraversamento illegale, dovette scontare tre settimane di carcere, al termine delle quali venne rispedito al suo paese.

In Olanda, lo aspettava una condanna a tre mesi di prigione a L’Aia, per la vetrina distrutta.

Quando, in ottobre, Marinus uscì dal carcere, era più determinato che mai a inseguire il progetto della biblioteca. Si piazzò, quindi, davanti all’ufficio di disoccupazione e iniziò uno sciopero della fame. Dopo undici giorni senza alimentarsi, la ebbe vinta e gli venne assegnato un finanziamento che gli permise di coronare il suo sogno.

Una volta installato nel nuovo locale, Marinus con i suoi amici riprese l’attività politica fondando il giornale Werkloozenkrant (giornale dei disoccupati).

Il foglio, di cui uscirono tre numeri, difendeva posizioni dell’autonomia operaia, contro i partiti e i sindacati, ed era favorevole ad azioni violente da parte di una minoranza al fine di “provocare conflitti di classe“.

Ma l’attività di Marinus non si fermò alla redazione del giornale. Cominciò a girare il paese a sostegno dei vari scioperi, come per esempio quello dei taxisti dell’Aia nel dicembre del ’32.

Purtroppo, a causa soprattutto del soggiorno in carcere, le condizioni dei suoi occhi erano sensibilmente peggiorate, sfociando in una forma di tubercolosi che rischiava di renderlo cieco in breve tempo.

Marinus si fece operare nel gennaio del 1933. Dopo alcune settimane di convalescenza in ospedale, Marinus venne dimesso e, una volta fuori, venne a conoscenza della nomina di Adolf Hitler a cancelliere tedesco, avvenuta il 30 gennaio.

Le notizie che arrivavano tramite la stampa dalla Germania parlavano di scontri tra operai e nazisti per le strade di Berlino e nelle altre principali città tedesche.

Marinus decise allora di partire, voleva combattere il nazismo al fianco del proletariato tedesco, faccia a faccia con il nemico.

E, dopo una settimana appena dalla sua dimissione dall’ospedale, Marinus si incamminò alla volta della capitale germanica.

Arrivò a Berlino il 18 febbraio.

Dopo aver attraversato la Germania, a piedi o con passaggi occasionali, passando per Cléves, Düssendorf, Essen, Bochum, Dortmund, Braumschweig, Magdeburg e Potsdam, per un totale di 800 km, più o meno.

Quello che Marinus, tuttavia, ignorava era che la realtà era molto, ma molto diversa da ciò che era raccontato dagli scribacchini del suo paese.

Non c’erano affatto scontri tra operai e nazisti.

Niente di tutto ciò.

La pace, e una certa aria di rassegnazione, regnavano sovrane per le strade di Berlino.

Anche nei quartieri storicamente di appartenenza operaia.

E, forse, Marinus non conosceva neppure la linea politica dettata dal Partito Comunista tedesco alla classe operaia del proprio paese, secondo la quale i socialisti erano i veri nemici della rivoluzione e i nazisti, invece, erano gente che si sarebbe potuta portare sulle “nostre posizioni“.

Ragion per cui, per dirla esattamente con le parole dell’allora segretario del Partito, Thälmann, nell’autunno del 1932, la conseguenza era “... inchinarsi di fronte al nuovo rapporto di forza e lasciare il fascismo di usare il potere. Ogni atto di violenza sarà denunciato dal Partito Comunista come una provocazione e i suoi autori messi al bando dal proletariato come agenti del fascismo.

Una specie di furia cominciò a montare.

Com’era possibile?

Com’era possibile che un partito che diceva di voler difendere i lavoratori di tutto il mondo non proponesse altro che l’attesa?

Sembrava un sogno, anzi un incubo, da cui sembrava impossibile svegliarsi.

Non erano passate nemmeno due settimane da quando era arrivato a Berlino.

Era andato a riunioni, assemblee. Solo per rendersi conto di quanto fosse la realtà differente da quanto si era immaginato.

Non c’era alcuna rivolta.

E se non c’erano rivolte, lui le avrebbe create, o almeno ci avrebbe provato.

L’idea venne così, mentre camminava senza quasi un soldo, rimuginando, imprecando, ricordando il passato, immaginandosi il futuro …

Ed il caso lo spinse a passare davanti ad un negozio che vendeva articoli per la casa.

E l’istinto lo fermò appena un metro dopo aver passato la vetrina.

E una forza misteriosa lo spinse a tornare sui suoi passi, guardare all’interno e, un secondo dopo, entrare all’interno.

Quando vide le scatole di fiammiferi ebbe come un’illuminazione.

Ne comprò quattro. Le scarse finanze non gli permettevano di più.

Si diresse subito verso il primo luogo simbolico che conosceva che gli venne in mente.

L’ufficio di disoccupazione di Neukölln.

Era la sera del 25 febbraio. Le 18 e 30 circa. Le strade erano già buie e deserte.

Marinus saltò il cancello sul retro, trovò una finestrella aperta e gettò all’interno una scatola di fiammiferi accesa il più vicino possibile a qualcosa che poteva prendere fuoco.

Non aspettò nemmeno di sapere se il suo intento era andato a buon fine.

La sua mente pensava veloce. Già stava correndo verso il suo prossimo obbiettivo. Prese la metro e scese in centro.

Il municipio di Berlino.

Ci arrivò verso le 19 e 15. Fece un giro attorno all’edificio fino a che non trovò una finestra aperta e ripetè il gesto.

Gli rimanevano ancora due pacchetti. Camminava veloce ma senza sapere dove andare. Non gli veniva in mente niente.

Poi, superato il ponte sullo Spree, arrivò in una piazza e, di nuovo, ebbe una visione.

Lo Stadtschloss, il palazzo imperiale.

Il palazzo simbolo della dinastia degli Hohenzollern e residenza dell’ultimo imperatore tedesco, Guglielmo II, fino alla sua destituzione nel 1918.

Si arrampicò fino ad arrivare al tetto e, da lì, trovò il modo di tirare le due ultime scatole accese.

Erano passate da poco le 20.

Il giorno dopo, Marinus si svegliò verso le 9 e si recò a Spandau, presso l’ufficio stranieri della polizia per regolarizzare la propria precaria posizione.

Venne rilasciato solo alle 8 della mattina successiva con l’intimazione di lasciare il paese e si incamminò verso Berlino con una sensazione di rabbia e impotenza crescenti. Mentre camminava, ragionava su quanto aveva fatto solo due giorni prima e giunse alla conclusione che, prima di lasciare la capitale tedesca come gli era stato ordinato, avrebbe provato un utlimo gesto clamoroso per svegliare il popolo dal suo letargo.

Giunto in città, si diresse direttamente verso la piazza dove sorge il Reichstag. Erano le 5 del pomeriggio.

Marinus cominciò a girare attorno al palazzo, sempre in modo da non farsi notare troppo, per individuare una porta o una finestra dalla quale sarebbe stato possibile introdursi all’interno.

Poi, andò a comprare quattro pacchetti di fiammiferi con l’ultimo marco che gli restava in tasca.

Marinus penetrò nel palazzo del parlamento poco dopo le 8, attraverso una delle finestre del ristorante riservato agli onorevoli. Dovette scavalcare un muro e arrampicarsi su un balcone per entrare nel Reichstag vero e proprio.

Non conoscendo l’edificio, cominciò a vagare qua e là appiccando qualche focolare che alimentò stracciandosi i vestiti che portava addosso. Fino non a che non arrivò nella grande aula dei dibattimenti.

Lì, complici i banchi di legno vecchio di decenni, se non di secoli, il fuoco prese in fretta e le fiamme montarono alte verso il soffitto.

Dopo pochi minuti, la cupola costruita in vetro e metallo, per l’effetto camino, esplose, lasciando libere le fiamme di salire verso il cielo.

L’incendio venne definitivamente domato verso le ore 23.

Per quell’ora, quello che sarebbe dovuto accadere dopo era già stato, a grandi linee, deciso.

Certo, mancava la confessione dell’autore del misfatto, ma quello era un dettaglio che, con tutta calma, si sarebbe ottenuto facilmente, fornendo così la giustificazione all’ondata di arresti che si sarebbe abbattuta sul paese.

Il fatto era che Marinus, non era che non confessasse, ma che raccontava, si ostinava a raccontare la sua verità.

Che non era proprio ciò che chi lo interrogava voleva sentire.

No, nessuno sapeva delle sue intenzioni.

No, non era iscritto al Partito. Non più.

Sì, aveva fatto tutto da solo.

Sì, si aspettava che il proletariato scendesse in strada e si ribellasse contro il governo.

E allora, giù botte. Ma lui, niente. Continuava a ripetere la stessa storia.

Il capo della polizia prussiana, Rudolf Diels, era uno sbirro ma non uno di quelli che si faceva mettere i piedi in testa dai politici.

Dopo qualche settimana di pestaggi al prigioniero, un dubbio cominciò a scavare dentro il suo cervello.

E se le cose si fossero davvero svolte come il Van der Lubbe continuava a ripetere?

E se davvero non esistesse quel complotto per il quale i suoi capi politici gli facevano pressione autorizzandolo ad utilizzare la tortura?

Diels dispose una perizia per verificare se tutto quello che l’imputato diceva di aver fatto in tre giorni fosse davvero stato possibile per un solo uomo.

Il risultato fu che, sì, era assolutamente possibile.

Marinus venne rinchiuso nel carcere di Alt-Moabit, in condizioni molto particolari.

In isolamento, la luce accesa ventiquattr’ore su ventiquattro, controllo a vista, interrogatori frequenti.

Si mise in sciopero della fame dal 16 marzo e venne alimentato a forza. Venne ammanettato ai polsi e alle caviglie.

Gli altri imputati per l’incendio, i tre bulgari e Torgler, il capogruppo del Partito Comunista al Reichstag, ricevettero un trattamento completamente diverso, almeno a quanto si può desumere dalle cronache e dalle foto dell’epoca.

Marinus continuava a raccontare la sua versione – agli sbirri, ai familiari, ai suoi compagni, nelle lettere ai giornali comunisti che lo accusavano apertamente di essere un agente al soldo dei nazisti.

Il morale non era basso. Marinus non temeva il supplizio. E nemmeno si preoccupava per quelli che tra i suoi compagni lo chiamavano provocatore o, addirittura, sbirro.

… del resto, compagno, sulla questione “provocatore” o cose simili, non ti preoccupare. È tutto chiaro come il cristallo.

Ciò che Marinus sembrava non tenere in conto era il potentissimo apparato di propaganda che il Partito era in grado di dispiegare.

Nell’agosto del ’33, venne dato alle stampe un libello dal titolo “Libro bruno sull’incendio del Reichstag e il terrore hitleriano”, da parte del Comitato Internazionale d’aiuto alle vittime del fascismo hitleriano.

Nel libretto, tradotto in una quindicina di lingue e distribuito in milioni di esemplari, Marinus veniva definito come uno “sbirro al soldo di Hitler“, sminuito come “figlio di piccoli borghesi” e insultato come “pederasta mezzo cieco“.

Ben poche voci si presero la briga di contestare questa versione.

Il processo iniziò il 21 settembre del 1933 presso la Corte Suprema di Leipzig, alla presenza della stampa internazionale.

Marinus si presentò in aula in pessime condizioni di salute. Aveva perso 13 kili. Il suo sguardo, quando non aveva il capo chino, era assente.

Il 23 dicembre dello stesso anno, Marinus Van der Lubbe venne condannato a morte.

Gli altri quattro imputati vennero invece assolti per mancanza di prove.

La condanna venne eseguita il 10 gennaio del 1934, nel cortile della prigione di Leipzig, mediante decapitazione.

Marinus avrebbe compiuto 25 anni tre giorni dopo.

INVITO A PRANZO [1962]

La telefonata che lo invitava a pranzo arrivò la sera del 27 settembre. Era il segretario del vicesindaco di Milano, il democristiano Luigi Meda, il quale per scambiare alcuni punti di vista, chiedeva se era disponibile ad incontrarsi con il suo capo nel celebre ristorante La Giarrettiera, in galleria.

Il viceconsole onorario Isu Elias, che esercitava la carica in assenza del titolare, il Conte di Altea, in vacanza in Spagna, accettò l’invito.

Per risparmiargli noie ed attese, il segretario del vicesindaco assicurò che una macchina con autista lo avrebbe aspettato sotto il consolato e condotto direttamente al ristorante.

Puntualmente, la mattina dopo, passato mezzogiorno, il segretario del vicesindaco bussò al portone del consolato spagnolo.

L’uomo, che appariva piuttosto giovane, accompagnò il viceconsole fino all’auto in attesa e lo fece accomodare nei posti di dietro, mentre lui si sistemava accano all’autista.

Nel momento in cui quest‘ultimo metteva in moto, però, le porte posteriori si spalancarono e due giovani armati di pistole salirono a bordo, spingendo il diplomatico nel mezzo.

A quel punto, la macchina partì a tutta velocità.

Solo qualche giorno prima, esattamente il 22 settembre, il Tribunale Militare di Barcellona aveva condannato tre giovani appartenenti alle Juventudes Libertarias (JJ.LL.), Jorge Conill, Marcelino Jimenez e Antonio Mur, a pesantissime pene detentive.

I tre erano accusati di aver posto, nella notte tra il 29 e il 30 giugno precedenti, delle bombe davanti ad una sezione della Falange spagnola, in una sede dell’Opus Dei e su una finestra dell’Istituto Nacional de Prevision. Tre bombe che aveva fatto, in realtà, molto più rumore che danni.

Il procuratore aveva, però, fatto ricorso richiedendo per Conill, che era stato condannato a 30 anni, la pena di morte.

Quel che non risultava dagli atti del processo, perché doveva rimanere assolutamente segreto, e che, però, giustificava la richiesta della pena più estrema, era che Conill aveva fatto parte di un complotto ordito dagli anarchici, in collaborazione con i separatisti baschi, per attentare alla vita del Generalissimo Francisco Franco.

Il tentativo si sarebbe dovuto attuare a San Sebastian, in agosto, fuori dalla residenza del dittatore, il Palazzo d’Aiete, il cui arrivo era previsto a breve, quando questi sarebbe passato con l’auto.

La pioggia insistente di quei giorni, aveva spinto gli attentatori a non aspettare più a lungo. La carica fu così fatta saltare il giorno 18 agosto a scopo dimostrativo.

Il dittatore aveva fatto il suo ingresso nel Palazzo esattamente ventiquattr’ore dopo, non senza notare il notevole cratere lasciato sulla strada dall’esplosione a lui, senza ombra di dubbio, diretta.

Un affronto da lavare con il sangue, appunto.

Gli autori del sequestro del viceconsole Elias erano otto giovani, quattro anarchici e quattro socialisti rivoluzionari, tutti dall’età compresa tra i 21 e i 22 anni.

Si trattava di Amedeo Bertolo, Almone Fornaciari, Luigi Gerli e Gianfranco Pedron, gli anarchici, Vittorio De Tassis, Giorgio Bertani, Gianbattista Novello-Paglianti e Alberto Tomiolo, i socialisti.

Tra loro si conoscevano perché gli anarchici, all’epoca, senza nemmeno un posto dove riunirsi, chiedevano ospitalità ai locali dei giovani socialisti, arrivando poi a discutere in modo costruttivo su molte questioni, tra le quali figurava la solidarietà ai combattenti per la libertà in Spagna.

Tre di loro, Bertolo, Gerli e De Tassis, nell’estate precedente, avevano conosciuto personalmente i giovani condannati a Barcellona, durante un giro nella penisola iberica volto ad aiutare la resistenza clandestina antifranchista.

Sul mio “galletto” – ricorda Bertolo – avevo un ciclostile mascherato da cassetta da pittore: nei tubi da pittore c’era inchiostro da ciclostile, nella cassetta invece c’era un telaio che serviva a serigrafare col rullino. Con questa attrezzatura mi fermavo nelle città previste, alloggiavo presso un albergo, ciclostilavo volantini ed altro materiale propagandistico che poi consegnavo al contatto locale, quindi cambiavo città. Gli altri due compagni fecero insieme un altro percorso, indipendente dal mio. Ci ritrovammo infine a Barcellona, dove ebbimo l’occasione di conoscere vari compagni, tra i quali Jorge Conill Valls, Antonio Mur Peiron e Jimenéz Cubas: com’è naturale in simili particolari situazioni, a cementare la solidarietà politica sorse tra noi un’intensa fraterna amicizia.

L’idea del sequestro l’avevano avuta gli anarchici, subito dopo la notizia della condanna e del relativo ricorso per ottenere la pena di morte. L’obbiettivo era quello di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su ciò che stava accadendo in Spagna e, con ciò, impedire l’esecuzione.

Ma bisognava fare in fretta, molto in fretta, perché la revisione del processo era prevista per i primi giorni d’ottobre.

Il problema era che da soli non ce la potevano fare, sia come numero di partecipanti che come disponibilità economiche, senza contare che nessuno di loro era in grado di guidare una macchina. Fu così che avevano deciso di coinvolgere i loro nuovi amici socialisti.

“Mentre ci stavamo dando da fare, apprendemmo da un piccolo trafiletto sul Corriere della Sera che Conill Valls era stato condannato a morte, mentre agli altri due era stati dati trent’anni di galera a testa. Mancava, secondo la prassi giuridica spagnola, la conferma della condanna a morte da parte del governatore militare della regione di Barcellona. Non c’era tempo da perdere: decidemmo così di dare immediata esecuzione al piano di sequestro.”

L’auto era stata affittata a Verona da Tomiolo, l’unico in possesso della patente, per 31.000 lire e, dopo, gli avevano modificato la targa.

e poco importava che il titolare, il console conte di Altea, fosse in vacanza. Il suo sostituto, anche da un punto di vista simbolico, andava benissimo, visto che era risaputo che, ai tempi della seconda guerra mondiale, Elias aveva favorito la fuga dall’Italia della famiglia di Claretta Petacci, l’amante di Mussolini.

La macchina con a bordo il viceconsole rapito arrivò infine nel piccolissimo paese di Cugliate Fabiasco, abitato da 178 anime, a 5o km da Milano e, soprattutto, a 5 km dal confine con la Svizzera, dove gli anarchici, da tempo, avevano una piccola baita in comodato d’uso.

La notizia del rapimento ebbe, naturalmente, un larga eco in Italia, ma anche nel resto d’Europa, ma, nonostante la ridda di voci, gli inquirenti, e con loro, la stampa, non riuscivano a spiegare il gesto e men che meno a fare ipotesi sugli autori.

Almeno fino a quando, due giorni dopo il sequestro, la moglie del diplomatico non ricevette due lettere.

Una, da parte del marito:

Carissima Diddy, sto bene e vi prego di stare tranquilli. Tanti bacioni alla mamma, alla Mucci e a tutti gli altri. A te tutto l’amore del tuo Isu

L’altra, che spiegava i motivi del gesto:

Sequestriamo il viceconsole di Spagna a Milano, per cercare d’impedire l’esecuzione capitale di tre giovani antifascisti condannati a Barcellona. Il dottor Elias non corre nessun pericolo. Garantiamo la sua liberazione non appena, grazie alla notizia del sequestro, si sarà fatto sapere al mondo il triste destino dei nostri tre compagni a Barcellona. Viva la Spagna Libera.

In realtà, qualcuno aveva avuto paura. Forse, si era spaventato per la reazione a livello internazionale. Sì, perché le due missive non erano state inviate dal gruppo, ma erano state farina del sacco di un solo individuo.

Si trattava del Tomiolo che, invece di tornare a Verona ed attendere come era stato concordato, si era recato dal suo avvocato, il quale gli aveva vivamente sconsigliato di fidarsi di quelle teste calde degli anarchici, che potevano far finire in tragedia la storia, e si era raccomandato di contattare i giornalisti di Stasera, testata vicina alle posizioni politiche del suo cliente.

E poi, come si sa, in questi casi, soprattutto se si ha spifferato qualcosa a dei giornalisti, le voci presero a girare incontrollate. Prima tra colleghi. In seguito, in altri ambienti, fino ad arrivare alle orecchie della polizia.

Fortunatamente, la voce della fuga di notizie raggiunse anche i diretti interessati.

A questo punto decidemmo di liberare il nostro ostaggio. In un primo momento si era pensato di rilasciarlo direttamente a Ginevra, nella sede della Società delle Nazioni (ed era già stato messo a punto un piano operativo, con la collaborazione di alcuni compagni spagnoli), in modo da aggiungere un altro elemento clamoroso nella nostra lotta antifranchista. Ma per ragioni di ordine tecnico fummo costretti ad una soluzione di ripiego, costrettivi anche dal fatto che in giro si cominciava a sapere troppe cose intorno al sequestro e, di conseguenza, ai suoi autori.

A quel punto, la corsa alla liberazione dell’ostaggio divenne solamente una questione di velocità.

Il primo ad arrivare alla baita di Cugliate Fabiasco fu Nino Puleio, un giornalista di ABC, che, come raccontò in seguito, aveva ricevuto una misteriosa telefonata anonima.

De Tassis, credendo che si trattasse del giornalista designato, gli lasciò il viceconsole in consegna e si dileguò velocemente.

Quando, meno di un’ora dopo, Bertolo, accompagnato da un redattore de Il Giorno, arrivò alla baita, la trovò vuota.

Per ultima, giunse la polizia, tre ore dopo la liberazione di Elias, rimanendo a mani vuote.

Nonostante tutto, le forme furono salvate dal fatto che gli anarchici avevano tempestivamente inviato un comunicato all’agenzia Ansa preannunciando la liberazione del diplomatico.

Comunicato della Fijl (Feceración Ibérica de Juventudes Libertarias)

I giovani del mondo libero non possono ignorare i crimini che commette il governo franchista contro la libertà e la vita dei poveri spagnoli. Il sequestro è stato organizzato per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale riguardo alla triste sorte dei tre giovani anarchici condannati a Barcellona. Nostro obbiettivo è quello di suscitare alle persone oneste e democratiche del mondo intero, un moto di solidarietà morale e materiale nei confronti del popolo spagnolo. Rilasciamo, come promesso, il viceconsole, per dimostrare che i nostri metodi non sono come quelli che utilizzano Franco e la sua polizia falangista. Milano, 1º di ottobre.”

Il primo ad essere arrestato, il giorno dopo, fu Gianfranco Pedron, grazie alla denuncia della padrona della casa in cui viveva in affitto. Via via, nel giro di quindici giorni, vennero fermati tutti gli altri che avevano, direttamente o indirettamente, partecipato al sequestro. Tutti tranne il Bertolo, che era riuscito in modo rocambolesco a raggiungere Parigi.

Il 4 ottobre, la baita utilizzata per ospitare il viceconsole prese misteriosamente fuoco, distruggendola completamente. L‘episodio venne rapidamente liquidato come incendio accidentale dovuto ad un mozzicone di sigaretta gettato da uno dei vari curiosi in visita sulla scena del crimine.

Ma ci fu anche chi avanzò l’ipotesi di una ritorsione da parte dei fascisti.

Il 5 ottobre, il Tribunale Militare di Barcellona si pronunciò sul ricorso del Procuratore contro Conill, Jimenez e Mur decidendo clamorosamente di respingere la richiesta della pubblica accusa per la pena di morte e di confermare la sentenza di primo grado.

Un avvenimento più unico che raro nella pluriventennale dittatura di Franco, in cui praticamente ogni richiesta di esecuzione sottoposta alla visione del Generalissimo veniva firmata senza pensarci due volte.

Il fatto ancor più incredibile fu che un’agenzia di stampa diffondesse la notizia esattamente opposta – e cioè, che il giudice avesse accolto della condanna a morte per Conill e 30 anni per gli altri due – notizia poi diffusa dai principali quotidiani di tutta Europa.

Questa (falsa) notizia spinse l’allora cardinale di Milano e futuro papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, ad inviare un messaggio privato al generale Franco:

A nome degli studenti cattolici milanesi e mio personale, prego vostra eccellenza di usare clemenza nei confronti degli studenti lavoratori condannati affinché possano essere salvate vite umane e sia chiaro che l’ordine pubblico in un paese cattolico possa essere difeso diversamente che in paesi senza fede ai quali non appartengono i costumi cristiani.

Richiesta perfettamente inutile poiché la sentenza contro la pena di morte era già stata emessa (e non ci dato di sapere quale fu, se ci fu, la risposta di Franco).

Il 21 novembre del 1962, ci fu invece la sentenza per i ragazzi e altri implicati nel sequestro del diplomatico spagnolo.

Un processo trasformato in un atto d’accusa al regime franchista e che si concluse con condanne estremamente leggere.

Si andava dai quattro mesi di carcere per due giornalisti accusati di favoreggiamento ai sette mesi per De Tassis, Pedron, Gerli, Tomiolo e Bertolo, che si era clamorosamente presentato in aula all’inizio del processo eludendo la sorveglianza e consegnando la sua pistola direttamente al giudice.

Le pene vennero subito comunque sospese.

Nella motivazione della sentenza, si leggeva che venivano concesse le attenuanti per aver agito gli imputati per ragioni di particolare valore morale e sociale.

Rimasi in carcere solamente il tempo necessario allo svolgimento del processo. Tutto ciò che facemmo valse la pena, poiché salvammo la vita a un compagno – sebbene egli abbia poi dichiarato che gliela aveva salvata il Papa – e dimostrammo che, nonostante tutti gli errori commessi, con un po’ di entusiasmo si possono ottenere risultati importanti pur senza disporre di grandi mezzi.”

ROCK’N’ROLL TERRORIST [1982]

Intro

La mattina del 20 gennaio 1983, un furgone che stava viaggiando sull’autostrada a nord di Vancouver fu costretto a rallentare a causa dei lavori di ampliamento della carreggiata all’altezza della cittadina di Squamish.

Dopo qualche decina di metri, uno degli addetti ai lavori si mise in mezzo al pezzo di strada transitabile e fece cenno al furgone di fermarsi.

Quel che successe in seguito fu, in realtà, questione di pochi istanti. Gli operai estrassero le armi che tenevano nascoste e, in pochi secondi, aprirono le porte dell’automezzo immobilizzando gli occupanti senza che questi avessero la possibilità di reagire in qualche modo.

I ragazzi vennero messi a terra e ammanettati con le mani dietro la schiena.

Gli addetti ai lavori stradali erano, in realtà, uomini della squadra speciale della Royal Canadian Mounted Police (R.C.M.P.).

Gli occupanti del furgone, in tutto cinque, i presunti appartenenti al gruppo terroristico che, nel corso delle sue azioni, si era firmato con i nomi di Direct Action e Wimmen’s Fire Brigade.

I giovani, dell’età compresa tra i 19 e i ? anni, si chiamavano Ann Hansen, Brent Taylor, Juliet Caroline Belmas, Doug Stewart e Gerald Hannah.

*

One,Two, Three, Four!

Una notte di qualche anno prima, esattamente quella del 1º luglio 1978, Gerald “Genny” Hannah attaccava il suo basso all’amplificatore. L’emozione del primo concerto se ne andata in parte a forza di birre.

La band, una delle prime punk band del Canada, si era data il nome di The Subhumans e tutti, se si esclude il cantante, erano alla prima volta su un palco.

Si trattava del raduno annuale anarchico denominato “anti-Canada Day”, che si teneva a Vancouver, nello Stanley Park.

I membri dei Subhumans, per l’occasione, si erano dati dei soprannomi in perfetto stile punk: Wimpy, per la voce del gruppo Brian Ray Globe, Normal, per il chitarrista Mike Graham, Dimuit, per il batterista Ken Montgomery, e Useless, per Gerry Hannah al basso.

Davanti ad anarchici, punks ed esterrefatti poliziotti che controllavano da lontano gli eventi, Brian Ray, un giovanotto dall’aria solitamente tranquilla, al grido di “One, Two, Three, Four!”, si tolse la camicia ed iniziò ad abbaiare testi incomprensibili per i più.

Uccidi i Malatoidi, o morirai.

Sono ricchi. Pensano di avere il potere

di camminarti sulla faccia,

leccano i tuoi stivali …

Ribellati a loro!”

[Death to the Sickoids, primo singolo dei The Subhumans, 1978, autoprodotto]

*

Do It Yourself

Il, per così dire, successo al “anti-Canada Day” spinse i Subhumans ad incidere il loro primo singolo, Death to the Sickoids, con Oh Canaduh! sull’altro lato del disco.

Da qualche tempo e in certi ambienti, esisteva qualcosa di elettrizzante nell’aria . un’attitudine, un sentimento, una musica, un’onda che andava in senso opposto all’esistente – una fiducia e un’incoscienza …

D.I.Y. – Do It Yourself

The Subhumans erano figlie, allo stesso tempo, creatori di una scena alternativa, fortemente influenzata da ciò che avveniva negli Stati Uniti.

A Vancouver, già da un anno si stava costruendo qualcosa. Movimenti di protesta spontanei, riviste autoprodotte, bands di sudicio rock’roll – un calderone esplosivo che riuniva ribelli, disperati, idealisti e artisti vari, sfociando in luoghi parole suoni azioni …

Dopo aver sostituito il batterista con Jim Imagawa, i Subhumans diedero alla luce un EP ed il singolo Firing Squad con un-etichetta locale, la Quintessence Records.

Nel 1981, dopo aver registrato il loro primo album, Incorrect Thoughs, la band partiva per un lunghissimo ed estenuante tour in Canada e negli States, che li portò a suonare con band del calibro di Black Flag, Hüsker Dü, Minor Threat, Dead Kennedys, X e Bad Brains.

Sono i peggiori animali che io abbia mai visto in vita mia.

[Proprietario della Hall, dopo un concerto dei Subhumans interrotto dalla polizia]

Al ritorno dalla tournée, Gerry spariva misteriosamente nel nulla, così che il gruppo fu costretto a cercare un nuovo bassista insieme ad un nuovo batterista, dato che anche Jim aveva rinunciato.

*

Into the Wild

Che fine aveva fatto Gerry?

Gerry aveva scelto la via della militanza più radicale e della clandestinità insieme alla sua ragazza di allora, la diciassettenne Juliet Caroline Belmas, conosciuta nella scena punk di Vancouver.

Con Ann Hansen, Brent Taylor, studenti universitari, e Doug Stewart, elettricista, si erano conosciuti anni prima durante ai concerti punk e alle manifestazioni a difesa dell’ambiente, contro la corsa agli armamenti, a favore dei diritti delle minoranze a cavallo tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta.

Manifestazioni che, come da tradizione in Canada, erano del tutto pacifiche-

Manifestazioni che, puntualmente, non spostavano di una virgola l’ordine e l’andazzo esistenti e che lasciano frustati una quantità di giovani che avevano cominciato a guardarsi attorno per agire in modo differente.

Tra questi i nostri cinque, in particolare Ann che, dopo aver studiato scienze politiche nell’università di Waterloo, nel 1979, aveva viaggiato in Europa per conto della facoltà per studiare l’esperienza del gruppo armato tedesco Rote Arme Fraktion (R.A.F.) e che, durante il suo soggiorno a Parigi, era entrata in contatto con l’effervescente movimento anarchico e dell’autonomia.

Al suo ritorno dall’Europa, con le idee un po’ più chiare, Ann si era impegnata nel movimento per l’abolizione delle carceri e nel gruppo Bulldozer di Toronto che, insieme ad altri simili come Resistance e Open Road, appoggiavano, supportavano e sostenevano i gruppi dediti alla lotta armata negli Stati Uniti come i Weathermen, la George Jackson Brigade o singoli attivisti anarchici perseguitati dalla repressione, come Bill Dunne e Giddins di Seattle.

Non abbiamo mai affermato esplicitamente di essere anarchici. Ma nemmeno abbiamo mai negato di esserlo.

Il nostro anarchismo nasceva dalla pratica piuttosto che dalla teoria o dalla storia.”

Le prime azioni del gruppo, che si firmerà Direct Action, furono la devastazione degli uffici centrali della compagnia mineraria Amax e quella degli uffici del British Columbia Ministry of Environment, effettuati in ottica di ambientalismo radicale che, almeno in Canada, era una novità assoluta.

In seguito a questi due atti, il gruppo si divise. Gerry e Juliet se ne andarono a rifugiarsi nelle Rocky Mountains, mentre Ann, Brent e Doug restarono in città, radicalizzando ancora di più la loro attività, vivendo di furti e di rapine, rubando esplosivi ed armi che, poi, andavano a provare in una zona deserta a nord di Vancouver.

*

Time Bomb

Il 30 maggio del 1982, avvenne quello che i giornali definirono come il primo attentato terroristico nella storia del paese.

Le esplosioni, quattro per la precisione, colpirono i lavori quasi terminati della sottostazione di Cheekaye-Dunsmuir, opera infrastrutturale imprescindibile per il progetto di industrializzazione di Vancouver Island, oggetto ai tempi di numerose quanto infruttuose proteste pacifiste degli abitanti e dei movimenti ecologisti.

L’attentato provocò 5 milioni di dollari di danni oltre che un notevole ritardo ai lavori.

Rifiutiamo la distruzione dell’ecosistema e l’oppressione sull’uomo insita nelle società industriali occidentali e nei regimi comunisti dell’est.

Ci opponiamo anche all’oppressione derivante dai sistemi economici e politici di tutto il mondo che si basano sul potere e sul profitto.

Dobbiamo fare di questo un luogo insicuro e instabile per i capitalisti e i loro progetti. Questo è il miglior contributo che possiamo dare per la difesa della terra e alla lotta per una società liberata.”

[Comunicato a firma Direct Action]

Dopo l’attentato, i cinque si rincontrarono e decisero tutti insieme di trasferirsi a Toronto.

Il loro obbiettivo era la Litton Industries a Rexdale, a nord ovest della capitale dell’Ontario, stabilimento in cui si costruivano i sistemi di guida dei missili da crociera Cruise.

*

The Cruise

La cosa era semplice: guidare un furgone rubato carico di dinamite attraverso il cancello della Litton e parcheggiare di fronte al palazzo, lasciare il furgone e, dopo 35 minuti, l’esplosione del furgone.”

Il furgone rubato conteneva circa 550 kg di dinamite e, il 30 maggio, venne effettivamente parcheggiato ma, in seguito, qualche cosa non andò per il verso giusto.

Un minuto dopo aver lasciato il mezzo, Juliet telefonò alla postazione degli addetti alla sicurezza avvertendo del pericolo, affinché si evacuasse l’impianto senza indugi.

Per essere più chiari, il gruppo aveva anche lasciato un messaggio sul cofano insieme ad un candelotto di dinamite.

Ma gli uomini della sicurezza della Litton non presero sul serio l’avvertimento e preferirono aspettare l’arrivo della polizia prima di ordinare l’evacuazione.

L’autobomba esplose così mentre l’operazione era in pieno svolgimento anche perché, per qualche difetto di programmazione, la deflagrazione si produsse dodici minuti prima del previsto.

I feriti furono una decina tra i lavoratori che cercavano di guadagnare l’uscita ma, fortunatamente, non ci fu nessuna vittima.

Il comunicato a firma Direct Action del giorno dopo fu in qualche modo di scuse per i danni alle persone e per gli errori di valutazione, in special modo per quanto riguardava la quantità di esplosivo impiegata e per la poca prontezza della security. Con dovizia di particolari si descriveva ciò che era accaduto ma alla fine si ribadiva la giustezza delle intenzioni e della lotta in generale.

Il gruppo scelse opportunamente di cambiare aria e di tornare alle più conosciute e sicure strade di Vancouver.

In verità, i cinque erano già stati individuati dalla R.C.M.P. ma, come venne alla luce in seguito, per qualche strano motivo, vennero lasciati liberi di agire per un altro breve periodo di tempo.

Nella notte del 22 novembre di quello stesso anno, tre negozi della catena di video pornografici Red Hot Video venivano distrutti da artefatti incendiari.

La catena in questione era stata in passato contestata per diffondere video con violenze e stupri su donne e bambini, i famosi snuff.

Il comunicato che ne rivendicava la maternità veniva firmato dalla Wimmen’s Fire Brigade, che alte non erano poi che le donne di Direct Action.

Fatto sta che, a seguito di questa azione, la Red Hot Video venne pesantemente sanzionata e venne ratificato il divieto di vendere e affittare video snuff.

*

The Trial

Il processo fu uno dei più seguiti in Canada in quegli anni.

Per la stampa mainstream, i ragazzi, ed il caso ingenerale, vennero definiti come Squamish Five, dal luogo del loro arresto, e considerati terroristi da condannare alle pene più pesanti, dei corpi estranei al modus vivendi tipico canadese.

A quanto la polizia dichiarò in seguito, la banda, prima del suo provvidenziale arresto, era in procinto di trasferirsi dalle parti dell’est per portare a termine due azioni: sabotare la nave da esplorazione Terry Fox, che stava per partire per una missione nel Mar Artico, e la distruzione di aerei da combattimento nella base aerea militare di Cold Lake.

Tra il maggio ed il giugno del 1983, furono pronunciate le sentenze di condanna che, come era da prevedere, furono durissime.

Si andava da sei anni per Doug Stewart, che non era coinvolto nell’attentato alla Litton, fino al carcere a vita per Ann Hansen, passando per i dieci anni a Gerry Hannah, i venti per la sua compagna Juliet Belmas e i ventidue per Brent Taylor, considerato la mente della banda.

Ma, per qualcuno, non era ancora finita …

*

Punk’s not dead

La campagna per la liberazione di quelli che, per il movimento alternativo, erano semplicemente i Vancouver Five andò avanti per anni, sostenuta per lo più dalla scena punk nordamericana.

Band come i Dead Kennedys organizzarono concerti e manifestazioni per raccogliere i fondi necessari alla difesa legale e alla propaganda del comitato di sostegno “Free the Five”.

Una parte importante in questo ruolo, la ebbe anche la famosa ‘zine punk MaximumRocknRoll che, tra l’altro, annovera tra le sue pagine gli scritti dal carcere di Gerry Hannah in qualità di collaboratore.

Queste persone, colpevoli o no … rappresentano la lotta di classe che si sta svolgendo in tutto il mondo. E rappresentano la parte che … difende la vita e il futuro di tutti. La domanda che dovrebbe essere fatta a tutti gli altri è: perché non siete con loro?”

[Intervista a Joey Shithead, cantante e chitarrista dei D.O.A., altra storica punk band di Vancouver]

I cinque uscirono tutti prima della scadenza delle loro rispettive condanne, compresa Ann, che era stata condannata all’ergastolo.

Gerry, l’ex bassista dei Subhumans, scontò effettivamente cinque anni, durante i quali trovò il tempo di comporre anche due album solisti.

I Subhumans si riformarono una prima volta per breve tempo nel 1995, con Gerry ed il cantante Brian (che nel frattempo aveva suonato il basso nei D.O.A.) e, poi, una seconda volta, anche con Mike alla chitarra, nel 2005, incidendo un nuovo album per l’etichetta indipendente Alternative Tentacles dell’ex cantante dei Dead Kennedys, Jello Biafra.

Nessuno dei cinque protagonisti della vicenda ha mai rinnegato la propria esperienza, anche se, in interviste o in libri autobiografici, sono arrivati a rileggerla con un critico senno di poi.

Immaturità, errori di valutazione, fretta, inesperienza, questo sì, ma, senza rinnegare niente.

L’ANGELO DI USHUAIA [1909]

C’era il sole ma faceva freddo quella mattina del 1º maggio del 1909, a Buenos Aires.

In città erano previsti due cortei. Uno organizzato dalla Union General de Trabajadores (UGT), socialista, e l’altro dalla Federacion Obrera Regional Argentina, anarchica. A mezzogiorno, i primi manifestanti cominciarono ad affluire in plaza Lorea, gente povera, la maggior parte immigrati provenienti da Italia, Russia, Catalunya. Bandiere, canti, slogan. Erano gli anarchici.

Alle due, la piazza era ormai piena e la tensione era, nel frattempo, salita. Manifestanti avevano attaccato alcuni negozi che avevano deciso di non aderire allo sciopero. La polizia aveva circondato la piazza. L’arrivo dell’auto del capo della polizia, il colonnello Ramon Falcon, aveva acceso ancora di più gli animi.

Non era poi così strano che la sua presenza avesse ancor di più peggiorato una situazione già pesante.

Falcon veniva dalla carriera militare ed aveva partecipato alla celebre Campagna del Deserto. contro la popolazione autoctona del sud dell’Argentina. Si era ritirato nel 1898, con il grado di colonnello. Era stato eletto deputato e, pi, nel 1906, aveva ricevuto l’incarico di capo della polizia della Capital Federal.

Già il 1º maggio di quello stesso anno, in occasione della sciopero generale internazionale indetto dai sindacati socialisti e anarchici di tutto il mondo, non aveva esitato a lanciare uno squadrone di cavalleria all’attacco dei manifestanti indifesi, provocando numerosi morti e feriti.

L’anno dopo, di fronte ad uno sciopero dei pagamenti degli affitti degli inquilini delle case popolari dovuto all’aumento della retta, non aveva esitato ad ordinare sgomberi massicci in pieno inverno.

le versioni di ciò che avvenne a quel punto furono molte e tutte diverse tra loro.

Falcon fu visto mentre parlava con il comandante dello squadrone di cavalleria dispiegato per l’occasione e, dopo il breve conciliabolo, risalire in macchina e allontanarsi.

Poco dopo, nella piazza, risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco. Chi fu a sparare non venne mai chiarito ma, di fatto, fu come il segnale per lanciare alla carica lo squadrone contro i manifestanti.

Mezz’ora dopo, nella piazza restavano solo un silenzio irreale interrotto dal lamento di decine di feriti, in terra cappelli, bandiere, pozze di sangue e i cadaveri di almeno tre persone.

Sì, perché, anche il numero dei morti non fu mai accertato con precisione. La versione ufficiale fu di tre morti e di 39 feriti gravi, di cui due morirono nei giorni successivi. Altre fonti indicarono il numero dei morti a cinque più altri quattro nei giorni successivi. Naturalmente, i morti e i feriti si contarono esclusivamente tra le fila dei manifestanti. 

Sia come sia, il clamore per la mattanza, nel paese, fu, giustamente, enorme.

Il sindacato anarchico decretò fin dal primo momento uno sciopero generale indefinito fino alle dimissioni del capo della polizia Falcon e, per una volta, anche i socialisti si unirono alla protesta.

Il presidente della repubblica, José Figueroa, scese in campo di persona per dichiarare che Falcon sarebbe rimasto al suo posto a tutti i costi fino al termine del suo mandato.

Lo sciopero generale durò una settimana, paralizzando il paese, fino ai funerali di alcune delle vittime, il cui corteo funebre fu seguito da 60.000 persone.

Il colonnello Falcon, nonostante tutte le minacce di morte ricevute da parte degli anarchici, continuò ad esercitare il suo mestiere come se niente fosse successo. Si spostava in auto con il suo autista e segretario personale al seguito ma senza scorta, pur di non dare la sensazione di avere paura.

Sicuramente sottovalutava la gente con cui aveva a che fare.

Nella tarda mattinata del 14 novembre di quello stesso anno, il colonnello Falcon lasciò il cimitero della Recoleta dove era stato ad assistere alle esequie del suo amico e direttore della Penitenciaria Nacional, Antonio Balloé, deceduto pochi giorni prima.

La vettura condotta dall’autista, che ospitava anche il segretario del capo della polizia, Alberto Latirgau, si diresse verso avenida Callao per svoltare verso sud.

I conduttori delle due auto che seguivano furono i testimoni di ciò che avvenne una volta che il veicolo di Falcon ebbe svoltato l’angolo. I due concordarono nel descrivere la scena: un giovane che di corsa inseguiva la macchina e che aveva qualcosa in mano, come un pacco. Uno di loro arrivò a pensare che, dalla macchina, era caduto qualcosa e che quell’individuo stesse solo cercando di riportarla al legittimo proprietario.

Ma, una volta arrivato all’altezza dell’auto, il giovane aveva tirato l’oggetto al suo interno.

L’esplosione fu quasi immediata.

Lo sconosciuto si diede immediatamente alla fuga, inseguito, dopo un momento di comprensibile sconcerto, da quanti avevano assistito alla scena, ai quali, mano a mano, si aggregarono altri passanti tra cui due poliziotti.

Il giovane attentatore individuò in un palazzo in costruzione

il luogo in cui potersi nascondere, ma venne rapidamente individuato dalla folla inferocita. Temendo di essere linciato, allora, tirò fuori il revolver, se lo puntò al cuore e fece fuoco.

Fu forse per la precipitosità del gesto, comunque il fatto fu che fallì il bersaglio, procurandosi solo una ferita al costato, e la folla assetata di sangue fu su di lui. Solo la presenza dei due uomini in divisa lo salvò da una morte sicura.

La rudimentale bomba era esplosa all’interno della vettura, ai piedi del colonnello Falcon e del suo segretario, e le schegge avevano dilaniato le gambe dei uomini, lasciando illeso l’autista.

Quando erano arrivati i soccorsi, i due erano ancora vivi ed erano stati portati all’ospedale più vicino in condizioni disperate. I chirurghi avevano cercato di salvarli la vita, amputando gli arti inferiori, ma tutto era risultato inutile.

Il colonnello Falcon era morto dissanguato alle due del pomeriggio, Lartigau lo aveva seguito poche ore dopo.

Ma chi era l’assassino? Perché lo aveva fatto? Chi erano i suoi complici?

Silenzio.

Botte, e ancora silenzio.

Un silenzio inquietante e pesante, come le nuvole oscure che si addensano all’orizzonte appena prima della tempesta.

Un silenzio talmente assordante da indurre il presidente della repubblica José Figueroa a decretare lo stato d’assedio.

Si temeva un complotto per assassinare altre alte cariche dello stato.

Finché non si riuscì a svelare l’identità dell’attentatore.

Si chiamava Simon Radowitzky.

Nato in un anno imprecisato all’inizio dell’ultimo decennio del secolo appena passato, in un piccolo paese dell’Ucraina da una famiglia di operai di origine ebraica.

Anarchico fin dall’età di dieci anni quando, abbandonata la scuola e iniziato un lavoro come apprendista fabbro, venne iniziato agli ideali libertari dalla figlia del suo maestro.

A quattordici anni, operaio giornaliero nella metallurgia, venne ferito dalla sciabolata di un cosacco durante una manifestazione per la riduzione dell’orario di lavoro. La ferita lo costrinse a sei mesi di convalescenza a letto. Una volta tornato alla vita di tutti i giorni, venne arrestato e condannato a quattro mesi di carcere perché sorpreso a distribuire stampa dal carattere sovversivo.

Dopo la rivoluzione del 1905, per la posizione ricoperta, nonostante la giovane età, nel soviet della fabbrica in cui lavorava, fu costretto a fuggire dal paese per evitare una scontata condanna ai lavori forzati in Siberia.

Era infine sbarcato a Buenos Aires nel marzo del 1908.

Aveva trovato lavoro nelle officine del Ferrocarril Central Argentino ed era entrato in contatto con gli ambienti locali anarchici e con la numerosa comunità di rifugiati russi.

Venne il tempo del processo. Un processo dall’esito scontato, visto che l’imputato aveva già da tempo confessato di essere l’unico ideatore ed esecutore del crimine e che non esisteva alcuna prova che potesse dimostrare il contrario.

La questione a cui si ridusse il dibattimento fu quello di quale pena commutare al reo confesso.

Il pubblico ministero, sostenuto dalla quasi totalità dell’opinione pubblica borghese, fece subito richiesta per un’esemplare pena di morte che, per la legge argentina, si poteva applicare solo ai maggiori di età, all’epoca, 21 anni.

Ma, quanti anni aveva Simon Radowitsky?

Sulla stampa era apparsa la notizia che il feroce assassino avesse all’incirca 27 anni.

Il diretto interessato aveva dichiarato di averne 18.

Il giudice chiese allora una perizia medica in grado di stabilire l’età dell’imputato.

Due dei periti fissarono a 21 anni l’età del ragazzo, gli altri due a 25.

Per il pubblico ministero, era fatta: l’età media venne fissata a 22 anni e mezzo. Perfettamente in grado di affrontare il plotone d’esecuzione …

A salvare Simon dalla morte arrivò un vecchio, dai capelli e dalla lunga barba bianca. Disse di chiamarsi anche lui Radowitzky, Mosè, e di essere lo zio dell’imputato. Portava con se un pezzo di carta arrolato.

Il documento era scritto in cirillico e, affidato alle cure di un traduttore, risultò essere l’attestato di nascita di Simon. La data indicava il 1891. L’imputato aveva dunque 18 anni come aveva affermato. Ma l’attestato non era mai stato validato in Argentina ed il giudice decise di dichiararlo non valido ai fini del processo in corso.

Tuttavia, la giuria restò comunque influenzata da questo ultimo colpo di scena e non se la sentì di approvare un verdetto di condanna alla pena capitale.

Simon Radowitzky venne condannato al carcere a vita più venti giorni di cella d’isolamento a pane e acqua ogni qual volta si avvicinava l’anniversario del suo crimine.

Simon tornò ben presto, evidentemente suo malgrado, a far parlare di se in modo clamoroso.

Il 6 gennaio del 1911, dalla Penitenciaria Nacional evasero ben tredici uomini. Undici erano detenuti comuni, ma gli altri due di comune non avevano proprio niente. Si trattava degli anarchici Francisco Sotano e Salvador Planas, tutti e due dentro con pesantissime condanne per i loro tentativi di assassinare i presidenti della repubblica allora in carica.

Evasione avvenuta attraverso il più classico dei tunnel a forma di U scavato proprio sotto il muro di cinta del carcere.

L’indagine successiva fece venire alla luce una situazione a dir poco preoccupante, almeno dal punto di vista delle autorità.

Dettagli inquietanti che non facevano presagire niente di nuovo. E, di nuovo, spaventosi silenzi.

Gli evasi “politici” avevano trovato un auto ad attenderli ed avevano cambiato subito gli abiti, a giudicare dalle divise da carcerati trovate abbandonate nei dintorni. Gli altri evasi, evidentemente a rimorchio, si erano gettati in una fuga disperata ed erano stati ripresi quasi tutti.

Pochi minuti prima della clamorosa evasione, Simon era stato convocato nella stamperia del penitenziario per sbrigare delle commissioni, ma era stato visto in compagnia di Francisco e Salvador sempre più spesso negli ultimi tempi.

Simon, era stato osservato, godeva della simpatia di tutti i detenuti all’interno del carcere e anche da una buona parte dei guardiani, e sembrava essere stato, in qualche modo, l’ispiratore di ciò che era accaduto.

Ma non c’erano prove. Simon non parlava. Un silenzio che faceva venire voglia di pensare di tutto. Un silenzio che resisteva alle botte, alle minacce, alle privazioni.

Imperturbabile come solo un silenzio può essere. Un silenzio con un retrogusto beffardo, come un sorriso di sbieco, che affiora in un angolo della bocca …

Come conseguenza, le autorità, timorose di ciò che poteva accadere, decisero di procedere con le misure estreme: la deportazione del pericoloso ergastolano nel campo di detenzione di Ushuaia, nell’inospitale Terra del Fuoco, nell’estremo sud dello stato, dove fuggire sarebbe stato praticamente impossibile.

Finito di costruire nel 1904, il bagno penale di Ushuaia sorgeva ad est dell’omonima città, situata nella Isla Grande della Terra del Fuoco, ed era destinato ai criminali comuni recidivi e di alta pericolosità sociale, ma anche per i prigionieri politici. Era noto, e lo fu per altri quattro decenni, per il duro trattamento riservato ai suoi ospiti, per le proibitive condizioni climatiche e per l’isolata posizione geografica. Tutte condizioni che riducevano i tentativi di fuga vicini allo zero.

Per Radowitzky i giorni sono più duri che per tutti gli altri detenuti. Tutte le volte che si avvicinava la data fatidica del 14 novembre, continuava il castigo dei venti giorni di isolamento a pane e acqua, che era il segno più evidente del trattamento “di favore” che la direzione del carcere e i guardiani, in realtà, gli riservavano quotidianamente.

Tuttavia gli anni passavano e Simon resisteva.

Ma gli anarchici? Che facevano? Si erano dimenticati di lui?

Nel maggio del 1918, la città di Buenos Aires venne letteralmente inondata da un piccolo pamphlet intitolato “il presidio di Ushuaia”. Era stato editato del periodico anarchico La Protesta ed era firmato dal giornalista Marcial Belascoain Sayos. La dedica in calce: “Al mio amico Simon Radowitzky, come un’offerta. Ai vili sbirri, come uno schiaffo”.

Era un atto d’accusa spietato su come veniva trattato Simon, che attaccava ferocemente il direttore dell’istituto, Gregorio Palacios. Si narrava, con uno stile crudo e diretto, ogni sorta di violazioni, anche sessuali, a cui Radowitzky era stato sottoposto da parte di alcune guardie, di cui si facevano nomi e cognomi, istigate direttamente dal loro superiore.

Belascoain concludeva con queste parole: “Generoso amico, Simon, migliore amico, vivi senza speranza, nella notte oscura del tuo martirio circondato da bestie feroci che ti perseguitano, senza un raggio di sole che ti accarezzi, ma con il cuore dei tuoi amici, di quelli che ti capiscono e ti amano […]. Vadano a te queste righe che riassumono l’affetto di chi ti ama; di chi comincia a preparare il grande evento di riportarti alla vita strappandoti alla ferocia dei criminali carcerieri, che tanto ti hanno fatto soffrire.”

Il 9 novembre di quello stesso anno, i giornali della Capitale Federale intitolavano: IL 7 NOVEMBRE RADOWITSKY È EVASO DAL CARCERE DI USHUAIA!

Nessuno c’era mai riuscito prima ed il clamore fu enorme-

Il piano era stato preparato dagli anarchici, che avevano raccolto i soldi necessari ed avevano affidato l’impresa al creolo Apolinario Barrera che, a sua volta, aveva scelto il giovane cileno Miguel Angel Roscigna come aiutante.

I due avevano raggiunto Punta Arenas verso la fine di ottobre. Lì, avevano incontrato i dirigenti locali della Federacion Obrera che li avevano presentato un vecchio slavo, proprietario della piccola goletta “Ooky”. Avevano affittato l’imbarcazione con il relativo equipaggio ed erano partiti in direzione di Ushuaia, dove erano giunti il 4 novembre.

Tre giorni dopo, Barrera aveva visto avvicinarsi alla baia dove avevano attraccato un uomo con la divisa da guardiano e, istintivamente, aveva impugnato la pistola pensando di essere caduto in una trappola.

Ma quello gli aveva gridato:

– Apolinario!

– Simon!

I due non si erano mai visti prima di allora ma si erano abbracciati come fratelli.

Simon, non si sa in quale modo, era riuscito a procurarsi un’uniforme da guardia e, così vestito, era uscito dall’officina meccanica nella quale lavorava e, da lì, si era diretto verso l’uscita. Con una freddezza incredibile era uscito dal portone senza che nessuno lo riconoscesse. Simon aveva attraversato il cimitero e poi aveva intrapreso la strada del monte dietro il quale, secondo il piano, lo aspettava la nave che lo doveva portare via per sempre.

L’evasione fu denunciata al direttore Palacios alle ore 09:22 di quella mattina. Questo voleva dire che il fuggitivo aveva forse poco più di due ore di vantaggio.

Oltre alle ricerche intorno al carcere, venne approntata una lancia per pattugliare la costa negli immediati dintorni.

A bordo di “Ooky”, intanto, Simon si era cambiato di abiti e, dopo aver salpato, si era messo a discutere con Apolinario sulla mossa successiva. Il piano pensato da Barrera era quello di allontanarsi varie miglia e lasciare Radowitzky in uno dei tanti rifugi della costa con due mesi di scorte, far passare la tempesta che inevitabilmente si sarebbe abbattuta su di loro e, una volta calmate definitivamente le acque, tornarlo a prendere e portarlo finalmente al sicuro.

Ma Simon non se la sentiva. Vedeva la libertà a portata di mano e voleva prenderla, subito.

Chiese di far rotta direttamente su Punta Arenas e da lasciarlo là, in una grande città, dove gli sarebbe stato più facile passare inosservato ed imbarcarsi su qualche nave diretta lontano da quelle terre inospitali.

Quel che né Simon né Apolinario sapevano era che, da Ushuaia, avevano telefonato al governo cileno per avvertire dell’evasione di un pericoloso recluso e che, ora, sulle loro tracce c’era anche la nave da guerra “Yañez”.

All’alba del quarto giorno di navigazione, la “Ooky” entrò nello stretto di Magellano. Era quasi fatta quando, all’orizzonte, si intravide il fumo nero di una grande nave che sembrava dirigersi proprio verso di loro. Intuendo il pericolo, Simon chiese ai suoi compagni di avvicinarsi il più possibile alla costa della penisola di Brunswick. A duecento metri dalla costa, si buttò in acqua, raggiungendo terra a nuoto.

Poco tempo dopo, la “Yañez” riuscì a raggiungere la goletta ponendo sotto stato di arresto l’intero equipaggio.

Una volta sbarcati tutti in terra cilena, vennero condotti in prigione. Alla fine, fu il macchinista della “Ooky” il primo a confessare. Avevano effettivamente trasportato l’evaso Simon Radowitzky. Fu così che scattò la caccia all’uomo.

Simon fu ritrovato da una pattuglia dell’esercito cileno a circa 12 km di distanza da Punte Arenas mentre, stremato e mezzo congelato, stava disperatamente cercando di raggiungere la città.

Una delle evasioni più clamorose della storia dell’Argentina era terminata. Era durata lo spazio di poco più di quattro giorni.

Per rivedere Ushuaia, però, Simon dovette aspettare altre due settimane.

Varcò le porte del carcere di notte, perché gli altri detenuti non si accorgessero dell’ingresso di quello che ormai era diventato l’eroe di tutti. Precauzione inutile.

L’anarchico fu accolto dalla popolazione dell’istituto da una manifestazione di enorme solidarietà, con la classica battitura delle sbarre e al grido “Viva Simon! Mueran los perros samosos!”.

Fu questa a salvarlo da un molto più che probabile selvaggio pestaggio da parte delle guardie che, per l’occasione, avevano avuto carta bianca dal direttore.

Simon era ormai un angelo per una parte e il diavolo in persona per l’altra. Palacios faceva parte di questi ultimi. E, per evitare che il soggetto in questione contagiasse con le sue pericolose idee più di quanto non avesse già fatto il resto dei suoi “ospiti”, ordinò l’isolamento a mezza razione di Simon a tempo indeterminato.

Simon ritornò a vedere un altro essere umano che non fosse una guardia dopo più di due lunghissimi anni, il 7 gennaio del 1921.

Si trattava di una specie di fantasma, certo, ma ne uscì …

Nei primi anni venti, Radowitzky, che già godeva della più ampia simpatia e del più grande rispetto tra i detenuti, si trasformò in una vera leggenda. L’uomo che risolveva, o almeno provava a risolvere, i problemi dei suoi compagni di sventura. L’uomo a cui rivolgersi per ogni contenzioso personale con la direzione, per ogni lite con le guardie, per organizzare proteste per le condizioni di vita.

Tutto ciò nel microcosmo di Ushuaia perché, fuori da quell’universo in miniatura, il suo nome era, se si escludono gli anarchici, ormai niente altro che un vago ricordo.

Fino a che, nel 1925, non se ne ricordò un giornalista di La Razon, uno dei maggiori quotidiani della Capital Federal, che attraversò tutta l’Argentina per andare ad intervistarlo. Questo fu il primo impatto del giornalista con l’anarchico:

Simon Rodowitzky è un soggetto di statura media, magro, la fronte larga e un po’ di calvizie, mandibola prominente, grandi sopracciglia e gli occhi piccoli, luminosi. Il volto è pallido e sugli zigomi si osservano alcune vene rosse. Ha 34 anni ed è 16 che è nel presidio, in cui ha svolto parecchi lavori. La sua cella è un esempio di pulizia e in essa vi sono alcuni ritratti di famiglia. […] È disposto a parlare, diremo quasi loquace. Ma a volte, per la mancanza di abitudine alle lunghe conversazioni, ripete ciò che già ha detto. È semplice nelle sue espressioni e qualche volta gli scappa qualcosa in gergo creolo, ma subito si corregge e si scusa.

Successivamente vi fu un’altra intervista, effettuata questa volta dal giornalista Eduardo Barbero del prestigioso quotidiano Critica, inviato in quelle terre a casa del tragico naufragio del “Monte Cervantes”, in cui i detenuti di Ushuaia erano stati impiegati nelle operazioni di soccorso. Approfittando di questo fatto, Barbero si recò nel bagno penale per raccogliere le parole del giustiziere di Falcon.

Anche lui, come il suo collega, rimase impressionato dalla figura di Simon, definendolo quasi come un personaggio dostoiewskiano, con aurea mistica attorno, praticamente insensibile al dolore, in possesso di un sorriso disarmante, come solo i bambini possono avere.

E d’altronde, come si poteva leggere nelle pubblicazioni anarchiche dell’epoca, in cui il nome di Radowitsky veniva evocato ogni poche pagine, con epiteti che certamente avevano molto più a che fare con l’iconografia cristiana più che con quella di supposti mangiapreti. Angelo. Martire. Santo.

Il numero del giornale che conteneva l’articolo ebbe un successo inaspettato, andando esaurito in pochissimo tempo.

A partire dalla pubblicazione dell’intervista, le manifestazioni in favore della liberazione di Radowitsky non fecero che aumentare di numero e crescere nel pubblico intervenuto.

La questione arrivò, infine, sul tavolo del neoeletto presidente della repubblica, Hipolito Yrigoyen, capo del Partito Radicale che, in passato, aveva dichiarato che avrebbe concesso l’indulto all’anarchico.

Il provvedimento venne concesso il 14 aprile del 1930, ma con l’obbligo dell’espatrio. Radowitsky non avrebbe più rivisto il suolo argentino.

Esattamente un mese dopo, Radowitsky, a bordo di una nave della marina militare, arrivò a Buenos Aires e fu immediatamente trasferito su un’altra imbarcazione diretta a Montevideo, in Uruguay. Simon dovette aspettare a bordo per giorni prima che i suoi compagni fossero in grado di procurargli dei documenti d’identità, che lui aveva perso da anni, e il denaro necessario per pagare il viaggio.

“Simon, un niño grande”, dicevano di lui coloro che lo conobbero nel periodo di Montevideo.

Simon trovò subito lavoro come meccanico e, dopo venti lunghi anni passati nel gelo e nella solitudine, cominciò ad assaporare di nuovo la vita. Gli piaceva, quando poteva, stendersi al sole sulla spiaggia. Era felice di conoscere nuovi amici e curioso per tutto ciò che gli stava attorno. Ma durò poco.

Il 31 marzo 1933, un colpo di stato dei militari diede pieni poteri al presidente Gabriel Terra. Simon fu arrestati poco tempo dopo per attività contrarie al regime. Aiutava a stampare giornali e manifesti clandestini, che venivano distribuiti di notte.

Venne internato nell’isola di Flores, insieme ad altri oppositori. Ma, quando questi ultimi vennero rilasciati, pochi mesi dopo, Simon venne trattenuto in carcere.

Verso la fine del 1934, gli venne proposta l’espulsione in un paese terzo in base alla legge sugli stranieri indesiderati. Ma Rodowitzky, dopo aver accarezzato l’idea di tornare in Russia, consigliato dai compagni e dal suo avvocato, il socialista Emilio Frugoni, decise di non accettare, per non costituire un pericoloso precedente per tutti gli altri stranieri rifugiati.

Simon decise di andarsene nel 1937, come tantissimi altri anarchici della sua generazione, per andare a combattere in Spagna, dove infuriava la guerra civile.

Al suo arrivo a Barcelona nell’estate, il russo chiese di essere inviato sul fronte di Aragona, ma i dirigenti della Confederacion Nacional del Trabajo (C.N.T.), dato il suo stato di mito vivente, non intendevano accontentarlo. Fu Gregorio Jover, comandante della 28 Divisione, ex Colonna Ascaso prima della militarizzazione delle milizie, a fargli accettare un posizione di compromesso. Radowitsky avrebbe avuto l’incarico di fare da collegamento tra le varie brigate della divisione.

Tuttavia, la voglia di combattere di Simon era così grande che, nella battaglia di Teruel, una delle più lunghe e sanguinose di tutta la guerra, prese il fucile e raggiunse la prima linea.

Dopo tre mesi terribili, terminati con la sconfitta dei repubblicani, Radowitsky, debilitato dalla durezza delle condizioni di vita e dal peggioramento della tubercolosi contratta ai tempi di Ushuaia, venne praticamente obbligato ad accettare un posto nelle retrovie, nel ramo della propaganda della C.N.T..

Con la caduta di Barcelona, alla fine di gennaio del 1939, Simon raggiunse la frontiera francese mettendo in salvo, con l’aiuto di Martin Gudell, gli archivi del Sindacato.

In Francia, venne internato nel campo di Saint Cyprien, uno dei più grandi allestiti per i rifugiati repubblicani spagnoli. Che poi, altro non era che una grande distesa di terra e sabbia delimitata dal filo spinato e sorvegliata da soldati senegalesi, in cui un chilo di pane doveva essere spartito per 25 uomini.

Radowitsky decise di evadere e tentare la sorte fin dal primo momento. Con l’aiuto di compagni dentro e fuori del campo, riuscì a fuggire ed a raggiungere Montpellier. Da lì, a Parigi e poi in Belgio, riuscendo ad imbarcarsi su una nave con destinazione Veracruz, presentando un falso passaporto cubano.

In Messico, uno dei pochi paesi ad aver concretamente aiutato gli esuli repubblicani e, forse, il solo a non aver mai riconosciuto ufficialmente la Spagna di Franco, Simon arrivò nel giugno del 1939.

Venne accolto fin dal primo momento dai compagni di Veracruz e poi si trasferì a Città del Messico.

Nel D.F., trovato un impiego tramite l’interessamento del poeta uruguayo Angel Falco, allora console del suo paese, Simon continuò a lavorare per editare la stampa del movimento.

Simon Radowitsky morì il 29 febbraio del 1956.

La leggenda vuole che fu a causa di un attacco cardiaco nel suo nuovo posto di lavoro che, come non poteva essere altrimenti per lui, “l’uomo con il sorriso di un bambino”, era quello di operaio in una fabbrica di giocattoli.

UN’OPERA DA TRE SOLDI [1929]

Erano degli innovatori nel loro campo. Erano dei testardi nel raggiungere il loro obbiettivo. Erano dei perfezionisti nel loro lavoro. Erano diventati delle celebrità, dapprima nel loro quartiere, e poi in tutta la Germania.

Erano fratelli. Si chiamavano Franz e Erich.

Erano tempi difficili quelli in cui erano cresciuti. La prima guerra mondiale era scoppiata quando avevano rispettivamente dieci e otto anni. La loro adolescenza era passata nella povertà quasi assoluta, con il padre disoccupati così come milioni di tedeschi, una camera da condividere con altri quattro fratelli, un clima di violenza ed incertezza nel loro quartiere, nella loro città e nel paese intero.

Nessuno è mai stato in grado di sapere dove e quando avessero appreso la loro arte.

Probabilmente, qua e là, in strada e in piccoli e brevi lavori sottopagati. Osservando tutto. Ascoltando tutto. Assorbendo tutto.

Il loro cognome era Sass. In seguito, lo avrebbero scritto e detto con le maiuscole, SASS. E poi separato con un trattino, SA-SS.

Erano invisibili. Erano discreti. Erano generosi. Erano passionali nella vita, così come erano freddi nel lavoro.

Non erano violenti, in tempi in cui la violenza la si vedeva e la si respirava quotidianamente.

Insieme formavano una strana coppia a vedersi.

Franz, il maggiore, nato nel 1904, era alto 1,68, mentre Erich, di un anno e mezzo più giovane, arrivava a 1,86. Il primo, paffutello in viso, l’altro più emaciato.

Ad un primo sguardo, non sarebbero passati nemmeno per parenti. Poi, notavi lo sguardo, le smorfie della bocca, il profilo del naso …

 

Moibat. Sul finire degli anni ’20. Uno dei quartieri operai di Berlino. Dove erano nati e cresciuti. Fu in quel quartiere, completamente circondato dai fiumi, che decisero di dar la prima (e sfortunata) esibizione della loro arte.

La mattina del 27 marzo del 1927, un impiegato della Berliner Bank in Werftstrasse, entrò nel caveau che ospitava la cassaforte e notò stupefatto come questa portava i segni inequivocabili di bruciatura per buona parte del perimetro dell’apertura.

La polizia, immediatamente allertata, stabilì che, quasi sicuramente, era stata utilizzata una fiamma ossidrica e che i ladri, per penetrare all’interno del caveau, avevano utilizzato un tunnel minuziosamente e silenziosamente scavato, presumibilmente per più notti, a partire da una vicina cantina.

Le indagini portarono gli inquirenti a domandare nei negozi specializzati se i proprietari riconoscessero, tra le foto di alcuni criminali schedati, il volto di qualcuno che avesse acquistato una fiamma ossidrica e/o di qualche attrezzo per lo scavo. Alla fine, un testimone aveva riconosciuto la foto del noto Franz Sass. E anche se quello aveva fornito false generalità, l’uomo non ebbe nessun dubbio.

La tattica adottata dalla polizia, nei panni dell’ispettore Max Fabich, fu quella di far finta di niente in attesa di beccare Franz e il suo inseparabile fratello Erich, anche lui ben noto, con le mani nella marmellata.

I due fratelli, ignari di essere già stati individuati dagli inquirenti, si erano intanto buttati nella loro seconda impresa.

Avevano dovuto migliorare il loro equipaggiamento, prima di tutto. Il colpo alla Berliner Bank era fallito perché era venuto a mancare l’ossigeno proprio a metà dell’opera. Non avevano calcolato che l’ambiente chiuso e umido avrebbe bruciato la loro scorta in molto meno tempo di quanto avevano calcolato.

Questa volta, Franz e Erich scelsero una banca nel vicino quartiere di Charlottenburg.

Fu il caso a tradirli, in questa occasione, e la polizia scoprì il tunnel non ancora terminato dietro un pannello con gli stessi identici colori dell’intonaco della parete circostante.

Confidando nel fatto che i ladri sarebbe tornati la notte successiva per completare il lavoro, gli agenti si appostarono in attesa di arrestarli sul fatto.

Attesa vana. I due fratelli, durante il giorno, si erano dati il cambio per controllare a distanza di sicurezza la loro opera e si erano accorti della trappola che si stava allestendo.

Per il terzo tentativo, venne scelto l’edificio della Reichbahn in Schöneberger Ufer. Erano i primi giorni di marzo del 1928.

Questa volta fu una guardia notturna a sventare il furto. Aveva sentito dei rumori che gli avevano fatto pensare a dei gatti ma aveva comunque voluto verificare. Aveva puntato il fascio di luce verso il punto da cui provenivano gli strani suoni e aveva intravisto due ombre che se la filavano a gambe levate.

La polizia scovò l’ormai solito tunnel in corso d’opera, il pannello per nascondere il buco appoggiato alla parete e, questa volta, anche tutta una serie di attrezzi necessari alla buona riuscita dell’impresa.

Il problema, ancora una volta, fu di non trovare assolutamente niente che riconducesse il tutto ai due maggiori indiziati, i fratelli Sass.

Il 25 di quello stesso mese, il portiere dell’edificio all’angolo di Budapester Strasse diede l’allarme per un forte odore di bruciato.

All’arrivo di pompieri e polizia, venne constatato l’ennesimo lavoro lasciato a metà della “banda del buco”. Ma degli autori, di nuovo, nessuna traccia.

Poco meno di due mesi dopo, il 20 maggio, il tentativo forse più ambizioso, quello di rubare la rata del pagamento dei debiti di guerra che la Germania doveva pagare alla Francia.

Gli addetti alla sorveglianza notturna durante il giro di guardia tornarono sui propri passi attirati da un rumore sospetto. Quello che videro nell’oscurità fu la sagoma di un uomo su una scala intento a tranciare i cavi di collegamento dell’allarme.

Questo, alla vista dei guardiani, con un balzo felino fu subito a terra e prese a correre. Ogni inseguimento risultò inutile, ma i ladri si lasciarono alle spalle un bottino di circa 9 milioni di Reichsmark.

Anche in questa occasione, la polizia rinvenne tutta una serie di strumenti per lo scavo ma nessuna prova certa che potesse incastrare i soliti sospetti.

Dopo l’ennesimo sfortunato tentativo, la coppia sembrò prendersi una pausa di riflessione, anche perché sentiva il fiato sul collo della polizia. O forse volevano solo riorganizzarsi e perfezionare i piani e le tecniche …

La mattina del 30 gennaio del 1929, il direttore della società bancaria Disconto in Wittenbergplatz scese nel seminterrato per aprire la porta blindata del caveau.

Con sua grande sorpresa, però, questa rimase al suo posto. Dopo innumerevoli quanto infruttuosi tentativi, il direttore si decise a chiamare la ditta che aveva fabbricato la porta blindata, la celebre Arnheim, pensando ad un difetto di funzionamento.

Dopo altre ore di sterili tentativi, anche i tecnici dell’Arnheim si arresero e si risolsero a passare alle maniere forti, praticando un buco con martelli pneumatici sul soffitto del caveau.

Lo spettacolo che si offrì agli uomini che per primi si calarono all’interno della struttura fu di quelli affascinanti e apocalittici allo stesso tempo.

La porta risultò essere stata bloccata dall’interno mediante delle placche di metallo che la saldava alle pareti. In terra, giacevano 179 delle 181 cassette di sicurezza presenti nel caveau insieme, sparse qua e là, a banconote, qualche gioiello e due bottiglie di vino vuote, segno questo che i ladri avevano avuto anche tutto il tempo di festeggiare la loro impresa.

Et voila, il capolavoro era stato servito.

Le autorità dichiararono che il colpo aveva fruttato agli autori circa 150.000 Reichsmark tra contanti, gioielli e titoli di stato. In realtà, il valore presente nel caveau della banca Disconto era infinitamente superiore, in quanto i proprietari dei beni si guardavano bene dal denunciare il valore dei loro depositi. Una stima molto più realistica indicò a circa 2 milioni e mezzo di Reichsmark l’ammontare del bottino.

La polizia mise anche una taglia sui criminali di 40.000 Reichsmark.

Naturalmente, l’ispettore Fabich non aveva mai smesso di tener gli occhi addosso ai due fratelli Sass, ma la serie di perquisizioni effettuate nella loro casa non aveva portato alcun nuovo elemento alle indagini.

Fino al Natale di quello stesso anno, quando un addetto alla manutenzione del cimitero di Loisen in Charlottenburg non notò un fazzoletto di terra scavata di fresco che non aveva nessuna ragione di essere.

Gli uomini di Fabich, avvertiti dall’uomo, iniziarono a scavare. Poco dopo, scoprirono un passaggio che portava a tre stanze sotterranee, ognuna delle quali rivestita da pareti fatte da assi di legno e il cui soffitto era puntellato da una colonna. All’interno vari strumenti atti allo scavo e allo scasso.

Fabich decise che lui e i suoi uomini si sarebbero appostati ogni notte nel cimitero con il fine di arrestare chi aveva avuto l’ardire di costruire la propria base logistica all’interno di quel suolo consacrato.

Una delle notti successive, finalmente, i poliziotti notarono un uomo scavalcare il muro di cinta del cimitero e avvicinarsi al luogo dove si trovavano le tre stanze sotterranee.

L’ispettore riconobbe nell’uomo Franz Sass. Il guaio fu che anche quest’ultimo si accorse della presenza della polizia e, prima che lo potessero acciuffare, riuscì a scavalcare di nuovo il muro e a fuggire insieme al fratello che lo stava aspettando all’esterno.

I due vennero tratti in arresto un paio di ore dopo in casa del loro avvocato di fiducia e portati alla centrale di polizia.

Il fermo, tuttavia, durò lo spazio di qualche ora. Le autorità furono costrette a rilasciare i sospetti quando l’avvocato testimoniò che i due fratelli avevano passato tutta la notte come suoi ospiti, fornendo così un alibi di ferro.

La sera dopo il rilascio, i Sass, insieme all’avvocato convocarono una conferenza stampa in un rinomato ristorante del centro, denunciando la persecuzione della polizia e il fatto di essere stati malmenati durante il fermo.

I giornali fecero sì che il nome dei Sass, già abbastanza celebre nel quartiere di Moabit, dove si narrava che i più poveri si trovassero le bollette già pagate da ignoti benefattori, e nella città di Berlino, diventasse famoso anche nell’intero paese.

Con l’avvento del nazismo al potere, nel 1933, Franz e Erich reputarono più saggio lasciare Berlino e trasferirsi nella capitale.

La popolarità dei due, comunque, permise al popolo antinazista un gioco di parole che gli permetteva di accusare i pretoriani di Hitler senza rischiare niente. Circolavano, infatti, battute del tipo:

– Chi ha incendiato il Reichtag? I fratelli SA-SS.

– Chi sono i più grandi criminali della storia? I fratelli SA-SS.

E così via.

Nella capitale danese, si presentarono con falsi documenti come facoltosi commercianti tedeschi e, il 3 marzo 1933, si stabilirono in una pensione del centro.

Nel settembre successivo, a Copenhagen venne effettuato un clamoroso colpo nella rinomata fabbrica di sigari Wulff.

Poco tempo dopo, un’altra stupefacente scoperta.

Qualcuno, non si sa come, aveva manipolato le serrature delle porte blindate che dovevano essere montate davanti alle camere di sicurezza nel palazzo in costruzione destinato a diventare la sede della compagnia petrolifero anglo-danese Shell. La manipolazione era stata fatta in modo tale che le porte sarebbero state facilmente apribili con delle semplici copie delle chiavi.

Allarmata per questi insoliti accadimenti, la polizia danese si convinse che dietro ci fossero degli uomini che, dato il livello di conoscenza ed esecuzione, non appartenevano alla criminalità locale e si mise alla ricerca di stranieri sospetti.

Franz e Erich vennero infine trovati nella loro pensione e tratti in arresto con l’accusa di documenti falsi. La perquisizione della loro stanza, tuttavia, non permise di formulare contro di loro accuse più gravi.

Dopo qualche giorno, però, arrivò una comunicazione della polizia di Berlino. Durante una perquisizione in casa della famiglia Sass erano stati rinvenuti alcuni fasci di banconote di corone danesi.

La polizia decise così di effettuare una nuova e più minuziosa perquisizione nella pensione in cui abitavano i due fratelli.

Questa volta, vennero fuori, nascoste dietro un pannello alla parete, le prove per incriminare i Sass, mappe e piccoli strumenti da scasso. Al processo che ne seguì, Franz e Erich vennero condannati a scontare quattro anni di prigione, tre per il furto

alla fabbrica Wulff e uno per il tentativo nella sede della Shell.

Ma la vera mazzata per i due arrivò quando il governo danese accolse la richiesta di estradizione da parte della Germania, che li reclamava per il clamoroso colpo alla banca Disconto.

Nell’estate del 1938, Franz e Erich vennero portati al confine tedesco e consegnati alle cure della Gestapo.

La guerra era alle porte. La storia dei due fratelli era diventata una leggenda raccontata a mezza bocca nei quartieri proletari di una Berlino ormai lontana parente della città effervescente e bizzarra che era stata negli anni ’20.

Nel gennaio del 1940, il tribunale condannò Franz Sass a quattordici anni di carcere e suo fratello Erich a undici anni.

Il giorno 27 marzo, lo stesso in cui fecero il loro ingresso nel campo di concentramento di Sachenhausen, Franz e Erich trovarono la morte, secondo la versione ufficiale, uccisi per un disperato tentativo di fuga.

In realtà, secondo quanto risultò dai registri del campo, Franz venne fucilato alle ore 20:05 e Erich esattamente cinque minuti dopo da un plotone d’esecuzione delle SS capitanato da Rudolf Höss, futuro comandante di Auschwitz su diretto ordine di Adolf Hitler.

Il tesoro rubato nella banca Disconto non venne mai recuperato.

Secondo una leggenda messa in giro dall’ispettore Fabich, che raccontò di aver fermato una notte Franz Sass mentre usciva tutto sporco di terra dalla foresta di Grunewald, il frutto del capolavoro dei due fratelli dovrebbe essere ancora là, seppellito da qualche parte, mentre un’altra versione, vox populi, narra che non esiste più, semplicemente perché era già stato tutto speso ai tempi per la gente povera del quartiere.

AD OCCHI BENE APERTI [1918]

Tre colpi di pistola risuonarono all’uscita della fabbrica di armamenti Mikhelson di Mosca. Il panico si diffuse tra la folla presente.

Le grida non facevano che ripetere:

– Lo hanno colpito! Hanno ucciso Lenin!

Ma Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin non era ancora morto.

Erano le dieci e mezza di sera del 30 agosto del 1918, ed aveva appena terminato il comizio davanti agli operai della fabbrica.

Stava dirigendosi verso la macchina, con il suo fido autista Ghil che gli faceva strada tra la folla, quando aveva udito distintamente pronunciare il suo nome, una voce che si era staccata dal brusio che intasava l’aria e che gli aveva fatto istintivamente girare la testa verso destra.

In quel momento si erano sentiti i tre spari in rapida successione.

Non si sa bene in quale ordine – un proiettile gli bucò il cappotto, uno gli trapassò il polmone sinistro, uno gli si piantò sulla spalla.

La grande guida della rivoluzione bolscevica venne precipitosamente portato al Cremlino per paura di eventuali altri attentatori sparsi in giro. In grave pericolo di vita, ma non era ancora morto. I medici ebbero accesso alla camera dove giaceva il corpo di Lenin solo dopo che questi fu messo definitivamente al sicuro da altri pericoli.

Non aveva sparato ad occhi chiusi, anche se sembrava che li avesse.

Aveva gli occhi aperti quando aveva premuto il grilletto, quasi spalancati.

Ma erano anni che viveva in un mondo in cui la sua vista andava e veniva all’improvviso – un mondo fatto di esplosioni bianche e di vuoti neri – cecità che durava settimane.

Ma voleva farlo – e per questo aveva cercato di tenere gli occhi bene aperti – per cercare di abituarsi a quella visione in bianco e nero della folla che osannava il tiranno – e poi, quando gli era sembrato che poteva trattarsi di lui, aveva gridato il suo nome, alzato la mano che impugnava la pistola e fatto fuoco per tre volte.

Aveva raggiunto la strada senza ostacoli. Il buio come alleato. Non sapeva nemmeno dove stava andando, mentre si allontanava dal luogo dell’attentato. Fino a quando non sbatté contro un muro di corpi. Corpi di poliziotti.

Mi chiamo Fanni Kaplan. Oggi ho sparato a Lenin. L’ho fatto da sola. Non vi dirò chi mi ha procurato il revolver. Ho preso la decisione di uccidere Lenin molto tempo fa. Lo considero un traditore della Rivoluzione. Sono stata in esilio a Akatuy per aver partecipato ad un tentativo di assassinio di un funzionario zarista a Kiev. Sono stata undici anni in regime di lavori forzati. Sono stata liberata dopo la Rivoluzione. Ho appoggiato l’Assemblea Costituente e continuo ad appoggiarla.

La donna non aggiunse altro e si chiuse in un ostinato mutismo. La polizia, prima di consegnarla alla Cheka, la polizia segreta al servizio del Partito istituita dallo stesso Lenin meno di un anno prima e destinata a diventare in breve tempo tristemente famosa, notò i tratti dello psicopatico nel suo volto e qualcosa di estremamente indecifrabile nel suo sguardo.

Nei locali della Lubjanka, Fanni Kaplan ripeté per filo e per segno ciò che aveva dichiarato alla polizia. Nessun nome di complici, nessun dettaglio della sua vita, nessuna precisazione sull’attentato.

Ciononostante, gli agenti della Cheka riuscirono a risalire alla sua vera identità ed a ricostruire un’interessante, per loro, storia della sua esistenza.

Il vero nome della donna era, in realtà, quello di Feiga Jaimova Roitman.

Era nata il 10 febbraio del 1890, in una numerosa famiglia di origini ebraiche, nella città di Volinia, in Ucraina.

Da giovanissima aveva abbandonato il tetto natale per andare a lavorare come operaia in una fabbrica di Odessa. Là, era entrata in contatto e aveva cominciato a frequentare gli ambienti rivoluzionari. Si era innamorata di un bandito, uno che diceva di essere anarchico, di nome Viktor Garski.

Fu in quel movimentato periodo che decise di farsi chiamare Fanni, o Dora, Kaplan.

Nel 1906, la bomba che stava preparando insieme a due compagni, destinata ad uccidere il capo della polizia di Kiev, esplose uccidendo una cameriera.

Mentre i suoi complici venivano condannati a morte, Fanni, in virtù della sua giovane età, veniva sentenziata con la deportazione in Siberia.

Nel 1908, Fanni venne portata e rinchiusa nel campo di Maltsev, vicino ad una miniera d’argento dove lavoravano i deportati uomini.

Nel campo femminile vivevano una sessantina di donne, tutte prigioniere per reati riconducibili alla politica, e le condizioni erano relativamente buone se confrontate con quelle dei loro colleghi del sesso opposto.

Fu più o meno dopo un anno che Fanni cominciò ad accusare i primi seri disturbi alla vista. Un po’ per le conseguenze dell’esplosione nell’albergo, un po’ per il fatta che passava la maggior parte del tempo nell’oscurità.

Il peggioramento fu costante e veloce fino alla cecità e questo fatto indusse Fanni a tentare il suicidio, ma le sue compagne riuscirono a salvarla in tempo.

E proprio queste compagne di prigionia le diedero la forza per continuare ad andare avanti. Aiutandola a farcela da sola, nonostante la menomazione, guidandola nei primi passi della sua nuova vita, incitandola, insegnandole il braille.

Nel 1912, Fanni venne trasferita nella prigione di Akatuy dove un medico dell’infermeria prese a cuore il suo caso e la propose per essere curata finalmente in una clinica.

Al termine della terapia, Fanni era di nuovo in grado in grado di vedere, se non come prima, almeno per essere completamente autonoma. E venne rispedita nella prigione di Akatuy.

A migliaia di chilometri di distanza , intanto, il mondo era sconvolto dalla più grande guerra mai vista che, naturalmente aveva coinvolto il grande impero zarista.

I rovesci degli eserciti russi, gli inauditi massacri di gente mandata al macello, i tumulti nelle città e nelle campagne per la fame e per le condizioni di vita, ed altro ancora, avevano portato a quella che sarebbe passata alla storia come Rivoluzione di Febbraio, nell’anno 1917.

Ma nonostante tutto, la guerra era continuata.

Nel marzo di quell’anno, Lenin andò incontro al suo destino su un treno che, dopo 17 anni di esilio in Svizzera, lo riportò sul suolo della terra che lo aveva visto nascere.

Nel frattempo, Fanni era stata rimessa in libertà insieme alle sue compagne grazie al decreto di amnistia per i reati politici promulgato dal governo provvisorio.

Con una sua amica del campo di prigionia, andò ad occupare una stanza in un appartamento di Mosca, con la ferma intenzione di ricominciare a vivere.

Ricominciò a frequentare gli ambienti rivoluzionari che ormai agivano alla luce del sole, e non come quando li frequentava lei, ma questa volta venne attratta da quelli del Partito Socialista Rivoluzionario.

I suoi problemi con la vista non erano, però, finiti ed in breve Fanni fu costretta a cercare una clinica in cui la potessero curare.

Si trasferì così in Crimea e poi a Jarkov, dove incontrò di nuovo il suo vecchio amore Victor. Tentarono di stare insieme ma, come era inevitabile, erano tutti e due profondamente cambiati. Victor non era più quell’affascinante bandito anarchico. Durante gli anni che aveva passato in carcere, si era avvicinato ai bolscevichi fino ad entrare nei quadri del Partito.

La storia non funzionò e Fanni raggiunse Semferopoli, dove aveva sede il quartier generale dei socialisti-rivoluzionari. Le venne assegnato un lavoro di ufficio nel municipio della città.

Quando l’Armata Rossa conquistò la roccaforte dei socialisti-rivoluzionari, nel marzo del 1918, Fanni si diede alla fuga.

Di lei, non si ebbero più notizie fino al giorno dell’attentato, sebbene sia abbastanza verosimile che si sia recata clandestinamente a Mosca proprio con quel proposito.

Lenin sopravvisse, ma non per molto, ed è opinione diffusa che le ferite procurate dai colpi della Kaplan abbiano contribuito in modo non secondario alla sua prematura morte per infarto cerebrale, secondo la versione ufficiale, il 21 gennaio del 1924.

Fanni Kaplan fu fucilata senza alcun tipo di processo il 3 settembre successivo all’attentato. Cercò di guardare le bocche dei fucili puntate contro di lei. Non ebbe paura, era già preparata per l’oscurità.

Due giorni dopo l’esecuzione, il governo bolscevico emise il decreto che portò all’eliminazione di ogni forma di dissenso all’interno del fronte rivoluzionario, periodo che, più tardi, venne chiamato col nome di “terrore rosso”.

LA GRANDE RAPINA AL TRENO [1963]

Il treno notturno Glasgow-Londra si fermò in piena campagna davanti al segnale di rosso. Erano quasi le tre.

David Whitby, secondo del macchinista, scese dalla locomotiva per andare a chiamare il segnalatore dal telefono posto accanto al semaforo. Trovò, però, i cavi tranciati.

Interdetto, si apprestava a risalire sul treno quando si sentì afferrare per le spalle e gettare all’indietro. Whitby rotolò giù per la scarpata che, in quel punto, costeggiava i binari, finendo in fondo svenuto.

Al suo posto, dalle due parti, salirono sul convoglio alcuni individui con l’intenzione di buttare fuori anche il macchinista, di nome Jack Mills, il quale, però, reagì fino a quando un colpo di bastone in testa non lo lasciò a terra semincosciente.

I malviventi presero possesso del convoglio. Alcuni di loro si occuparono di staccare i primi due vagoni dal resto del convoglio. Altri, nella locomotiva, cercarono di fare manovra. La loro intenzione era quella di portare il treno, o meglio, ciò che ne restava, in un altro posto. Purtroppo per loro, la persona incaricata dell’operazione rimase impotente davanti a comandi che, evidentemente non conosceva.

L’unica soluzione fu quella di rinvenire a suon di schiaffi e carezze il buon macchinista.

Il piccolo convoglio fu alla fine portato presso il Brinego Bridge.

In quel punto, la banda forzò le porte dei due vagoni al rimorchio.

Qualcuno saltò all’interno. Venne organizzata una catena umana. Quelli all’interno delle carrozze cominciarono a tirare fuori sacchi su sacchi e quelli sotto se li passarono di mano in mano fino ad una macchina parcheggiata lì nei pressi.

Prima dell’alba dell’8 agosto del 1963, una delle rapine più grandi del XX secolo, era un fatto compiuto.

Il bottino della banda: 2.595.997,10 sterline (equivalenti, più o meno, a 35 milioni di euro attuali) in banconote di medio e piccolo taglio, destinate alla Banca d’Inghilterra per il macero, ma ancora in corso di validità.

Si trattava, in realtà, di un carico speciale, poiché in Scozia c’erano stati alcuni giorni di festa, per cui il carico abituale, quella notte, era notevolmente più ricco del solito.

Un colpo studiato a lungo, come faceva pensare il luogo e la modalità del delitto.

Una banda di almeno una dozzina di persone. In possesso di informazioni quantomeno riservate.

Un’onta incredibile per le autorità di Sua Maestà. Una macchia da lavare nel più breve tempo possibile e con la massima severità.

La risposta della polizia fu quasi immediata, ma soprattutto massiccia. Vennero messe ad indagare sul caso la polizia delle contee interessate, la polizia nazionale, oltre a quella postale, che aveva subito direttamente il colpo.

La pista giusta venne imboccata inmediatamente con le dichiarazioni del povero macchinista Mills, che raccontò che i rapinatori, prima di lasciare definitivamente la scena del crimine, gli avevano intimato di non fare alcunché per almeno mezz’ora.

Fu così, circoscrivendo il raggio delle ricerche a circa mezz’ora di macchina, che la polizia, il 13 agosto, riuscì a trovare il casolare di Letherslade Farm, nella contea di Oakley Buckinghamshire, dove la banda aveva trovato rifugio per svariato tempo in attesa di effettuare il colpo.

Al suo interno vennero rinvenute scorte alimentari sufficienti per tirare avanti per alcune settimane, coperte sacchi a pelo, involucri di banconote e, cosa che colpì in modo particolare la fantasia dei tanti giornalisti che seguivano il caso da vicino, una confezione del gioco da tavolo Monopoli con cui, sempre secondo i periodici, i malviventi si erano intrattenuti utilizzando soldi veri.

Ma ciò che risultò essere addirittura decisivo ai fini delle indagini fu il rinvenimento di numerose impronte digitali.

Venne costituita una squadra apposita incaricata di individuare ed assicurare alla giustizia i membri dell’audace colpo, denominata Train Robbery Squad, composta da sei elementi e capitanata da Tommy Butler.

Nel frattempo, il 14 agosto, erano scattati i primi arresti, quelli di Roger Cordrey e William Boal, che avevano pagato l’affitto anticipato di un garage tutto con biglietti da dieci scellini. Il fatto che Boal fosse completamente estraneo ai fatti, in seguito, non lo salvò da una condanna a 24 anni di carcere e dalla morte nello stesso nel 1970.

Tra il settembre ed il dicembre successivi, la Train Robbery Squad, grazie alle impronte rinvenute nella fattoria, riuscì a risalire all’identità di undici dei quattordici partecipanti alla rapina, e ad arrestarne, oltre a Cordrey, altri nove.

Tutti loro erano vecchie conoscenze della polizia inglese e, nella maggior parte dei casi, avevano già frequentato le patrie galere.

I nomi degli arrestati erano: Charles Wilson, Roy James, John Daly, Jimmie White, Gordon Goody, Tommy Wisbey, Jim Hussey, Bob Welch e Ronald Biggs.

Tra questi, molti appartenevano alla South West Gang, e proprio due dei capi di questa banda, Bruce Reynolds, detto The Colonel o Napoleon, e Buster Edwards, erano gli altri due identificati che, però, erano riusciti ad eludere l’arresto.

Non vennero mai identificati tre dei presenti sul luogo del delitto – denominati, non proprio originalmente, dalla T.R.S., uomini “1”, “2” e “3” – e, soprattutto, il misterioso informatore della banda, di cui si sapeva solo il luogo in cui era nato, l’Ulster, in Irlanda, e, proprio per questo, chiamato The Ulsterman.

Il 20 gennaio 1964, iniziò il processo per quella che era stata ormai definita come The Grait Robbery Train. I locali del Aylesbury Assizes, in vista del grande evento, vennero appositamente ristrutturati per poter accogliere il gran numero di avvocati e giornalisti.

Dopo 51 giorni di udienza, 613 prove esibite e 240 testimoni ascoltati, il 14 aprile, vennero emesse le sentenze.

Si trattò di condanne tra i 25 e i 30 anni di carcere per tutti i presenti alla rapina, per complotto destinato alla rapina e rapina a mano armata, anche se di armi vere e proprie non ve ne erano state.

La vendetta dello Stato era stata servita. Ma non era ancora completa.

Mancavano ancora Reynolds, Edwards e The Ulsterman e, cosa non da poco, la maggior parte del bottino non era stata recuperata.

Il peggio, però, doveva ancora arrivare.

Il 12 agosto del 1964, evase dal carcere di Birmingham dove era rinchiuso, Charles Wilson, imitato dopo meno di un anno da Ronald Biggs, che evase invece dal carcere di Wandsworth.

Le rispettive latitanze, però, a parte un breve passaggio in Francia, furono ben differenti.

Wilson riuscì a raggiungere il Messico dove visitò Reynolds e Edwards, lì nascosti, per poi proseguire per il Canada.

Credeva di aver fatto perdere le proprie tracce perdendosi nel freddo di un bosco sperduto.

Lo ritrovarono invece, nel gennaio del 1968, a Riguad, nel Quebec. Wilson venne tratto in Inghilterra, dove scontò altri dieci anni di carcere prima di essere rimesso in libertà.

Venne ritrovato morto una mattina d’estate del 1990, sulla spiaggia di Marbella, in Spagna, probabilmente ucciso in un regolamento di conti per il traffico di droga.

Reynolds e Edwards non resistettero molto nel loro esilio volontario.

Reynolds, dopo cinque anni tra Messico e Canada, decise di tornare a vivere in Inghilterra in incognito.

Ma il clamore che c’era stato attorno alla rapina del secolo era ancora troppo grande per sperare di restare inosservato a lungo. Venne infine arrestato e condannato a 25 anni, di cui ne scontò dieci. Rimesso in libertà, visse della sua fama, rilasciando interviste, lavorando come consulente esperto in criminalità per la televisione e scrivendo un libro di memorie.

Edwards, dal canto suo, negoziò il suo ritorno in patria in cambio di “soli” 15 anni di carcere, di cui ne arrivò a scontarne nove.

Bruce Reynolds

Ronnie Biggs, che nella rapina aveva avuto un ruolo assolutamente marginale, quello di supervisionare il membro della banda che aveva il compito, poi non assolto, di portare il treno sul ponte di Brinego, divenne così negli anni il più famoso, e ricercato, criminale inglese.

Dopo la sua evasione, realizzata con la classica tecnica delle lenzuola legate, Ronnie era riuscito a raggiungere Parigi insieme a sua moglie Charnian Powell e i figli Nicholas e Chris. Là si era sottoposto ad un intervento di chirurgia plastica. Poi, le sue tracce si erano perse nel nulla.

La Train Robbery Squad riuscì a scovarlo nel 1970 a Melbourne, in Australia, grazie a delle impronte dentali dopo una visita medica. Ma quando Jack Slipper, il detective della squadra incaricato del suo arresto, arrivò sul posto, Biggs si era nuovamente volatilizzato.

Quattro anni dopo, la T.R.S. ricevette una telefonata da parte di Colin MacKenzie, giornalista del Daily Express. Si trovava a Rio de Janeiro ed aveva appena finito di intervistare Ronald “Ronnie” Biggs.

Il detective Slipper prese di nuovo un aereo diretto all’altro capo del mondo per trarre in arresto l’ultimo membro conosciuto della banda rimasto in libertà.

Fu sicuramente un’enorme soddisfazione personale fermare Ronnie nella hall dell’albergo nel quale viveva e sbattergli finalmente in faccia queste parole:

– Long time no see, Ronnie.

La soddisfazione del detective e quella della giustizia inglese, però, fu di molto breve durata.

Venne fuori che Biggs, nel frattempo, si era lasciato con sua moglie e si era risposato con una spogliarellista brasiliana e che questa era rimasta incinta da pochi mesi.

Secondo gli accordi tra Brasile ed Inghilterra in materia di estradizione, nessun cittadino britannico poteva essere riportato nel suo paese contro la propria volontà se questi era padre di un figlio di una cittadina brasiliana.

In base a questo, l’estradizione fu negata e Slipper, ancora una volta, fu costretto a tornare a casa a mani vuote.

Ronnie non era una persona fatta per vivere nella clandestinità. Era un bad boy. Uno della strada.

Nato l’8 agosto del 1929 a Lambeth, un sobborgo di Londra, ben presto orfano di madre, e tirato su dalla nonna materna, il piccolo Ronnie, pur di uscire dalla gabbia familiare aveva deciso, a diciotto anni, di arruolarsi nella R.A.F., che dopo la guerra era al massimo della popolarità.

Non era durato molto. Era stato espulso dopo meno di due anni per diserzione. L’ambiente militare non faceva decisamente per lui.

Si era dato allora al crimine, furti e rapine, per lo più, ed aveva scontato un paio di condanne. E proprio in uno di questi soggiorni aveva conosciuto Bruce Reynolds. The Colonel aveva stretto amicizia con questo criminale da quattro soldi che tutti chiamavano Ronnie, un ladruncolo appassionato di treni, che passava i pomeriggi alla stazione ad ammirare le locomotive ed a parlare con gli addetti ai lavori, uno che, nell’ambiente, godeva della fama di portafortuna.

Reynolds aveva pensato di portarselo con sé nell’impresa che stava architettando: la grande rapina al treno. Il destino gli aveva messo davanti un appassionato di treni e un portafortuna. Perché no?

Era stato così che Ronnie era entrato a far parte, seppur con un ruolo secondario, di uno dei più famosi colpi del secolo.

Il 17 gennaio 1978, la punk bad inglese Sex Pistols si sciolse. Il cantante Johnny Rotten, disgustato da tutto l’andazzo della loro tournée americana, lo fece capire chiaramente con alcune frasi e, infine, tirando il microfono e andandosene dal palco durante quello che doveva essere il loro ultimo concerto, tenuto a San Francisco.

E, mentre Sid Vicious, il nuovo bassista, si lasciava andare al suo famoso e tragico destino, il resto della band, Jones e Cook, insieme al manager Malcolm McLaren progettavano una specie di vacanza-lavoro a Rio de Janeiro, lasciando Rotten da solo e senza un soldo a Los Angeles.

McLaren inseguiva il suo progetto di un film sui Sex Pistols, dopo il primo tentativo di Who Killed Bambi?, ritirato dopo un giorno e mezzo dalle sale perché i musicisti non erano stati pagati.

Questo progetto, in collaborazione con il regista Julian Temple, si sarebbe chiamato The Great Rock’n’Roll Swindle. E quale migliore occasione per suscitare l’ennesimo scandalo, dato che si trovavano a Rio de Janeiro, di andare a trovare, e proporre una parte nel film, al latitante più famoso del Regno Unito.

Ronnie Biggs, oltre a comparire nella pellicola, prestò la sua voce in due canzoni: No One Is Innocent, che uscì anche come singolo, e Belsen Was A Gas, che scatenò un putiferio di polemiche, entrambe firmate con il nome Sex Pistols.

La fama mondiale ormai acquistata dell’ex ladruncolo da quattro soldi, confermata da un florido commercio di gadgets e magliette con impresso il suo nome, spinse le autorità ad optare per il colpo di mano.

Nel 1981, un commando degli Scots Guardsmen rapì Ronnie Biggs dalla sua residenza e lo portò su un’imbarcazione che fece rotta per le isole Barbados.

Ma anche questa volta, Ronnie riuscì a salvare la sua libertà. Le autorità dell’isola si negarono a loro volta a concedere l’estradizione per paura di rimanere coinvolte in un incidente diplomatico internazionale e ai rapitori non restò che riportare Biggs in Brasile.

La vita di Ronnie Biggs continuò così a colpi di interviste in cui, non rinnegando assolutamente niente di ciò che aveva fatto, espresse più volte il rammarico per la sorte del macchinista Jack Mills, morto sette anni dopo la rapina per le conseguenze della botta in testa ricevuta, di collaborazioni con gruppi della scena punk sudamericana, come gli argentini Pilsen, e, ovviamente di eccessi.

All’inizio del 2001, Ronnie Biggs annunciò a sorpresa la volontà di rinunciare ad opporsi ad un’eventuale richiesta di estradizione. Domanda puntualmente presentata dal governo inglese dell’epoca.

Nel maggio dello stesso anno, un jet privato messo a disposizione dall’anico amico e complice Bruce Reynols, riportava Biggs in Inghilterra dopo quasi 36 anni di latitanza.

Ronnie aveva 72 anni quando fece il suo nuovo ingresso in carcere.

Com’era facile da prevedere, l’ambiente della cattività finì per peggiorare notevolmente le sue condizioni di salute. Dopo una serie di colpi e ricoveri, che lo lasciarono su una sedia a rotelle e quasi incapace di parlare, e di domande di scarcerazione puntualmente negate, le autorità lo lasciarono uscire due giorni prima del suo ottantesimo compleanno per “motivi umanitari”.

Ronnie Biggs fece ancora in tempo a dare scandalo un’ultima volta quando, il giorno della presentazione delle sue memorie, si fece immortalare dai fotografi con la lingua di fuori e il dito medio alzato, in perfetto stile punk.

Ronnie Biggs è morto il 18 dicembre del 2013. La sua bara è stata coperta con la Union Jack, la bandiera del Brasile e una sciarpa della squadra di calcio del Charlton Athletic. Una guardia d’onore di Hells Angels britannici ha scortato il suo carro funebre fino al crematorio.

Delle due milioni e mezzo e passa di sterline rubate, la polizia, alla fine, riuscì a recuperarne meno di 400.000.

PRINCIPIO D’INCENDIO [1968]

 

Mai un’agitazione intrapresa da un numero così ridotto di individui ha occasionato in così poco tempo tali conseguenze.”

[René Viènet, Enragés e situazionisti nel movimento delle occupazioni]

I.

Tre ragazzi immaginari – 26 gennaio

I tre ragazzi immaginari camminavano rapidi al buio delle strade del Barrio Latino. Assolutamente presi dai loro discorsi, non sembravano far caso al gelo che, in quel dicembre, penetrava dappertutto.

Erano tre studenti universitari appena iscritti e, come quasi tutti gli studenti, avevano i soldi sufficienti per un bicchiere di vino nella peggiore bettola del quartiere.

Una sigaretta dopo l’altra, camminavano senza una meta particolare che non fosse il lucido labirinto dei loro propri ragionamenti.

Entusiasti, eccitati, impazienti, determinati – sognanti – come solamente lo possono essere dei ragazzi di 17-18 anni.

Entusiasti – perché si erano conosciuti da appena due mesi e sembravano conoscersi da una vita …

Eccitati – perché avevano appena letto un opuscolo che sembrava scritto con parole uscite dalle loro bocche anche se ancora sconosciute …

Impazienti – perché bruciavano dalla voglia di tradurre in qualcosa di reale quelle parole …

Determinati – a farlo …

Sognanti – erano solo tre ragazzi immaginari …

Si può affermare, senza paura di sbagliare, che in Francia lo studente è, dopo i poliziotti e i preti, l’essere più universalmente disprezzato.”

Così iniziava un opuscolo pubblicato dall’Internazionale Situazionista, nella persona di Mustapha Khayati, su richiesta di alcuni studenti dell’università di Strasburgo, qualche mese prima, e che aveva provocato un enorme ed immediato scandalo.

Di questo, tra le altre cose, parlavano i tre ragazzi immaginari: Della miseria dell’ambiente studentesco.

L’Internazionale Situazionista era nata nel 1957 dalla fusione di vari movimenti d’avanguardia. Nel 1967, erano usciti, oltre all’opuscolo citato, i due testi fondamentali dell’I.S., una critica radicale alla società moderna: La società dello spettacolo, di Guy Debord e Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni, di Raoul Vaneigem.

Di cosa parlare, d’altronde, quando si ha solo diciotto anni e ci si è appena iscritti all’università? E quando vuoi rivoltare questo mondo come un calzino? Non devi per forza iniziare da qualcosa?

Perché non iniziare proprio dall’università? – si chiedevano in quelle fredde notti per le strade e nelle piazze.

I tre ragazzi si chiamavano René, Gérard e Patrick.

Tutti e tre, da qualche anno, frequentavano gli ambienti anarchici della capitale francese. Ambienti che, sotto le paludi di un apparente immobilismo, cominciavano ad agitarsi anche per un compresibile ricambio generazionale di cui loro erano l’esempio più lampante.

René Riesel era arrivato in Francia da meno di quattro anni. Era infatti nato ad Algeri da genitori francesi, il cui padre, orafo, era un convinto comunista. Durante la sua infanzia aveva già così respirato il clima della rivolta del popolo algerino contro l’occupante francese e, a 14 anni, dato che la situazione peggiorava in maniera preoccupante, la famiglia aveva deciso di far ritorno a Parigi. Lui si era immerso subito come un pesce nell’acqua in tutti gli ambienti bohemiens e rivoluzionari che era riuscire a scovare.

Già un anno dopo, partecipava alla costituzione del gruppo anarchico di Boulogne, zona in cui abitava, e, con alcuni compagni del suo liceo del XVI Arrondissement, faceva uscire una pubblicazione intitolata Sisyphe, con riferimento evidente allo scrittore Albert Camus, uno che ebbe un’influenza importante sui giovani anarchici degli anni ’50 e ’60. Se ne era andato anche a Londra ad osservare da vicino che cosa accadeva in quella città in cui era esploso un movimento di massa contro il nucleare e la guerra del Vietnam.

Gérard Birgogne era un giovane esuberante – cioè, un bel po’ più esuberante rispetto agli altri due, che di certo non scherzavano in questo senso – uno a cui piaceva andar in giro nella notte alle disperata ricerca di persone e situazioni, che non disdegnava le discussioni accese e le risse.

René si era imbattuto in Gérard per caso (e come, se no). Quest’ultimo era andato da solo a contestare un happening di poesia organizzato da alcuni studenti del campus al grido

GLI SBIRRI, I PRETI DI DOMANI, ANCHE LORO SARANNO POETI!!!”.

René lo aveva incontrato mentre inveiva da solo contro i poetastri il cui servizio d’ordine lo aveva violentamente allontanato. Erano bastate uno scambio di parole e, i due, si erano trovati a meraviglia tanto che quella notte avevano scritto un piccolo opuscolo intitolato Il disonore dei poeti, in omaggio al poeta rivoluzionario e surrealista Benjamin Péret, in cui si invitavano questi giovani aspiranti poeti professionisti ad occuparsi di altro – come per esempio della burocratizzazione, della repressione, della separazione … – per poi concludere:

LA LOTTA CONTRO GLI SBIRRI, I PRETI, GLI SCIENZIATI, I PROFESSORI E I SOCIOLOGI DI DOMANI INIZIA OGGI.

NESSUNA TREGUA AI PROFESsIONISTI E AGLI APPRENDISTI DELLO SPETTACOLO.

CONTRO LA NOIA, IL GIOCO.

CONTRO I “POETI”, LA VITA.

[…]

IL NOSTRO FINE È GODERE.

TRASFORMARE IL MONDO È CAMBIARE ANCHE LA VITA!”

Patrick Cheval, lo avevano conosciuto poco dopo. Uno che sembrava caduto da un altro pianeta, che si era presentato il primo giorno di università con un impeccabile abito che, poi, però, si era mai cambiato.

I tre si erano trovati a meraviglia e gli effetti si erano subito fatti vedere sotto forma di volantino.

[…]

GLI ANARCHICI DEVONO APPROPRIARSI DI TUTTI I CRIMINI PIÙ O MENO COSCIENTI CONTRO LA PROPRIETÀ E L’AUTORITÀ.

DEVONO SOLIDARIZZARE CON OGNI VIOLENZA CHE CONOSCA IL SUO OGGETTO, CON TUTTI COLORO CHE TRATTANO IL NEMICO COME NEMICO.

DOBBIAMO SABOTARE IL FUTURO DELLA POLIZIA DENUNCIANDO I POLIZIOTTI DEL FUTURO.

È LA TATTICA DELLA TERRA BRUCIATA CHE PRIVA IN ANTICIPO IL POTERE DI OGNI PRETESA DI NOVITÀ.

LA COSCIENZA DEVE USCIRE DI PRIGIONE ARMANDOSI DI CATTIVE PASSIONI.

LA LIBERTÀ È IL CRIMINE CHE CONTIENE TUTTI I CRIMINI: È LA NOSTRA ARMA ASSOLUTA.”

I tre ragazzi immaginari, quindi, vagavano pensavano tramavano una notte dopo l’altra. Stringevano amicizie, scambiavano punti di vista, polemizzavano e venivano alle mani – nei bar, nelle manifestazioni, nelle feste degli ambienti studenteschi.

Ma, nonostante tutto, erano ancora solo dei mocciosi senza importanza, gli ultimi arrivati, fastidiosi e degni di considerazione come possono esserlo dei moscerini.

Erano solo tre ragazzi immaginari che si muovevano tra i sentieri del mondo favoriti dall’oscurità della notte.

Fino a quella mattina del 26 gennaio del 1968.

Erano circa una ventina, quella mattina. Ai nostri tre ragazzi si erano uniti Catherine Serre, Bernard Agier, i fratelli Bravermann e degli altri anarchici conosciuti con i soprannomi di l’apache, il bello, i due austriaci ed altri.

Da alcuni giorni le voci incontrollate sulla presenza di poliziotti in borghese all’interno del campus universitario e sull’esistenza di una lista nera degli studenti più radicali si erano fatte sempre più insistenti.

Per questo, René si era messo di nascosto a scattare fotografie degli elementi che sembravano sospetti. Durante la notte precedente, avevano lavorato per realizzare gli ingrandimenti delle istantanee. La mattina dopo, di buon’ora, il gruppo affiggeva le foto ingrandite dei supposti sbirri sulla bacheca degli annunci.

Subito, gli inservienti avevano cercato di rimuoverle, dando vita ad un parapiglia con gli studenti, senza riuscire nel loro intento. A quel punto, il rettore dell’università, Pierre Grappin, ex partigiano molto apprezzato dalla sinistra costituzionale, aveva chiesto, e ottenuto, l’intervento delle forze dell’ordine. Una sessantina di poliziotti in tenuta antisommossa aveva, quindi, fatto irruzione all’interno del campus universitario. Era la prima volta dai tempi della repubblica collaborazionista di Vichy. Solo che, al momento del loro ingresso, il gruppetto di anarchici era stato ingrossato dalla presenza di un centinaio di studenti militanti di gruppi dell’estrema sinistra.

Era così scoppiato un breve ma violentissimo scontro che aveva portato alla devastazione di alcune aule e di parte dell’arredo del campo.

Il giorno dopo, la stampa nazionale dava per la prima volta notizia di un piccolo gruppo di studenti estremamente arrabbiati e pericolosi che, però, ancora non aveva un nome.

II.

Scritto sui muri – 22 marzo

Les Enragés, gli arrabbiati, era stato il suggerimento di René per il nome da dare al gruppo di affinità nato, di fatto, dagli scontri del 26 gennaio. Il nome era un omaggio diretto alla fazione più estremista dell’Assemblea Nazionale durante la Rivoluzione Francese, capeggiata dall’abate Jacques Roux – nome affibiato direttamente durante un discorso da Marat.

Gli Enragés non erano solo studenti universitari. I nuovi arrivati, per esempio, Pierre Lotrous, Patrick Negroni, Pierre Cassère e Angeline Neveu, non avevano niente a che fare con quell’ambiente. In più, René intratteneva rapporti personali con quelli dell’Internazionale Situazionista.

Durante la stessa riunione, era stato anche redatto un comunicato per rispondere alle illazioni della stampa, che accusava i giovani di aver dato del “nazista” all’ex partigiano e rettore Grappin.

Insigni ciarlatani,

tralasciando la solita palude delle vostre idioti falsificazioni, questa volta mentite. Sapete che nessuno sarebbe stato così cretino da dare del nazista al decano Grappin nella manifestazione antipoliziesca di Nanterre del 26 gennaio, e questo per una ragione molto semplice: non è niente di più che uno sbirro.

Detto questo, cominciamo ad essere stufi degli intoccabili della resistenza. Stalin passò dalla Siberia prima di spedirci gli altri, e non è colpa nostra se la maggioranza dei resistenti oggi stanno nella prefettura di polizia e nei ministeri.

Insultate gli “anarchici” se vi divertite: tutto resterà in famiglia; ce n’è per tutti i gusti, ma andateci piano e ricordatevi di Chicago 1886, Kronstadt 1921, Barcelona 1937, Watts 1965. per noi e gli altri queste date parlano in un linguaggio diverso rispetto ai vaghi ricordi di resistenza alla De Gualle-Thorez in salsa Aragon.

Se esistono gli anarchici, sapranno riconoscersi tra di loro prima di sputare addosso a voi e agli studenti “anarchici” di Nanterre. E molto più colti di voi, si ricorderanno di Bonnot, Ravachol e Henry.

Già nessuno crede più alle vostre imposture e lo sapete. Comunque, un avviso: un’altra menzogna in più sulla questione e vi costerà caro.

Questo non è che l’inizio. Non avete finito di sentire parlare di noi.

Nanterre, 2 febbraio 1968. Gruppo degli Enragés.”

E, certamente, gli Enragés facevano parlare di loro. Per interrompere i corsi universitari, facendo irruzione nelle aule, gridando slogan, con una preferenza particolare per quelli del famoso sociologo Henri Lefebvre, indicato come metafilosofo e “metastalinista”. Per la loro critica feroce al sindacato degli studenti, la UNEF. Per la loro costante indisciplina all’interno delle residenze universitarie, cosa che era costata l’ingresso a Gérard e, il 5 febbraio, addirittura l’espulsione dal campus a Patrick.

Il 14 febbraio, in occasione di una giornata di protesta nazionale all’interno delle residenze universitarie organizzata dalla UNEF, i nostri tre ragazzi immaginari si recavano in trasferta a Nantes dove, contrariamente ad altri posti, il sindacato degli studenti era, nella maggioranza dei suoi membri, libertario.

Alla fine della manifestazione, in cui abbondavano le bandiere nere, il corteo veniva brutalmente caricato dalla polizia, dando luogo a numerosi arresti.

A seguito di questi atti quasi quotidiani di indisciplina, di ribellione e di scontro aperto con le istituzioni, il quotidiano Le Nouvel Observateur usciva con un articolo in cui si parlava degli Enragés come studenti “situazionisti”. Un comunicato successivo redatto da Riesel, precisava:

Al contrario di quanto affermato nel n·171 del Nouvel Observateur […], gli Enragés di Nanterre mai hanno fatto parte dell’Internazionale Situazionista e, di conseguenza, non la possono rappresentare […].

Detto questo, insistiamo nel riaffermare date le circostanze la nostra simpatia verso la critica situazionista. Che si giudichi d’accordo con le azioni, la nostra affinità con la teoria radicale.

Nanterre, 21 febbraio 1968. Gli ENRAGÉS”

Intanto, e non solo in Francia, la protesta cresceva. Con il pretesto della guerra del Vietman, la sinistra istituzionale e i vari gruppi stalinisti e trotzkisti miravano ad indirizzare la ribellione spontanea degli studenti in un ambiente a loro più congeniale, come quello dell’antimperialismo e del terzomondismo. Si erano così formati numerosi comitati pro-Vietnam.

Il 20 marzo, in una di queste manifestazioni davanti alla sede dell’American Express, la polizia caricava de arrestava numerosi attivisti. Uno di questi era Xavier Laglande, uno degli studenti più popolari tra i gruppi militanti di Nanterre. Non essendo stato rimesso in libertà nelle ventiquattr’ore, i corsi erano stati interrotti ed era stata indetta un’assemblea in cui si sarebbe deciso il passo successivo.

I tempi erano finalmente maturi per un’occupazione, e gli Enragés lo intuivano. Al termine era stato scelto l’edificio dell’amministrazione.

E, mentre i circa 150 studenti mandavano una delegazione capitanata da Daniel Cohn-Bendit, uno studente del gruppo anarchico Noir et Rouge, salito agli onori della cronaca per aver dato pubblicamente, lui sì, del “nazista” ad un ministro della Repubblica, gli Enragés rompevano gli indugi e facevano irruzione nella sala del consiglio.

Quando era giunta il resto della massa degli studenti, i nostri ragazzi immaginari erano già passati all’azione, o meglio al vandalismo. Le discussioni erano sorte inmediatamente. Cohn.Bendit, in rappresentanza della maggioranza, pretendeva il rispetto degli oggetti e degli arredi. Li avevano incontrati mentre gli Enragés, dopo aver svuotato tutte le bottiglie incontrate per eventuali usi futuri, stavano cercando i dossier degli esami per dargli fuoco.

La tattica della terra bruciata …

La discussione si era rapidamente trasformata in alterco quando gli Enragés avevano individuato tra gli occupanti due noti stalinisti. E avevano preteso la loro espulsione dall’edificio.

Per l’ormai portavoce di un movimento ancora in stato embrionale, Cohn-Bendit, il solo fatto che gli stalinisti fossero lì con tutti loro ad occupare l’amministrazione era la prova che anche loro potevano essere recuperati alla causa della rivoluzione.

Come c’era da aspettarsi, alla parola “recuperare”, gli Enragés avevano reagito come morsi da una tarantola. D’altronde, i riferimenti ideali continui a Kronstadt del 1919, a Makhno, a Barcelona del 1937, negli scritti che avevano distribuito, non poteva far pensare a niente di diverso.

Il gruppo aveva inveito, c’erano stati accenni di rissa, fino a che non avevano deciso i lasciare l’edificio e i loro occupanti al loro destino.

Allo stile degli Enragés, però.

La mattina dopo, le pareti interne degli uffici dell’amministrazione, quelle esterne degli edifici del campus, quelle delle strade intorno, nel quartiere, si erano risvegliate piene di scritte tracciate da spray, tipo:

NON LAVORATE MAI”

LA NOIA È CONTRORIVOLUZIONARIA”

I SINDACATI SONO DEI BORDELLI E LA UNEF È UNA PUTTANA”

PRENDETE I VOSTRI DESIDERI PER LA REALTÀ”

III.

Sotto il pavé, la spiaggia – 6 maggio

Dopo il 22 marzo, i nostri ragazzi immaginari e i loro pochi amici rimasti si erano ritrovati isolati e pressati dalla polizia.

Patrick, all’epoca era lontano, a Bordeaux, per la precisione, dove era andato per prendere contatto con un gruppo locale chiamato Vandali, ed aveva trovato il tempo per fare una puntata a Madrid per lasciare materiale situazionista e farsi rompere un dente in una rissa con alcuni studenti franchisti, e tornare a Bordeaux dove aveva scoperto dell’occupazione a Nanterre per radio, il giorno 23, proprio nel momento in cui la polizia si presentava a casa di Gérard che, in più, aveva ricevuto una lettera in cui lo si “invitava” a comparire davanti al Consiglio disciplinare dell’università.

La sentenza letta davanti ad uno strafottente Birgogne era stata,come d’altronde aveva previsto, l’espulsione per cinque anni da ogni istituto pubblico d’istruzione francese.

Uno dei fratelli Bravermann, Jean Michel, invece, aveva fatto il suo ingresso in un sanatorio a Bayonne.

Quelli che erano rimasti ad occupare l’amministrazione avevano dato vita ad una specie che, chiamato prima “dei 150” poi, poiché non arrivavano nemmeno a quella cifra senza gli Enragés, avevano ripiegato su “del 22 marzo”, li trattavano da “sabotatori e provocatori”.

Insomma, nemici pressoché dappertutto.

Le vacanze per la Settimana Santa ad aprile venivano accolte con un sospiro di sollievo da molti che, evidentemente erano più che stanchi – per esempio, le istituzioni universitarie, i sindacati, le associazioni e gruppi militanti studenteschi, che sentivano la situazione sfuggirli dalle mani.

Ma gli Enragés non mollavano certo la presa.

A NANTERRE COSÌ COME IN ALTRO LUOGO GLI ENRAGÉS VI MANDANO A FARE IN CULO”

Così terminavano un comunicato di risposta al sedicente “movimento del 22 marzo” e alle sue accuse.

Sentivano anche il bisogno, gli Enragés, di specificare meglio il loro pensiero, in un testo un po’ più articolato dei soliti comunicati e volantini.

E ci avevano anche provato a farlo, ma gli eventi correvano più veloci di loro, anche se ci`non li disturbava affatto.

Dopo la crisi dovemmo rinunciare a pubblicare un testo che avrebbe dato l’impressione di profetizzare gli avvenimenti dopo che erano successi”.

Gli eventi, dunque, incalzavano ad una velocità impressionante ma, come si suol dire, loro “avevano seminato i venti del disordine per raccogliere tempeste rivoluzionarie”.

Il 27 aprile, il già idolo delle folle studentesche, Cohn-Bendit, veniva arrestato e rimesso in libertà poche ore dopo. Un episodio, questo, a cui aveva fatto seguito, qualche giorno dopo, il 2 maggio, la chiusura dell’università da parte delle autorità con il pretesto delle minacce del’organizzazione di estrema destra “Occident”.

Lo stesso giorno, il Consiglio di disciplina dell’Università di Parigi convocava otto studenti tra quelli considerati i principali fomentatori delle agitazioni degli ultimi mesi, tra cui Cohn-Bendit e Riesel, per il 6 maggio.

Gli studenti reagivano convocando un’assemblea generale nel patio della Sorbona per il giorno dopo.

Il 3 maggio, gli studenti venivano attaccati dalla polizia e gli scontri si estendevano a tutte le strade adiacenti alla Sorbona. Il bilancio finale era stato di cinquecento arrestati, seguiti, per la prima volta, da giudizi per direttissima e condanne.

Gli Enragés, da parte loro, avevano distribuito un opuscolo non firmato intitolato “Consiglio di disciplina: istruzioni per l’uso”, in cui venivano resi pubblici indirizzi delle abitazioni, numeri di telefono ed altre informazioni private dei membri di detto Consiglio.

Alla fine, era arrivato quel 6 maggio. Gli otto erano entrati nell’edificio che ospitava il Consiglio di disciplina cantando l’Interanzionale, circondati da due ali di folla e da cordoni della polizia. Ma ormai non importava più nulla di cosa sarebbe successo in quella severa aula. Importava quello che c’era e che ci sarebbe stato fuori, nel Barrio Latino, e poi a Parigi, e poi nel resto della Francia, e poi in mezzo mondo …

per dirlo con le parole dello stesso René:

Il 6 maggio, gli eventi cambiano d’intensità e di natura. Ormai, è la strada che canta, tutto si unisce per questo: la repressione e le menzogne della stampa saldano il movimento. Si scopre il piacere dell’azione liberata dalla morsa dei militanti, dalla politica specializzata. Primi abbozzi di barricate, sotto il pavé, la spiaggia, primi carri dell’abbondanza restituiti, incendiati. Soprattutto, per dare ragione alle bugie dei giornali, in scena giovani operai e disoccupati. I blousons noir si uniscono ai teppisti del campus!”

Ma, questa, è già un’altra storia …

STORIA DI UN SIDECAR [1921]

La storia di questo sidecar inizia precisamente il 20 febbraio del 1921 quando, in un autosalone di calle Trafalgar, a Barcelona, si presentarono un uomo dalla pelle abbronzata e dai baffi spioventi ed un altro magro e con un berretto in testa per coprire la testa rasata.

Dopo aver brevemente passato in rassegna ciò che offriva il negozio, i clienti si decisero ad acquistare una motocicletta modello “Indian” a 7 cavalli, numero di matricola 84.M.846, di colore grigio dotato di sidecar. Il quale, come ogni giovane sidecar che si rispetti, era bisognoso dell’attenzione dei più grandi. E quei due, in particolare quello con il cappello, gli svegliarono una specie di emozione – per come lo guardavano, per come lo toccavano, come se indovinasse un destino …

Ci fu una discussione sul prezzo. L’uomo con la testa rasata continuava a sostenere con il posto del passeggero non era poi così messo bene, che ci sarebbe stato bisogno di qualche lavoretto aggiuntivo e che non avrebbe pagato le 5.600 pesetas che il venditore pretendeva.

Alla fine si accordarono per 5.100 pesetas. L’uomo con i baffi tirò fuori i suoi documenti che affermavano chiamarsi Miguel Diez Quiros, firmò il contratto di vendita e pagò in contanti la somma pattuita.

Il venditore non poteva certo sospettare che la vera identità dell’uomo con cui aveva appena concluso l’affare fosse, in realtà, quella di Ramon Archs, segretario del comitato regionale catalano del sindacato anarchico C.N.T., recentemente messo fuori legge dal governatore della regione, e ricercato dalla polizia perché fortemente sospettato di essere il responsabile del tentato omicidio di Felix Graupera, presidente dell’associazone della Padronal.



Ramon Archs

Archs era nato a Sants nel 1887. Il suo destino era quello di un predestinato. Suo padre, infatti, era quel Manuel Archs famoso a Barcellona per essere stato fucilato insieme ad altri tre – tutti accusati in complicità con gli attentati dinamitardi degli anarchici Paulino Pallas e Santiago Salvador – il 21 maggio del 1894, quando il piccolo Ramon aveva sette anni.

L’eredità del padre era conservata in una commovente lettera straripante di amore per la sua famiglia e per l’ideale.

Caro figlio. Leggi con attenzione queste righe scritte male da tuo padre che presto non sarà che quello che era prima di nascere, materia, polvere, gas, niente. Salderò il conto pendente con la Natura fin dal giorno in cui nacqui (…)

Forse domani qualcuno ti dirà che tuo padre era un criminale e ci sarà perfino chi mi definirà pazzo. Dì loro, e diglielo a voce alta, che tuo padre era innocente del crimine di cui era stato accusato; che mi si uccise perché ero un anarchico e propagandavo un’idea che credo nobile e giusta, senza che nessuno mi abbia mai dimostrato il contrario (…)

Ti supplico di studiare l’idea anarchica, fino ad arrivare a conoscerla. Confrontala con le altre e credo che ti convincerai che sia quella che è chiamata ad emancipare il mondo dall’abbrutimento e dalle ingiustizie che vi regnano.

Le idee anarchiche si basano sulla libertà e l’amore, mettendo a disposizione di tutti gli individui tutto quello che la Natura produce e quello che l’intelligenza umana costruisce. (…) Muori come tuo padre, se necessario, ma sii utile ai tuoi coetanei e fai la tua parte nell’opera di emancipazione del proletariato.

Ti chiedo anche, con l’aiuto di tua madre cara, di fare di tua sorella una donna utile al genere umano e che, con il tempo sia oggi una buona figlia e sorella, domani una buona compagna e madre.

Muoio convinto che così si vuole, come muoio convinto di aver sempre fatto il mio dovere.

Viva l’anarchia!”

Ramon Archs i Serra non parlava mai della sua infanzia ma si poteva ben intuire che non era stata delle più facili. Nel suo burrascoso passato c’entrava in qualche modo il fallito attentato al re Alfonso XIII, nel 1905 a Parigi. Quattro anni dopo, era stato condannato a morte a causa dei fatti della Semana Tragica. In seguito, era stato amnistiato e aveva trovato lavoro come operaio metallurgico nella “Hispano Suiza”, buttandosi subito con foga nell’attività sindacale, aderendo da subito alla neonata Confederacion. Nel 1912, per sfuggire all’arresto conseguente alla messa nell’illegalità della CNT, si era rifugiato di nuovo in Francia, dove era rimasto fino al 1918. Ancora nessuno poteva sapere che da lì alla fine dell’anno, sarebbe diventato segretario del Sindacato del Metallo e membro del Comitato Nazionale della CNT.

Era considerato più come uomo d’azione, ma non solo per questo godeva del rispetto della gente dell’Unico. Anzi. Aveva una mente fina, un’intelligenza sempre sveglia. Sapeva trarre dalle sue esperienze una filosofia di vita sicuramente saggia ed equilibrata. Non era certo un esaltato, anche se certe volte – specialmente quando pensava al futuro – veniva colto come da una sorta di misticismo.

Il giovane con la testa rasata, invece, si chiamava Ramon Casanellas. Era di dieci anni piì giovane di Archs, e era nato in un altro barrio, quello di Gracia, ma i due si conoscevano essendo anche Casanellas iscritto al Sindacato dei Metallurgici.

Ramon a sette anni era già in una fabbrica come apprendista. Nel 1909, durante la Semana Tragica, era in strada ad aiutare ad erigere barricate. A 14 anni, organizzava il suo primo sciopero sul luogo di lavoro. A 22, il suo nome era uno di quelli più rispettati tra i gruppi di autodifesa della C.N.T.. Era bravo con la pistola, insomma.

In uno dei gruppi più agguerriti del Metallo, Ramon era già stato autore, con altri, di attentati mortali a membri delle bande di pistoleros che operavano per conto della Padronal, a confidenti della polizia ed a politici come quello che, nell’estate del 1920 era costato la vita dell’ex governatore civile di Barcelona, Conte de Salvatierra.

* * *

Dallo sciopero della Canadiense, nel 1919, Barcelona, che non era mai stata una città esente da conflitti sociali, anche molto violenti, stava attraversando un periodo di vera e propria guerra. Da una parte, le autorità costituite e gli industriali che durante la guerra mondiale si erano arricchiti in modo smisurato, dall’altra parte il proletariato urbano, organizzato nella C.N.T., che, terminato il conflitto, stava subendo una riduzione di quei diritti faticosamente conquistati negli anni. E dagli scioperi si era passati velocemente ai modi più spiccioli. Gli omicidi politici erano praticamente all’ordine del giorno, tanto che il governo di Madrid aveva deciso di risolvere drasticamente la questione.

Era stato il Marchese de Faronda, direttore della compagnia delle Tranvias di Barcellona, all’inizio del novembre del 1920, a suggerire direttamente ad Eduardo Dato, il presidente del consiglio in carica, il nome del generale Severiano Martinez Anido.

E, la sera stessa, il generale Anido veniva nominato governatore della città catalana.

Sono stato a Cuba e nelle Filippine. Dovrei essere in Africa. Il governo mi manda a Barcellona e opererò come se si trattasse di una campagna militare.

Questa fu la prima dichiarazione del neo governatore – in pratica, una dichiarazione di guerra …

Quattro giorni dopo la nomina, Martinez Anido varò il nuovo gabinetto, tra cui spiccavano Martinez del Villar, un militare espulso addirittura dall’esercito; Arlegui, confermato a capo della polizia; l’ispettore Antonio Espejo Aguilar, a capo della Brigada Especial; e i carlisti Bertran i Musitu e Salvator Anglada.

E il generale Martinez Anido non aveva certo aspettato molto per presentarsi.

Dopo il decreto di costituzione del governo, seguì infatti la messa al bando del Sindacato, l’Unico, la CNT, che dir si voglia – quindi dei suoi dirigenti, delle pubblicazioni, di ogni forma di manifestazione pubblica – riunioni, feste, concerti, assemblee, un bicchiere tutti insieme al bar. Dopo ancora – e si parla di qualche giorno – iniziarono le retate in grande stile, organizzate da Arlegui.

La notte del 19 novembre, i principali dirigenti sindacalisti che dormivano nel proprio letto, vennero prelevati e portati al carcere Modelo.

La pratica della Ley de Fuga, l’usanza, cioè, di liquidare con un colpo alla schiena uomini già in stato d’arresto affermando poi che avevano tentato di fuggire, una specie di pena capitale senza dover passare dal tribunale, dove peraltro la sentenza di morte non era del tutto sicura, non era certo un’invenzione del generale Anido. Era una pratica usata nella metà degli stati “civilizzati”, ma in modo assai sporadico, estrema ratio per eliminare gli elementi più irriducibili. 

Però, la pratica della Ley de Fuga, con il generale Anido, diventò una pratica abituale.

Con il silenzio complice del presidente del consiglio Eduardo Dato, che aveva in pratica firmato un assegno in bianco pur di sbarazzarsi di tutti i grattacapi che gli procurava la situazione in Catalunya in generale, e a Barcelona in particolare.

Con la messa al bando del Sindacato, si venne ad assistere all’ascesa nei comitati degli uomini che erano più inclini a passare all’azione, che erano pronti a rispondere alla violenza con la violenza. D’altronde, quelli più propensi al dialogo, o li avevano abbattuti in strada come cani, o marcivano nel carcere Modelo, o, per salvare la pelle, se ne erano andati via lontano da Barcelona.

C’era stata quindi la tendenza a seguire l’esempio dei sindacati tradizionalmente più combattivi, come appunto quello dei Metallurgici.

Fu per questo che, per farla finita con questa situazione insostenibile, quel che restava della C.N.T. (e qualcosa restava sempre) si riunì in gran segreto il 16 dicembre in calle Vistalegre e si prese la decisione di andare ad attaccare direttamente la testa del mostro. Anzi, le teste del mostro.

Tanto per non fare nomi … in ordine crescente d’importanza:

Espejo, capo della sezione politica della polizia e torturatore in prima persona,

Arlegui, capo della polizia di Barcelona,

il generale Anido,

il presidente Dato …

Il primo a cadere sotto il fuoco dei revolver del Sindacato fu, all’inizio dell’anno, l’ispettore tanto caro ad Arlegui.

Gli altri colpi erano in fase di progettazione.

* * *

E torniamo al nostro sidercar Indian appena comprato. Il quale, contrariamente a ciò che forse pensava, rimase prudentemente nascosto per una manciata di giorni, il tempo di apportare anche alcune modiche adatte allo scopo, come la modifica del numero del telaio.

Là, il nostro sidecar conobbe gli altri due grandi personaggi più importanti della sua vita. Si chiamavano Pedro Mateu e Luis Nicolau.

Il primo era il miglior amico di Ramon Casanellas fin dai tempi dell’infanzia. Praticamente gemelli, se non per il fisico, almeno per le passioni – la pistola, le moto e l’anarchia, naturalmente.

Nicolau, invece, aveva la stessa età di Archs e, anche lui, era iscritto al sindacato dei Metallurgici.



Nel dicembre precedente, Casanellas e Mateu erano stati proposti ad Archs da Medí Martí, appartenente al famoso gruppo d’azione “los Sin Nombres”. Archs li conosceva e non aveva avuto dubbi nell’ammetterli alla missione. Mancava il terzo componente.

A dir la verità, i volontari non mancavano di certo. Medì stesso si era offerto ma lui era, come dire, bruciato, visto che viveva nella completa clandestinità essendo il suo volto noto alle forze dell’ordine e ricercato per vari attentati portati a termine dal suo gruppo.

La situazione era stata risolta da Lucia Forns, moglie segreta di Nicolau e intima amica di Amor Archs, sorella di Ramon. Era stata lei a fare il nome del marito al segretario dei Metallurgici, proponendo anche lei come una di quelle che doveva andare.



Il giorno 22 febbraio, i tre uomini portarono il nostro sidecar Indian a la Estació de Francia, lo fecero salire su una carrozza speciale adibita al trasporto e, in treno, tutti insieme raggiunsero Zaragoza.

Il programma prevedeva che Mateu avrebbe proseguito in treno per Madrid, mentre gli altri due, avrebbero raggiunto la capitale in sella al nostro Indian.

Il caso volle che, dopo pochi kilometri sulla strada per Madrid, precisamente all’altezza di Muela, il nostro sidecar avesse il suo primo incidente della sua breve vita, quando Casanellas, che guidava, per schivare una macchina, aveva perso il controllo del mezzo finendo la corsa in un piccolo dirupo, contro un albero.

Il nostro Indian ne uscì un po’ così – certo non bene – ma non così male – in fondo era ancora un giovanotto sano e forte.

Ramon e Luis lo riportarono su in strada e, lentamente, lo guidarono da un meccanico in paese.

Ramon ebbe un bel discutere con il meccanico in questione che voleva fare il lavoro in una settimana. Dovette, alla fine, offrire un po’ di soldi in più e il suo aiuto da esperto meccanico specializzato per averlo pronto per il giorno dopo.

L’errore – a posteriori – fu quello di mandare un telegramma a Mateu all’indirizzo della pensione a Madrid per comunicare il ritardo.

Risolto bene o male il problema dell’incidente, l’Indian fu finalmente in grado di raggiungere la capitale spagnola.

Là lo aspettava un locale tutto per lui, preso in affitto da Casanellas, al numero 7 di calle Fernandez Oviedo nel barrio di La Prosperidad.

Ramon, infatti, alla fine di dicembre, era partito alla volta di Tavalera de la Reina, a circa un centinaio di kilometri da Madrid, dove, sfruttando la sua competenza di meccanico specializzato, aveva trovato subito un posto di lavoro nell’officina “La Estrella”.

Nei primi giorni di gennaio, Ramon era stato raggiunto da Mateu, il quale, il giorno 12, aveva proseguito per la capitale dove, aiutato da membri della C.N.T. madrilena, aveva cercato una sistemazione per il commando incaricato della missione. Alla fine, era stato Tomas de la Llave a metterlo in contatto con una sua conoscente, Valeriana Lopez, proprietaria di una pensione al numero 164 di calle Alcalá.

Mateu aveva affitato una stanza dando le false generalità di Josè Parcaldo.

Un paio di giorni dopo, aveva fatto la sua comparsa Nicolau, sotto il falso nome di Leopoldo Noble.

Nicolau aveva subito trovato una stanza in un’altra pensione nella stessa strada – al numero 142 – e lì, era stato raggiunto dalla moglie, che per l’occasione aveva presentato i documenti falsi a nome di Francisca Mateos.

Per ultimo era arrivato Casanellas che, con il nome di Ramon Sabater, aveva preso posto nella stanza del suo amico d’infanzia.

Appena subito dopo il suo arrivo a Madrid, il nostro sidecar Indian, ebbe solo una notte per conoscere la sua nuova casa di calle Oviedo. Aveva bisogno, in realtà di un’altra settimana di riparazioni in un’officina.

Furono giorni di solitudine e di dolore, anche se Ramon non mancava di recarsi in visita per sincerarsi delle sue condizioni.

Infine, lo riportarono nella sua stanza in calle Oviedo. Là, passò un periodo tranquillo – felice, si potrebbe dire.

Ramon lo veniva a prendere tutti i giorni. Lo portava a fare giri sempre più lunghi – cosa che gli scaldava il cuore e le vene – e lo metteva alla prova – lo capiva da come accelerava, prima dolcemente, poi sempre più forte, fino a procurgli dolore, che però spariva quasi subito, e tornava di nuovo quella sensazione di benessere mai provata …

Per il resto, la vita scorreva pacifica, come se si trattasse di una vacanza.

Luis e Lucia, secondo quanto poi dichiarato dal personale e dai proprietari della pensione, sembravano una coppia perfettamente normale, educati, riservati e sobri.

Casanellas e Mateu, dal canto loro, avevano stretto amicizia con le due figlie di Valeriana. Le invitavano spesso per fare una passeggiata o per andare la teatro. Ramon usciva sovente anche da solo con una macchina fotografica per immortalare, diceva, le bellezze della capitale.

La sera, i due, in compagnia di Valeriana e delle sue due figlie, si dilettavano a leggere ad alta voce i quotidiani locali, cosa divertentissima per le tre donne per la loro pronuncia dal forte accento catalano.

In realtà, i quattro stavano discretamente lavorando alla preparazione dell’attentato.

Avevano già verificato il tragitto e gli orari fatti dalla macchina del primo ministro dal parlamento alla sua residenza.

Avevano certificato l’assenza di una qualunque scorta che non fosse il suo chauffeur armato.

Avevano controllato l’esistenza delle vie di fuga.

Mancavano solo alcuni dettagli e, naturalmente, poichè per ragioni di sicurezza erano tutti disarmati, le pistole necessarie per uccidere.

Quest’ultimo problema fu risolto da Mauro Bajatierra e Vermundo Luis Diez che si recarono nei Paesi Baschi dove erano in contatto con un Guardia Civil che trafficava in armi.

A Madrid riportarono una Mauser, due Star, una Bergman e una Martian con le relative munizioni.

Il 3 marzo arrivò la notizia dell’arresto, a Barcelona, di Evelio Boal, segretario nazionale della C.N.T., uno dei pochi ad essere al corrente di ciò che si stava preparando a Madrid.

Nel frattempo, nella Ciudad Condal, erano già 35 i membri del Sindacato caduti per effetto della Ley de Fuga o in sparatorie con bande della Padronal, nei primi due mesi dell’anno.

Bisognava agire in fretta, ed il giorno per l’azione venne fissato per l’8 di quel mese.

Il giorno prima, Casanellas si recò nel locale di calle Oviedo per apportare le ultime modifiche al nostro sidecar Indian. C’era da modificare la marmitta, di modo che il rumore della moto coprisse quello degli spari, e aggiungere delle intercapedini dove nascondere le armi fino al momento dell’attentato.

Mateu aveva affittato un altro locale dove lasciare il nostro sidecar dopo l’atto, non ritenendo quello di calle Oviedo sicuro. La destinazione finale del mezzo sarebbe stata una piccola stanza ubicata al pianterreno del numero 77 di calle Arturo Soria nel barrio della Ciudad Lineal.

La sera, i tre uomini scelsero la propria arma: Casanellas la Bergman, Mateu la Mauser e Nicolau una Star.

Il nostro sidecar, naturalmente, aveva già intuito che qualcosa stava per succedere. Fin da quella sera. Per quanto può intuire un sidecar Indian, beninteso …

Comunque, seppe che l’indomani sarebbe stato un giorno speciale. Lo capì, oltre che dai nuovi lavori, dal modo in cui Ramon lo aveva accarezzato e lo aveva guardato, più intensamente e per più tempo del solito.

Emozioni, insomma …

Nel pomeriggio del 8 marzo, Casanellas e Mateu uscirono dalla pensione e si recarono in calle Oviedo. Casanellas inforcò la moto e Mateu si accomodò al posto a sedere alla sua destra.

Il nostro sidecar prese la direzione di plaza Castelar dove li aspettava Nicolau, che prese posto dietro a Ramon.

Erano quasi le sette di sera dell’8 marzo quando, il Presidente del Consiglio in carica, Eduardo Dato Iradier, lasciò il palazzo del senato e prese posto sul sedile posteriore dell’autovettura ufficiale con autista che lo aspettava per riportarlo a casa. Il Presidente, nei giorni precedenti, era stato avvertito in via confidenziale della possibilità di attentati contro la sua persona, ma non aveva ritenuto opportuno dotarsi di una scorta – aveva solo fissato per l’indomani un incontro con il Ministro dell’Interno per discutere dell’argomento, e tanto bastava.

L’auto del Presidente, una Hudson nera con la targa distintiva del Automovilismo Rapido Militar, sfrecciò in calle de Alcalà a circa 60 chilometri all’ora. Né l’autista, né tanto meno l’importante passeggero si accorsero di quel sidecar modello Indian che, all’altezza del palazzo de Comunicaciones, si era incollato a una ventina di metri dalla Hudson e la seguiva alla stessa identica velocità.

Il piccolo corteo rallentò per entrare in plaza de la Independencia.

La Hudson svoltò a sinistra e procedette piano, ché subito doveva imboccare calle Serrano.

L’Indian svoltò a sinistra e il conducente diede gas, ché subito doveva affiancare l’auto.

Quel tratto di plaza de la Independencia quaranta secondi, un minuto forse di tempo

Casanellas pigiò sull’acceleratore, con rabbia e disperazione

Nicolau, dietro di lui, gli strinse la spalla, tirò fuori la Star e stese il braccio

Mateu, seduto al posto del passeggero, fece lo stesso

L’Indian riuscì ad affiancare l’automobile governativa.

Le pistole fecero fuoco.

Erano le 19 e 14 minuti, quando il grido – Visca l’anarquia!, in catalano – si confuse con l’eco dei spari e il rumore del motore del sidecar.

L’Indian proseguì veloce per calle Serrano, poi Goya, Castellana, poi a fari spenti fino all’ anonimo garage nella Ciudad Linear.

L’autista della Hudson, ferito lievemente ma sotto shock, proseguì per cento metri, fino alla casa del Presidente. Gli agenti di guardia capirono subito che era successo qualcosa e condussero l’auto con il suo passeggero, che respirava ancora, verso il pronto soccorso di Buenavista. Eduardo Dato però, vi arrivò cadavere. Due dei diciotto colpi che avevano raggiunto la macchina, lo avevano centrato alla testa.

Finalmente, al buio del suo rifugio, l’Indian fu in grado di pensare a ciò che era appena accaduto. Rimettere insieme pensieri ed emozioni. Respirare forte. Provare a sorridere …

* * *



HA SIDO ASESINADO EL PRESIDENTE DEL CONSEJO

Fueron disparados contra el automivil que ocupaba el Sr. Dato, varios tiros, resultando muerto el presidente y herido el chofer. El triste suceso ocurriò à las 8 de la noche cuando el Sr. Dato salìa del Congreso

[La Vanguardia, 9 marzo 1921]

La testa più importante del Mostro. Colui che aveva dato il via libera alla Ley de Fuga, aveva pagato per tutti i morti che ci erano e che ci sarebbero ancora stati.

Ora, doveva toccare anche a Martinez Anido e ad Arlegui. Ma questo non era più un affare dei tre attentatori di plaza de la Independencia. Quei tre, ora, dovevano pensare solo a fuggire il più lontano possibile.

E i tre avevano deciso che, in qualunque modo fosse andata, si sarebbero separati e ognuno se la sarebbe cavata come meglio credeva. Ognuno per sé e il destino per tutti.

L’11 marzo la polizia della capitale, grazie al sottufficiale Maté che, cercando l’ormai famoso sidecar, aveva trovato un carbonaio che, quella nota sera, mentre i tre procedevano a fari spenti, quasi avevano travolto e ucciso dallo spavento e che, per un breve ma significativo istante, era riuscito a fissare la faccia di Mateu.

Maté chiamò, allora, il suo superiore che inviò ingenti forze a circondare l’edificio di calle Soria. La polizia fece irruzione e lì trovò il nostro sidecar Indian e, all’interno di quello, le cinque pistole che erano state comprate nei Paesi Baschi.

Si potrebbe immaginare lo spavento del nostro sidecar, dopo aver passato due giorni al buio e da solo, nel vedere quella folla armata entrare all’improvviso e cominciare a cercare dappertutto con modi bruschi e insensibili. Poco dopo, giunse un gruppo di giornalisti armati con macchine fotografiche e anche parecchi curiosi. Infine venne portato in una caserma dove dovette subire ogni sorta di analisi e controlli.

Tristezza, solitudine, paura, e anche nostalgia per quei tre amici …

Il giorno dopo, sui giornali, oltre alla notizia del ritrovamento del mezzo utilizzato per l’attentato, comparve la notizia che la polizia ricercava persone di origini catalane.

Quel pomeriggio, nella pensione di calle Alcalá, durante il rito della lettura ad alta voce dei quotidiani, Casanellas cominciò a scherzare: “Questa volta sì che glien’è capitata una buona ai catalani!”.

Lui e Mateu avevano già deciso di cercare di filarsela da Madrid il giorno dopo, ma non potevano certo immaginare che la polizia, grazie al telegramma mandato ai tempi dell’incidente fuori da Zaragoza, era sul punto di localizzare la pensione dove si nascondevano.

Luis e Lucia avevano già lasciato la capitale in treno ed erano tornati a Barcelona, approffittando del fatto che una coppia di giovani sposi non sembrava essere così sospetta.

La mattina di buonora, i due amici uscirono in strada, con l’intenzione di non mettere mai più piede nella pensione e di trovare un modo indolore di lasciare la città prima ed il paese poi.

Mateu, però, lo beccarono il giorno dopo, proprio nei pressi della pensione dato che, stupidamente, come ebbe ad ammettere egli stesso tempo dopo, voleva recuperare una giacca che vi aveva lasciato.

Nicolau e Casanellas, invece, riuscirono a cavarsela in qualche modo.

Nicolau e la sua dolce sposa, dopo essere rimasti nascosti per qualche tempo nella casa della sorella di Archs, riuscirono a raggiungere la Germania, via Francia.

Di Casanellas, se ne persero le traccie per qualche tempo – si seppe in seguito che si era rifugiato per un po’ nei Paesi Baschi – fino a che non sbucò due anni dopo, sano e salvo, nella nuova Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.

Il 21 giugno dello stesso anno, una soffiata permise agli uomini di Arlegui di mettere le mani sul neo segretario del Comitato Regionale della CNT, Ramon Archs, mentre attraversava plaza Universidad, che non ebbe nemmeno il tempo di mettere la mano alla sua Star.

Ramon venne portato al commissariato di calle Layetana – non prima di averlo massacrato di botte – dove venne torturato per ore da Martinez Anido e da Arlegui in persona.

Il cadavere di Ramon Archs ci mise due giorni ad affiorare in carrer Vila i Vilà, crivellato di colpi, con segni evidenti di sevizie, e con il volto orrendamente sfigurato.

Ley de fuga, naturalmente, fu la versione ufficiale …

Nel settembre del 1921, la polizia tedesca arrestava Luis e Lucia a Berlino. Su di loro, e su Casanellas, pendeva una taglia di un milione di pesetas offerta dalla stato spagnolo. Nel febbraio successivo, la Germania concedeva l’estradizione con, però, la condizione che, in nessun modo, i due fossero condannati a morte.

Nell’ottobre del 1923, venne celebrato il processo contro Mateu, Nicolau, Casanellas (in contumacia) e i loro complici. Per motivi di sicurezza, questo si tenne direttamente nel carcere Modelo di Barcelona dove la maggior parte degli imputati era improgionata.

La sentenza fu di pena di morte per i tre autori materiali, nonostante una lettera di Ramon dalla Russia in cui si assumeva tutta la responsabilità dell’attentato. Il 22 gennaio del 1924, un decreto reale convertiva la pena di morte in carcere a vita, mentre Lucia Pons veniva rilasciata in libertà.

Con l’avvento della Repubblica nel 1931, Mateu e Nicolau,grazie ad una amnistia, uscirono dal carcere, mentre Casanellas, che nel frattempo si era convertito allo stalinismo, rientrò in Catalunya mandato dal Partito Comunista per riorganizzare i comunisti della regione.

Ramon Casanellas morì in un poco chiaro incidente su una delle sue amate moto mentre si recava ad una riunione del Partito a Madrid nel 1933.

Luis Nicolau, dopo la sua liberazione, continuò a militare nella Federacion Anarquista Iberica, e, verso la fine della guerra civile, venne catturato dai fascisti e fucilato.

Pedro Mateu riuscì, invece, a rifugiarsi in Francia dove visse fino alla morte, nel 1982.

E il nostro sidecar Indian?

A differenza del suo equivalente meccanico che aveva trasportato Dato il giorno dell’attentato e che finì in un museo, il nostro, dopo il processo, finì dimenticato da tutti tranne che da noi e da tutti gli amanti della libertà …