MORTE AI BORGHESI! Capitolo III

CAPITOLO III – BOMBE E GHIGLIOTTINE

[in memoria di Ravachol]

EROE O CRIMINALE?

Il primo maggio del 1891, uno dei numerosi cortei che, quel giorno, si tennero per tutta la Francia, partì da Levallois-Perret per arrivare a Clichy. Erano presenti anche una ventina di anarchici raccolti dietro ad una bandiera rossa.

Durante il percorso non vi fu alcun incidente degno di nota. Conclusa la manifestazione a Clichy, tre anarchici, Henri Decamps, Charles Dardare e Louis Léveillé entrarono in una bottega di vini per farsi un bicchiere. Stavano arrotolando la bandiera quando, nel locale, entrò un gruppo di poliziotti e gendarmi con l’intenzione di arrestarli. Ma i tre erano armati di revolver e ne seguì una bagarre condita da uno scambio di colpi di arma da fuoco che, fortunatamente, finì senza feriti.

Una volta arrestati, i tre vennero portati in commissariato dove vennero selvaggiamente pestati.

Questo fatto fu, in un primo momento, messo nell’ombra da un altro accaduto lo stesso giorno a Fourmies, nel nord della Francia, dove l’esercito aveva sparato sui manifestanti provocando nove morti e almeno 35 feriti.

Portati in Corte d’Assise il 28 agosto per essere giudicati davanti al giudice Benoît, il sostituto procuratore Bulot richiese per i tre anarchici la pena di morte.

La mia testa? La potete tagliare. Ve la lascio: la porterò fiera e dritta sul patibolo. La testa di un anarchico in più o in meno non impedirà la propaganda”, disse Decamps.

Ma la giuria fu di un altro avviso e a Decamps diede 5 anni di carcere, 3 a Dardare, mentre Léveillé venne assolto.

Una settimana prima del verdetto per i fatti di Clichy, un uomo di 32 anni circa era andato a bussare alla porta dell’abitazione del minatore anarchico Charles Chaumentin a Saint-Denis, cercando ospitalità.

L’uomo si faceva chiamare Ravachol ed era appena evaso di prigione.

Ravachol era nato con il nome di François Koenigstein a Saint-Charmond, nella Loire, nel 1859, da padre olandese, laminatore in una fonderia a Isieux.

Padre che non aveva neanche quasi mai visto, dato che Frnaçois era stato dapprima lasciato alle cure di una balia e poi, quando aveva tre anni, lo avevano messo in un asilo, da cui era uscito quattro anni dopo, perché il suo genitore aveva deciso di piantare tutto e di tornarsene da solo nel suo paese di origine.

Ravachol era il cognome della madre che, rimasta sola con quattro marmocchi da tirare su, aveva più che mai bisogno del suo primogenito, François appunto, per mandarlo a lavorare e portare qualche soldo a casa.

François lavorò per un paio di anni come aiutante dei contadini e allevatori della zona. Era entrato poi come apprendista tintore in una fabbrica in cui aveva fatto poi anche l’operaio.

Quando aveva 16 anni, lo avevano licenziato perché aveva partecipato ad uno sciopero.

François si era allora trovato un nuovo lavoro da tintore a Lione, dove era rimasto un anno.

Aveva fatto ritorno a Saint-Charmond perché qualcuno gli aveva trovato un posto nella fabbrica metallurgica in cui aveva lavorato suo padre.

Era stata la lettura de “L’ebreo errante” di Eugène Sue che, in qualche modo, gli aveva fatto cambiare vita. François si era iscritto ad un circolo di studi sociali, che spesso invitava conferenzieri anarchici.

La vita era dura e i soldi non erano mai abbastanza per mandare avanti tutta la famiglia. François aveva cominciato a farsi chiamare con il cognome della madre, Ravachol, ed aveva cominciato a commettere piccoli furti per arrotondare. Il suo datore di lavoro lo aveva però scoperto e lo aveva licenziato in tronco, insieme a suo fratello.

Ravachol e suo fratello erano allora partiti per Saint-Etienne ed avevano trovato lavoro, permettendo così al resto della famiglia di raggiungerli. Ma il lavoro non era mai sicuro. Quando il padrone non ne aveva bisogno, licenziava a piacimento un certo numero di operai. Il profitto sempre prima di tutto.

I periodi di disoccupazione erano molto frequenti. Periodi in cui, però, bisognava continuare a mangiare, a pagare l’affitto. Ravachol si era messo a fare allora il contrabbandiere di alcol, poi aveva provato a falsificare moneta.

Era stato in quel tempo che aveva conosciuto ed era diventato l’amante di una donna sposata. Lui ne era follemente innamorato. Per la prima volta, si era messo a fare progetti. Aveva immaginato un futuro felice, al di là di quel misero presente.

Volevo fare la felicità della mia amante e la mia, metterci per l’avvenire al riparo di ogni miseria. Mi venne l’idea del furto in grande. Mi dicevo che tutti siamo uguali e che dovremmo avere gli stessi mezzi per procurarci la felicità.

Tra il maggio ed il giugno del 1891, due odiosi crimini vennero commessi nella zona di Saint-Etienne.

Nella notte tra il 14 de il 15 maggio, nel cimitero di Terrenoire, qualcuno profanò la tomba della contessa de la Rochetaillé, alla ricerca dei gioielli con cui, una leggenda popolare pretendeva, si fosse fatta seppellire.

Il 18 giugno, a Chambles, venne rinvenuto il cadavere di un vecchio eremita di 92 anni che, nel corso della sua vita, attraverso le gentili donazioni di chi lo credeva una specie di santone, aveva accumulato una notevole fortuna.

La polizia, per questi misfatti, era stata messa sulle tracce di Ravachol ed era riuscita ad arrestarlo, ma lui era riuscito ad evadere prima di comparire davanti al giudice.

Ravachol

Chaumentin, anche se non lo conosceva personalmente, da anarchico qual’era, offrì al compagno in fuga ospitalità senza fare domande.

Ravachol aveva un animo generoso, un carattere fondamentalmente buono, portato al ragionamento, anche se non era molto istruito, avendo frequentato in gioventù che tre inverni a scuola e, più tardi, qualche corso serale. Si faceva, ad ogni modo, voler bene.

L’abitazione di Chaumentin, che doveva essere solo un rifugio temporaneo, diventò invece anche la sua casa. Anche la moglie e i due figli del suo ospite lo adottarono.

Allora il caso volle che Madame Chaumentin fosse amica della moglie di quel Henri Decamps che era stato messo dietro le sbarre per i successivi cinque anni per i fatti del primo maggio.

La donna raccontò a Ravachol, durante quelle afoso serate d’estate, tutte le sofferenze della famiglia di Decamps.

Ravachol, che di quella storia non sapeva niente, ne rimase profondamente colpito. Non fu molto difficile, per lui, immedesimarsi in quel dramma. Lo aveva già vissuto.

L’11 marzo del 1892, Ravachol depose una marmitta ripiena di esplosivo presso l’abitazione del presidente della Corte d’Assise Benoît, situata nel boulevard di Saint-Germain al numero 136.

Nonostante gli ingenti danni materiali, valutati poi in 40.000 franchi, non ci fu alcun ferito.

Un’altra bomba, nel frattempo, esplose a Parigi, colpendo la caserma Lobau il 15 marzo, ma causando che pochi danni.

Ricostruzione della bomba di boulevard Saint-Germain

La polizia non ci mise molto a mettersi sulle sue tracce.

Tra le persone che frequentavano la casa di Chaumentin, c’era una donna, confidente della polizia, indicata nei relativi rapporti con la sigla “S. d’A.”.

Le forze di polizia fecero irruzione nell’abitazione il 17 marzo, ma non poterono fare altro che arrestare Charles,perché Ravachol non era più lì.

Il 27 marzo, venne il turno del sostituto procuratore Bulot.

Nonostante fosse ricercato dalla polizia come il nemico pubblico numero uno, Ravachol riuscì a piazzare una bomba presso l’edificio dove abitava il togato.

Anche questa volta, non vi fu nemmeno un ferito.

Prese dal panico, le autorità fecero diffondere su tutti i giornali la descrizione del pericoloso terrorista.

Altezza 1 metro e 66; capelli e sopracciglia marrone scuro; barba di colore scuro; volto ossuto; naso allungato; viso lungo; fronte rotonda e piuttosto grande; aspetto malaticcio.

Segni particolari: cicatrice rotonda sulla mano sinistra, dalla base dell’indice fino al pollice […]

Danni all’edificio del procuratore

Fu quest’ultimo appunto a risvegliare la memoria di un giovane impiegato al ristorante Véry, situato al numero 24 del boulevard Magenta, di nome Jules Lhérot.

Quando, tre giorni dopo l’attentato dinamitardo, Ravachol tornò a sedersi ad un tavolo del Véry, il ragazzo non ebbe più dubbi e se ne andò di corsa ad avvertire la polizia.

Ravachol venne arrestato quello stesso giorno, ma non senza aver opposto una feroce resistenza.

Quella sera, seduto dietro le sbarre, Ravachol cominciò a parlare ai tre ispettori di polizia incaricati di sorvegliarlo giorno e notte della sua idea di anarchia e della storia della sua vita.

I tre ispettori cominciarono a trascrivere tutto quello che lui raccontava – e raccontava di un mondo senza il denaro, senza proprietà privata, eserciti e padroni, un mondo senza confini, di tutti, e la sua vita, dalla nascita fino alla fuga a Parigi.

Quell’opera letteraria, che avrebbe potuto essere intitolata Mémoirs, venne interrotta bruscamente il 17 aprile, da ordini superiori, che impedirono a quelli che erano deventati degli scribani di continuare a fare il loro lavoro, con la scusa della pericolosità di stare in contatto con quelle malsane idee.

Arresto di Ravachol

Il 25 aprile, alla vigilia della data in cui era stato fissato il processo a Ravachol, il ristorante Véry venne scosso da una potente esplosione.

Il titolare ed uno dei consumatori presenti morirono in seguito alle ferite riportate.

Véryfication” intitolò beffardamente Le Père Peinard di Pouget.

Il giorno dopo, la Corte d’Assise della Senna, protetta da imponenti misure di sicurezza, aprì il processo per le bombe che avevano scosso Parigi il mese precedente.

Oltre a Ravachol e Chaumentin, erano imputati come complici a vario titolo del dinamitardo, Charles Simon detto Biscuit (biscotto), Joseph Beala detto Jas-Beale e la compagna di quest’ultimo, Rosalie Soubert detta Mariette.

Fin da subito, Ravachol si assunse tutte le responsabilità cercando di spiegare come gli altri non fossero stati che degli aiutanti inconsapevoli. Il suo comportamento apparve calmo, sereno, dignitoso.

Le persone chiamate a testimoniare non peggiorarono il quadro, anzi, tutto il contrario. Venne fuori come quell’uomo fosse sinceramente interessato alle sorti della famiglia di Decamps, tanto da donare denaro alla moglie e vestiti per i figli.

Ravachol venne condannato ai lavori forzati a vita così come Simon, mentre gli altri imputati vennero assolti.

Per Ravachol, però, non era ancora finita. Doveva ancora rispondere dei crimini di cui era stato accusato prima del periodo parigino.

Comparve quindi davanti alla Corte d’Assise della Loire il 21 giungo successivo.

Anche in questo processo, tenne un’attitudine calma e sobria. Prima della sentenza pronunciò un discorso per giustificare le sue azioni.

Se prendo la parola, non è per difendermi degli atti di cui mi si accusa, poiché solo la società che, con la sua organizzazione, mette gli uomini in continua lotta gli uni contro gli altri, è responsabile. E, in effetti, non vediamo in tutte le classi, in tutti gli ambienti, delle persone che desiderano, non dico la morte, poiché suonerebbe male all’orecchio, ma la disgrazia dei loro simili se questa può procurare loro dei vantaggi?
[…]

Ebbene, in una società dove si producono simili fatti non devono sorprendere atti del genere di quelli che mi si rimproverano, i quali non sono altro che la logica conseguenza della lotta per l’esistenza che si fanno gli uomini che per vivere sono obbligati ad impiegare tutti i mezzi possibili. Dal momento che ciascuno deve pensare a sé, colui che si trova nella necessità deve agire. Ebbene! Poiché così è, quando io avevo fame non ho esitato ad impiegare i mezzi che erano a mia disposizione a rischio di fare delle vittime.
Quando i padroni licenziano gli operai si preoccupano poco di vederli morire di fame.
[…]

Ebbene! tutto questo accade in mezzo all’abbondanza di ogni tipo di prodotto. Si capirebbe se tutto questo avesse luogo in un paese povero di prodotti, dove vi è la carestia; ma in Francia, dove regna l’abbondanza, dove le macellerie sono stracolme di carni, i panifici di pane, dove i vestiti, le scarpe riempiono i magazzini; dove vi sono appartamenti vuoti, come ammettere che nella società tutto va bene quando si vede così bene il contrario? Vi sono delle persone che piangono tutte queste vittime ma dicono che non è possibile far niente! Che ognuno se la sbrogli come può! Cosa può fare colui che, pur lavorando, manca del necessario? Se non lavora, non gli resta che lasciarsi morire di fame, e allora qualcuno getterà qualche parola di pietà sul suo cadavere. Ecco ciò che ho voluto lasciare ad altri. Ho preferito diventare contrabbandiere, falsario, ladro e omicida!

Avrei potuto mendicare, ciò è degradante e vigliacco ed è anche punito dalle vostre leggi che fanno della miseria un delitto.

Se tutti i bisognosi, invece di aspettare, prendessero dove vi è e non importa con quale mezzo, può essere che i benestanti comprenderebbero più in fretta che è pericoloso voler conservare l’attuale stato sociale dove l’inquietudine è permanente e la vita è in ogni istante minacciata; finirebbero senza dubbio per comprendere che gli anarchici hanno ragione quando dicono che per avere la tranquillità morale e fisica, bisogna distruggere le cause che producono il crimine e i criminali. Non è sopprimendo colui che preferisce prendere violentemente ciò che gli serve per assicurarsi il benessere, piuttosto che morire di una morte lenta dovuta alle privazioni che sopporta, o che dovrebbe sopportare senza speranza di vederle finire (se ha un poco di energia). Dopo tutto la fine della propria vita non è altro che una fine delle sofferenze.
Ecco perché ho commesso gli atti che mi si rimproverano e che sono la conseguenza logica dello stato barbaro di una società che non fa altro che aumentare il numero delle sue vittime col rigore delle sue leggi che intervengono sugli effetti senza mai toccare le cause!

Si dice che bisogna essere crudeli per ammazzare un proprio simile: ma coloro che parlano così non vedono che lo si fa per evitare che lo facciano a noi stessi!
Anche voi, signori giurati, senza dubbio mi condannerete a morte perché credete che è una necessità e che la mia scomparsa sarà una soddisfazione per voi che avete orrore di veder scorrere il sangue umano; ma quando credete che sia utile versarlo per assicurare la vostra esistenza non esitate più di me a farlo. Con questa differenza, che voi lo farete senza alcun pericolo, al contrario di me che agivo a rischio e pericolo della mia libertà e della mia vita.

[…]

Ho lavorato per vivere e far vivere i miei, tanto che io e i miei non abbiamo troppo sofferto, sono rimasto quello che voi chiamate onesto. Poi il lavoro è mancato e con la disoccupazione venne anche la fame!

È allora che questa grande legge della natura, questa voce imperiosa che non ammette repliche, l’istinto della conservazione mi spinse a commettere i crimini e i delitti di cui mi riconosco l’autore.

Nego di aver commesso quelli della Varizelle [Ravachol era stato anche incolpato di omicidio volontario nella persona di Jean Rivolier abitante a La Varizelle, n.d.r.] e delle signore Marcon [due donne trovate uccide a Saint-Etienne, n.d.r.] poiché vi sono completamente estraneo e voglio evitare alla vostra coscienza i rimorsi di un errore giudiziario.
Giudicatemi, signori giurati, e, se mi avete compreso, nel giudicarmi, giudicate tutti i disgraziati che la miseria, alleata alla fierezza naturale, ha fatto diventare criminali e che in una società intelligente sarebbero state persone come tutte le altre.

Ravachol venne condannato a morte. Lui accolse la sentenza gridando: “Viva l’Anarchia!

Spero che i giurati che, condannandomi a morte, hanno gettato nella disperazione coloro che mi hanno conservato il loro affetto, portino nella loro coscienza il ricordo della loro sentenza con la stessa leggerezza e coraggio con cui io porterò la mia testa sotto la lama della ghigliottina.

Venne ghigliottinato prima dell’alba dell’11 luglio del 1892 nel cortile della prigione di Montbrison.

Si narra che rifiutò l’assistenza del prete del carcere e che camminò fino al patibolo cantando.

Gli eventi legati alla figura di Ravachol, nonostante le inevitabili polemiche a causa dei crimini che lo avevano portato alla ghigliottina, non spaccarono il movimento. Il carattere esclusivamente politico delle bombe di Parigi e il suo comportamento durante i due dibattimenti fecero sì che la maggior parte degli anarchici dell’epoca prendessero le parti in suo favore, compresi coloro che avevano sempre mantenuto le distanze dagli atti violenti, come, per esempio, Élisée Reclus, Charles Malato e Jean Grave.

Anche a livello popolare, l’impatto di Ravachol e delle sue azioni fu notevole. La sua figura ispirò discorsi, articoli, opere letterarie che richiamavano il destino tragico o il bisogno della vendetta.

Una canzone a lui intitolata, La Ravachole, sull’aria de La Carmagnole, divenne celebre all’epoca.

Ma, soprattutto, spinse altri all’azione.

IL DANDY DELL’ANARCHIA

… scrittore e cavaliere errante, […] avvolto in un mantello scuro e da una specie di sombrero, sotto l’ampia tesa del quale non si distingueva che le onde di una barba scintillante. Zo d’Axa avrebbe potuto rivendicare come armi la penna, la spada e la chitarra, perché era sia formidabile polemista, valente spadaccino e irresistibile Don Giovanni.

Zo d’Axa era lo pseudonimo, proveniente dall’etimologia greca, che l’uomo chiamato Alphonse Gallaud si era scelto: “vivere mordendo”.

Pseudonimo che Gallaud/Zo d’Axa non mancò mai di onorare.

Nato nel 1864 a Parigi da una famiglia agiata, il giovane Alphonse aveva studiato nel prestigioso collegio Chaptal ed aveva proseguito la sua educazione presso il collegio militare di Saint-Cyr. Nel 1882, si era arruolato volontario nel battaglione d’Africa. Ma la disciplina gli era risultata indigesta e, in più, era diventato l’amante della moglie del suo capitano. Motivi sufficienti, questi, per disertare e raggiungere Bruxelles in compagnia della fredifraga. La storia d’amore non era comunque durata molto e Alphonse era ripartito per il Lussemburgo con una nuova conquista, raggiungendo poi Roma, dove aveva cominciato a frequentare gli ambienti artistici. Era diventato anche critico d’arte per la rivista L’Italie con lo pseudonimo di Charles d’Aulga.

Alphonse aveva fatto ritorno a Parigi nel 1889, con la sua nuova compagna Beatrice Salvioni, quando il suo reato di diserzione era stato amnistiato, andando subito a visitare i circoli letterari ed artistici di Montmartre.

Tra gli originali che vennero a provare l’anarchia, occorre menzionare Zo d’Axa. Cominciò a farsi notare in alcuni piccoli circoli in cui annunciò l’intenzione di pubblicare un giornale. Zo d’Axa non voleva somigliare a tutti gli altri. Lo testimonia il nome di guerra che si era scelto. Lo dimostrava anche dal taglio dei suoi vestiti, che gli davano l’aria di un moschettiere. […] Per quanto riguarda il giornale che doveva apparire ,era perplesso. […] Sarebbe stato realista o anarchico? Problema serio, bisognava impressionare la gente! D’Axa era incline al realismo. E questo era adatto al suo carattere. Per temperamento, era un aristocratico. Il suo entourage finì per convincerlo per l’anarchia. Ma per essere più originale, il giornale si sarebbe chiamato L’Endehors.”

Zo d’Axa

Il primo numero di L’Endehors (al di fuori), settimanale, uscì subito dopo i fatti del primo maggio del 1891 e cominciò subito a fare collezione di ammende e sequestri.

Noi andiamo, individui, senza la fede che salva e che acceca. Il nostro disgusto per la società non comporta convinzioni immutabili. Noi lottiamo per la gioia della battaglia e senza sogni di un futuro migliore. Che ce ne frega dei domani che ci saranno nei secoli! Che ce ne frega dei pronipoti! È al di fuori di tutte le leggi, di tutte le regole, di tutte le teorie – anche anarchiche – è ora, subito che vogliamo lasciarci andare ai nostri dolori, ai nostri sfoghi, ai nostri piaceri, ai nostri istinti con l’orgoglio di essere solo noi stessi.

Con Armand Matha come gerente dal gennaio del 1892, L’Endehors contava su numerosi collaboratori tra i quali Charles Malato, Georges Darien, Félix Fénéon, Sébastien Faure, Lucien Descaves, Octave Mirbau, Camille Mauclair, Tristan Bernard ed altri ancora.

Matha, barbiere autodidatta, figlio di contsdini, era già stato aiutante di Jean Grave per il suo La Révolte e gerente di Le Père Peinard di Pouget.

Durante il processo a Ravachol e ai suoi complici, L’Endehors lanciò una sottoscrizione per aiutare le famiglie degli imputati.

Accusato a sua volta di far parte di un’associazione di malfattori, Zo d’Axa venne arrestato e passò un mese nel carcere di Mazas prima di essere rilasciato. Ma la minaccia di un nuovo arresto, lo spinse a riparare a Londra, dove ritrovò Malato.

L’Endehors continuò comunque ad uscire, portato avanti da Matha e Fénéon.

LA GOCCIA CHE FA TRABOCCARE IL VASO

L’incubo dei borghesi, in effetti, era appena incominciato.

Quella testa rotolata nell’oscurità della notte dell’11 luglio portava con sé il germe della vendetta.

La dinamite sarebbe tornata ben presto a rovinare la tranquillità di chi pensava di poter trascorrere sonni tranquilli, semplicemente calando la lama della ghigliottina.

Poco dopo l’esecuzione di Ravachol, nell’agosto del 1892, ebbe luogo un durissimo sciopero nelle miniere di Carmaux, di proprietà del barone Reille. Il fatto scatenante era stato il licenziamento del sindacalista socialista Jean-Baptiste Calvignac che, tre mesi prima, era stato eletto sindaco di Carmaux.

Lo sciopero, che per la sua durata entrò a far parte dell’epica popolare e che ispirò Émile Zola per il suo romanzo “Germinal”, si protrasse fino all’inizio di novembre.

Cinque giorni dopo la ripresa del lavoro, l’8 novembre, in avenue de l’Opéra a Parigi, venne rinvenuta una bomba nelle scale dell’edificio che ospitava gli uffici della Società delle Miniere di Carmaux.

Trasportato nel commissariato di rue des Bons-Enfants, l’ordigno esplose, uccidendo cinque poliziotti.

E la psicosi riprese.

Auguste Vaillant non aveva mai pensato di poter far ricorso alla violenza fino alla fine dell’estate del 1893. in quel tempo, aveva finalmente qualcosa per poter dire di essere felice ma, forse, non aveva ormai più speranze.

Vaillant aveva sempre avuto una vita disgraziata. Nato nel 1861 a Mézières, nelle Ardenne, era stato abbandonato in tenerissima età dal padre gendarme e la madre lo aveva allora affidato ad una balia.

A dodici anni, viveva già da solo a Parigi; a quindici anni lavorava come apprendista pasticcere.

Aveva, in seguito, cominciato a vagabondare. Attraverso il suo casellario giudiziario si poterono ricostruire alcuni dei suoi spostamenti. Era stato condannato a 6 giorni nel maggio del 1878, per aver lasciato un ristorante senza pagare a Charlesville, dopo qualche mese si era fatto tre giorni di carcere a Marsiglia perché chiedeva l’elemosina, poi tre mesi ad Alger per furto, ed un altro mese di nuovo a Marsiglia per furto e mendicità, nel 1881.

Dal 1884, la polizia lo segnalava di nuovo a Parigi, dove si era avvicinato agli ambienti socialisti, membro di diversi comitati e commissioni. Ma era stato ben presto attratto dall’anarchismo. Si era messo a frequentare il circolo Les Egaux de Montmartre, che si riuniva all’angolo di rue de la Nation con Clignancourt, facendo la conoscenza di diversi anarchici propensi all’illegalismo, come il belga Désiré Pauwels, quel Chaumentin che avrebbe ospitato Ravachol, Élisée Bastard, Joseph Beala.

Vaillant aveva deciso comunque di tentare la sorte fuori dalla Francia, in qualche paese lontano, ed era riuscito ad imbarcarsi per l’Argentina da Le Havre. Era dunque arrivato a Buenos Aires nell’ottobre del 1890.

Vaillant aveva creduto di aver ottenuto una concessione nel territorio del Chaco ma, come tanti altri, in realtà, era stato truffato. Di nuovo in miseria, era riuscito ad imbarcarsi per la Francia solo nel marzo del 1893.

Auguste aveva di nuovo dovuto ricominciare tutto d’accapo. Separato dalla moglie, si era messo con una cugina di questa, Madame Marchal, e con la figlia legittima di lui, Sidonie, erano andati a vivere in un hotel a Choisy-le-Roi, vicino a Parigi.

La sistemazione, anche se piccola, era pulita e ben tenuta. Vaillant aveva trovato lavoro in una conceria e riusciva a pagare regolarmente l’affitto. Era presidente della Biblioteca filosofica per lo studio delle scienze naturali e la loro diffusione.

Ma qualcosa si era rotto dentro di lui. Non vedeva altro che la miseria attorno a sè ed ai propri cari. Un piccolo prestito rifiutatogli dal suo datore di lavoro fu “la goccia d’acqua che fece traboccare il vaso.

Auguste Vaillant

Nei giorni successivi, Vaillant tornò a chiedere soldi in giro ma, questa volta, per tutt’altra ragione.

Dalla moglie di Paul Reclus, nipote di Élisée e imprenditore per il quale aveva in passato lavorato, ottenne 20 franchi. Altri 100 franchi glieli diede uno scassinatore anarchico di cui non fece mai il nome.

Con quei soldi, si recò a Parigi e prese una camera all’Hôtel de l’Union, in rue Daguerre, registrandosi con il nome di Marchal.

Chiuso nella sua abitazione dal 27 novembre, Vaillant si mise a fabbricare una bomba, tenendo nello stesso tempo un diario in cui annotava pensieri e considerazioni.

In uno degli ultimi paragrafi, datato 8 dicembre, Auguste scrisse:

“ … Ho un bel analizzare i miei sentimenti, non sento alcun odio per coloro che cadranno domani […]”

Il giorno dopo, Vaillant uscì dall’albergo, andò a spedire il suo diario a Paul Reclus e, poi, si diresse verso il Palais Bourbon, sede della Camera dei deputati.

Verso le ore 16, Vaillant, dalla seconda tribuna in alto situata alla destra del presidente, lanciò verso i deputati la sua bomba, caricato con chiodi, pezzi di zinco e piombo.

Una cinquantina di persone vennero colpite dai frammenti dell’ordigno infernale, tra cui lo stesso autore del lancio, ma non vi fu nessuna vittima.

Portato all’Hôtel-Dieu per essere soccorso con altri feriti, Vaillant confessò di essere l’attentatore e scrisse una dettagliata relazione dei fatti per il giudice istruttore.

Attentato alla Camera

Il processo, tenuto il 10 gennaio del 1894, fu molto rapido.

L’imputato, reo confesso, tenne solo a fare qualche precisazione.

Ho preferito ferire un gran numero di deputati, piuttosto che ucciderne qualcuno […]. Se avessi voluto uccidere, avrei messo dei pallettoni. Ho messo dei chiodi, dunque ho voluto ferire.”

Poi, prima della sentenza:

Signori, tra qualche minuto mi colpirete ma, ricevendo il vostro verdetto, avrò avuto la soddisfazione di aver ferito la società di oggi, questa società maledetta in cui si può vedere un uomo spendere futilmente ciò che potrebbe nutrire migliaia di famiglie, società infame che permette a pochi individui di accaparrarsi di tutta la ricchezza sociale […] Stanco di questa vita di sofferenze e di vigliaccheria, ho portato questa bomba da coloro che sono i primi responsabili delle sofferenze sociali.”

Vaillant venne condannato a morte, primo caso in Francia per qualcuno che non aveva ucciso nessuno.

L’abate e deputato Lemire, ferito alla testa dall’esplosione, che già aveva fatto pervenire una lettera ai giurati tramite l’avvocato dell’accusato per chiedere loro di non essere spietati, raccolse una sessantina di firme dei suoi colleghi per chiedere al Presdente della Repubblica, Sadi Carnot, di concedere la grazia.

La grazia venne rifiutata e, all’alba del 5 febbraio, Vaillant salì sulla ghigliottina.

Prima di morire, ebbe la forza di gridare: “Morte alla società borghese e viva l’Anarchia!

Esecuzione di Vaiilant

L’attentato di Vaillant ebbe conseguenza anche la votazione di tutta una serie di leggi che Émile Pouget, su Le Père Peinard, definì “scellerate”, espressione poi passata alla storia e da tutti adottata per definire quelle misure antianarchiche.

Il primo provvedimento, approvato dopo soli tre giorni dall’esplosione della bomba, restrinse la libertà di stampa, punendo l’apologia.

Il 15 dicembre 1893, venne votata la seconda legge, che colpiva gli anarchici, senza peraltro nominarli, come “associazione di malfattori” e invitava apertamente alla delazione.

Una terza legge, quella più pesante di tutte, venne approvata nel luglio del 1894, e proibiva ogni tipo di propaganda anarchica. Ma, per quel tempo, già altro sangue era stato versato.

A VOLTE RITORNANO

Nella primavera del 1891, una notizia clamorosa era stata comunicata alle polizie di tutto il vecchio continente. Il temibile espropriatore anarchico italiano, Vittorio Pini, era riuscito ad evadere dai lavori forzati.

La notizia, però, non era del tutto esatta, anche se i motivi di allarme per le forse dell’ordine non sarebbero di certo mancati.

Cayenna, aprile 1891. Vittorio Pini, Placide Schouppe ed un altro forzato do origini rumene erano riusciti ad eludere la sorveglianza, si erano impadroniti di una piroga e, con quella, avevano risalito l’estuario di Maroni fino ad arrivare in territorio olandese.

Una volta sbarcati, la storia dell’evasione si fa un po’ confusa in quanto i giornali dell’epoca riportarono versioni abbastanza differenti tra loro, anche se tutte rocambolesche.

In una di queste, il terzetto in fuga era stato attaccato da uno o più giaguari, attacco in cui il rumeno era stato sbranato e Schouppe ferito ad un braccio.

A questo punto la storia si fa ancora più confusa. I due superstiti si sarebbero separati con Schouppe che, ferito, sarebbe a cercare qualcuno che li fornisse degli abiti civili per liberarsi della divisa da forzati e Pini, illeso, ad attendere nascosto tra le piante.

Sempre secondo i giornali, il caso volle che una pattuglia di soldati olandesi a caccia di una banda di falsari, si imbattesse nell’anarchico italiano e che questi, datosi alla fuga, si fosse beccato una pallottola in una gamba e, arrestato, fosse stato riconsegnato alle autorità francesi.

Come fosse riuscito Schouppe a raggiungere l’Inghilterra, rimase per sempre un mistero.

Vi fu chi disse che era riuscito a salire su un’imbarcazione diretta in Messico ma questa aveva fatto naufragio de il belga era stato tratto in salvo da una nave inglese che lo aveva riportato direttamente a Liverpool. Altri dissero che era riuscito a raggiungere Veracruz e, da lì, in qualche modo, l’Inghilterra.

Fatta sta che era stato Schouppe a tornare.

A Londra, Schouppe sapeva di poter contare su alcuni dei vecchi membri della banda degli Intransigenti. Il belga era quindi andato a trovare Alessandro Marocco e il grande amico di Pini, Luigi Parmeggiani, entrambi residenti nella capitale britannica da quando l’ondata di arresti aveva colpito la banda in Francia.

I due lo avevano accolto in modo diverso.

Marocco si era mostrato felice di rivederlo, caloroso e impaziente di rimettersi a fare piani e progetti insieme. Marocco continuava a riciclare refurtiva proveniente dalla Francia e dal Belgio. Una garanzia. Un professionista impeccabile. E un compagno per di più.

Parmeggiani si era mostrato invece più distaccato, ai limiti della freddezza. Non che avesse rinnegato il passato, ma sembrava che avesse armai altro che gli passava nella testa. Continuava sì a scrivere i suoi articoli al vetriolo che inviava alla stampa anarchica individualista, ma stava anche facendo dei passi nel mondo del commercio dell’arte. Aveva cominciato a vestirsi come un vero signore anche se, a dir la verità, l’eleganza l’aveva sempre ricercata. Frequentava nobili, ricchi borghesi, artisti o presunti tali. E faceva discorsi che a lui, Placide Schouppe, risultavano poco comprensibili.


Alla fine, Schouppe aveva preso dei vaghi accordi con il solo Marocco e poi se en era tornato nel suo paese natale, a Bruxelles.

Lì, era andato a trovare il più piccolo dei suoi fratelli, Rémy che, tanto per non smentire la fama della famiglia, negli in cui non si erano visti, si era già guadagnato il soprannome di Revolver.

Dopo quella visita, Schouppe era tornato a Parigi, ospitato in casa di Léon Ortiz detto anche Schikory, dal nome della madre, al numero 65 di rue Lepic. L’appartamento era situato sopra quello di un ispettore della Sûreté, con il quale il belga amava intrattenersi per fare due chiacchere e che mai sospettò di trovarsi di fronte ad un pericoloso ricercato.

Placide Schouppe



Ortiz, nato a Parigi nel 1868, anche se di umili origini, aveva studiato biologia ed economia politica, aveva frequentato i circoli letterari Le Coup de feu e La Butte, dove aveva fatto la conoscenza di Charles Malato. Con questo, aveva collaborato alla stesura del primo numero de La Révolution cosmopolite. Era stato anche uno dei primi del gruppo cosmopolita ad aderire all’anarchismo, cominciando a frequentare Pini, Parmeggiani e gli altri Intransigenti.

Impiegato presso il decoratore Dupuy, nel X arrondissement, si poteva dire che Ortiz, a quei tempi, fosse una specie di fiancheggiatore che offriva riparo ai membri della banda di espropriatori che ne avessero bisogno, senza partecipare direttamente alle loro imprese.

Il ritorno di Schouppe lo coinvolse ad un livello superiore. Il belga aveva un bisogno urgente di soldi. Per la sua sopravvivenza, per riorganizzare il gruppo, per far evadere Pini dalla Cayenna.

Nella notte tra il 13 e il 14 agosto del 1892, i due misero a segno un colpo notevole ad Abbeville, nella Somme, a casa dell’ex magistrato Flandrin, mettendo le mani su 400.000 franchi tra banconote e titoli.

Per ricavare qualcosa dai titoli, i due si rivolsero a Manem, direttore della banca del Sud-Ouest in rue Feydeau, e al suo impiegato e simpatizzante anarchico Joseph Crespin, che misero su un’agenzia per rivenderli in Inghilterra.

Altri due colpi ancora più lucrosi vennero messi a segno nel gennaio del 1893 a Fiquefleur, nella Eure, e a Novent-sur-Vieigent, con la collaborazione di un vecchio membro degli Intransigenti, il milanese Paolo Chiericotti, ed un misterioso personaggio, amico di Ortiz, che si diceva fosse il responsabile della bomba esplosa nel commissariato des Bons Enfants.

Dopo queste imprese, Schouppe e Ortiz si divisero. Il primo tornò dal fratello Rémy a Bruxelles, mentre il secondo cominciò a viaggiare tra Londra, Bruxelles, Perpignan e Barcellona per rinsaldare vecchi legami e stabilire nuovi contatti.

Il 14 marzo del 1893, però, Placide Schouppe venne arrestato in un café in uno dei boulevards della capitale belga. Nello stesso tempo, la polizia entrò in casa di Rémy, alla ricerca di Gustave Mathieu, anarchico francese amico di Simon detto Biscuit e condannato in contumacia nel corso del processo a Ravachol, il quale invece riuscì a fuggire anche se non per molto, visto che venne catturato dalla polizia francese 13 giorni dopo.

In casa di Revolver, gli agenti scoprirono oggetti provenienti da furti avvenuti in Francia e Belgio, chiavi false e barbe posticce.

Il 16 maggio, Placide fu condannato a due anni di carcere per aver disertato durante il servizio di leva, 13 anni prima. Il 22 luglio successivo, gli affibbiarono altri cinque anni per affiliazione ad una associazione di malfattori, furto, documenti falsi e fabbricazione di chiavi false. Il fratello se la cavò con sei mesi, accusato solo di aver ospitato il latitante Mathieu.

A seguito dell’arresto del suo socio, la polizia fece irruzione nell’appartamento di rue Lepic, ma Ortiz si era già nascosto dalla sua compagna Toinette Cazal detta Trognette a Aubervilliers.

Nell’ottobre di quell’anno, Ortiz stabilì nell’edificio situato al numero 1 di boulevard Bruno, nel XIV arrondissement di Parigi, il covo della banda, in cui immagazzinare la refurtiva dei colpi ed alloggiare chi ne aveva temporaneamente bisogno.

E fu proprio lì che la banda venne sgominata definitivamente, il 18 marzo del 1894, quando, in seguito ad una soffiata, la polizia entrò e arrestò Ortiz, Chiericotti e sua moglie Annette Soubrié, Victorine Bellotti e suo figlio Louis, Orsini Bertani e la sua compagna Marie Milanaccio, oltre a rinvenire una quantità ingente di refurtiva in attesa di essere ricettata.

L’UOMO CHE ISPIRÒ ÉMILE ZOLA

L’uomo che, forse, ispirò il personaggio di Souvarine in “Germinal” di Émile Zola, il responsabile della bomba piazzata negli uffici della Compagnia mineraria de espolsa poi al commissariato des Bons-Enfants, il misterioso personaggio che aveva accompagnato Ortiz nei suoi di riappropiazione per la Francia, si chiamava Émile Henry.

Émile Henry era nato nel 1872 in Spagna dove suo padre, comunardo, si era rifugiato. Aveva cominciato a frequentare gli anarchici parigini nel 1891, sulle orme di suo fratello Fortuné, già apprezzato oratore.

L’anno dopo, Émile aveva cominciato a inviare contributi a vari giornali, tra i quali Le Père PeinardLa Révolte e L’Endehors.

Dopo gli attentati di Ravachol, aveva difeso la propaganda con il fatto de era entrato in polemica con l’anarchico italiano Errico Malatesta.

Bisognerà che i futuri Ravachol, prima di impegnare la loro testa nella lotta, presentino i loro progetti per l’accettazione dei Malatesta eretti in tribunale speciale che giudicheranno l’opportunità o l’inopportunità delle azioni?

Émile Henry

Henry era stato sospettato per l’attentato del 8 novembre e lui aveva lasciato Parigi per Londra. La polizia aveva perquisito la sua casa ma, non trovando nulla, aveva lasciato perdere la pista.

Da Londra, Henry aveva viaggiato più volte a Bruxelles e Parigi, accompagnando Ortiz, e si era stabilito nuovamente nella capitale francese nel maggio del 1893.

Nel dicembre di quell’anno, aveva preso in affitto una camera a villa Faucher, in rue des Envierges, nel XX arrondissement, sotto il falso nome di Louis Dubois. Fu lì che Henry si mise a fabbricare un’altra bomba.

Il 12 febbraio del 1894, una settimana esatta dopo l’esecuzione di Auguste Vaillant, Émile Henry entrò nel café Terminus nella stazione di Saint-Lazare ed andò a sedersi ad un tavolo. Ordinò una birra. Il locale si stava riempiendo. Ordinò una seconda birra insieme ad un sigaro. Ad un certo punto, Henry si alzò e si diresse verso l’uscita. Prima di giungere sulla soglia, si voltò, dalla tasca della giacca tirò fuori una piccola marmitta di stagno imbottita di esplosivo, e lanciò l’oggetto in aria, indirizzandolo verso l’orchestra che suonava in fondo alla sala.

L’ordigno urtò un lampadario ed esplose. I vetri andarono in frantumi. Qualche tavolo di marmo si sbriciolò. Il panico fu immediato.

Henry ne approfittò per fuggire ma un giovane cameriere, che lo aveva notato tirare la bomba, gli corse dietro dando l’allarme.

Inizialmente, venne inseguito dal cameriere, un poliziotto e un ferroviere lì presente. Lui sparò alcuni colpi di pistola ferendo l’agente ma con il risultato di aggiungere altre persone all’inseguimento.

Alla fine Henry venne raggiunto e arrestato, non senza aver ferito un altro poliziotto a colpi di pugnale.

La bomba al café Terminus fece una ventina di feriti, di cui uno morì nei giorni successivi a causa delle lesioni riportate.

Attentato al café Terminus

Qualche giorno più tardi di questo fatto, il 20 febbraio, un operaio meccanico di nome Etienne Rabardy si presentò nell’Hôtel La Renaissance al numero 47 di rue Faubourg Saint-Martin e chiese una camera.

Il giorno dopo, l’uomo affittò una camera nell’Hôtel Calabresi al 69 di rue Saint-Jacques.

In entrambe le occasioni, scrisse una lettera annunciando il proprio suicidio e le spedì rispettivamente agli ispettori Dresh e Bélouino che prestavano servizio nei commissariati vicini ai due alberghi.

Il primo ad intervenire fu Bélouino con i suoi uomini nell’Hôtel Calabresi. Uno degli agenti aprì la porta della camera dove si doveva trovare Monsieur Rabardy e una bomba esplose. Lo scoppio investì tutto il corridoio lasciando in terra un morto e tre feriti.

L’ispettore Dresh si recò all’Hôtel La Renaissance sapendo che poteva capitare la stessa cosa. Venne infatti scoperto e disinnescato un ordigno posto sopra la porta della camera suppostamente occupata dal meccanico.

L’ispettore Bélouino era stato decisivo nello scoprire il rifugio di Ravachol a Saint-Denis. Quanto a Dresh, era stato il responsabile dell’arresto di Ravachol a seguito della spiata del cameriere del ristorante Véry.

Attentato all’Hôtel Calabresi

Il sedicente Etienne Rabardy era in realtà l’anarchico belga Amédée Pauwels, già membro del gruppo Les Égaux de Montmartre, amico di Vaillant, Chaumentin, Béala e di Léon Léger, il nome con cui Ravachol girava per le strade di Parigi, colpito da vari ordini di espulsione e ricercato per il fatti del primo maggio a Clichy.

Pauwels, orfano di padre dalla nascita, sordo, affetto da una malattia agli occhi, era arrivato a Parigi per non dover prestare il servizio militare nel suo paese.

Coinvolto nell’affare del primo maggio, era stato aiutato da Paul Reclus. Aveva errato tra Germania, Svizzera, Inghilterra e Spagna, alla disperata ricerca di un lavoro per sopravvivere. Era stato lasciato dalla moglie che non ne condivideva le idee.

La vita di miseria, di sventura, di disperazione che ha vissuto questo sfortunato ha dell’incredibile. Solo l’amicizia di qualche compagno, tra i quali c’ero anch’io, lo sosteneva ancora”, dirà in seguito Paul Reclus.

Rientrando in Francia da Barcellona, Pauwels aveva trovato in terra un portafoglio con dentro i documenti di tal Etienne Rabardy, di professione meccanico, che aveva deciso di utilizzare.

Amédée Pauwels


Il 14 marzo, Pauwels aprì il portone della chiesa de la Madeleine nell’omonima piazza. Nella borsa che portava con sè c’era una bomba che, dovuto forse al brusco movimento, si innescò ed esplose, dilaniando il suo portatore.

Non si seppe mai quali fossero le intenzioni del belga. Quello che si sa è che la polizia trovò nella tasca della giacca di Pauwels una foto del suo amico Ravachol.

Cadavere di Pauwels

Che importano le vittime, se il gesto è bello! Che importa la morte della vaga umanità, se con questa si afferma l’individuo!

Queste le parole a caldo dello scrittore e poeta Laurent Taihlade raccolte da un giornalista che lo aveva avvicinato subito dopo l’attentato alla Camera di Vaillant durante un banchetto di finanziamento in cui si trovava in compagnia di Pol Martinet.

Taihlade era un tipo che aveva fatto della provocazione uno stile di vita. Nemico giurato del conformismo borghese, frequentatore abituale del cabaret Le Chat Noire della bohème artistica di Montmartre, era diventato naturalmente amico degli anarchici più agitati, quali Martinet, appunto, e collaboratore de L’Endehors di Zo d’Axa.

Il 4 aprile del 1894, mentre Taihlade mangiava in compagnia della sua amante Julia Miahle, una bomba, collocata presso la finestra alle sue spalle, esplose ferendolo gravemente.

Tailhade perse un orecchio e dovette restare in ospedale sei settimane.

La stampa borghese, che non si era certo dimenticata delle sue scandalose dichiarazioni, si burlò di lui descrivendolo come uno “spruzzatore annaffiato”.

La replica di Taihlade non si fece attendere e, su Le Journal del 27 aprile, pubblicò un veemente articolo riaffermando tutta la propria simpatia per l’anarchismo e per la propaganda con il fatto.

L’autore di questo attentato non venne mai identificato e, anche se la maggior parte dell’opinione pubblica lo attribuì senza tentennamenti agli anarchici, vennero fatte anche altre ipotesi, dall’auto attentato per farsi pubblicità alla vendetta di un amante tradito di Julia Miahle.

Laurent Tailhade

Il processo ad Émile Henry venne celebrato nella Corte d’Assise della Senna il 27 e 28 aprile.

Henry, lungi dal volersi difendere, dichiarò, al contrario di Vaillant, di aver voluto uccidere e non ferire e che rimpiangeva, anzi, di non aver fatto più vittime.

I buoni borghesi che, senza essere rivestiti di alcuna funzione, ricevono i dividendo delle loro obbligazioni, fannulloni che vivono dei benefici prodotti dal lavoro degli operai, anche loro devono avere la loro parte di rappresaglie. E non solo loro, ma anche tutti coloro che sono soddisfatti dell’ordine esistente, che applaudono gli atti del governo e se ne fanno complici, questi impiegati da 300 e 500 franchi che odiano il popolo ancor più della grande borghesia, questa massa stupida e pretenziosa che è sempre dalla parte del più forte, clientela abituale del Terminus e degli altri grandi cafés. È per questo che ho colpito nella folla senza scegliere le mie vittime.

E poi, poco prima della lettura della sentenza:

Nella guerra da noi dichiarata alla borghesia non chiediamo pietà. Diamo la morte e sappiamo subirla. Per questo attendo con indifferenza il vostro verdetto. So che la mia testa non sarà l’ultima che taglierete. Aggiungerete altri morti alla lista sanguinosa dei nostri morti. Impiccati a Chicago, decapitati in Germania, garrotati a Xerès, fucilati a Barcellona, ghigliottinati a Montbrison e a Parigi, i nostri morti sono numerosi; ma voi non siete riusciti a distruggere l’anarchia. Le sue radici sono profonde. Essa è nata nel seno di una società putrefatta e vicina alla sua fine; essa è una violenta reazione all’ordine stabilito; essa rappresenta le aspirazioni di uguaglianza e libertà che distruggono l’attuale autoritarismo. Essa è dovunque. Questo la rende indomabile, per questo finirà coll’uccidervi.”

Émile Henry venne ghigliottinato il 21 maggio 1894.



ARDEA NELLA PUPILLA, DELLE VENDETTE UMANE LA SCINTILLA

Sante Geronimo Caserio era un giovane anarchico italiano, panettiere di professione. Originario di un piccolo paese della Lomardia, dove era nato nel 1873, aveva lasciato il suolo natio nel 1893 per sfuggire ad una condanna per diffusione di propaganda antimilitarista ed il servizio militare.

Caserio aveva passato tre mesi in Svizzera prima di fare il suo ingresso in Francia. Si era stabilito dapprima a Lione, poi a Vienne, nell’Isère, e finalmente a Sète, nell’Hérault. Aveva continuato a frequentare gli ambienti anarchici e a lavorare come fornaio in ogni città in cui si era fermato. Era abbonato a Le Père Peinard, a La Révolte e a L’Insurgé che si stampava a Lione.

Dai suoi datori di lavoro e dai suoi compagni era considerato un ragazzo buono e mite e, anche se segnalato come militante anarchico dalla prefettura di Hérault, veniva classificato come “non pericoloso”.



Sante Caserio

L’idea gli venne leggendo sul giornale della visita ufficiale a Lione del Presidente della Repubblica Sadi Carnot, che sarebbe venuto ad inaugurare l’Esposizione universale il 28 giugno 1894.

Anche Caserio, come tanti altri, era rimasto impressionato dalle vicende di Ravachol e Vaillant e riteneva il Presidente colpevole di essersi rifiutato di firmare le rispettive domande di grazia.

La mattina del 23 giugno, Caserio andò ad acquistare un pugnale in un’armeria di Sète e, nel pomeriggio, raggiunse Montpellier. Da questa città prese un treno per Vienne e, a piedi, si recò a Lione, dove fece il suo ingresso la sera del 24.

Il 28 giugno, verso le ore 21, il Presidente Carnot lasciò il banchetto indetto a suo onore dalla Camera di commercio di Lione per recarsi ad assistere alla rappresentazione dell’Andromaca al Grand-Théâtre.

Un quarto d’ora dopo, la vettura decappottabile presidenziale imboccò rue de la République e, mentre il Presidente salutava la folla ammassata ai due lati della strada, Caserio riuscì a saltare sul predellino dell’auto e a conficcare il pugnale con la lama di 16 centimetri nel petto di Carnot, gridando “Viva la Rivoluzione!”, e poi “Viva l’Anarchia!”, prima di essere immobilizzato.
Sadi Carnot spirò poche ore dopo.

La mattina successiva, la vedova del Presidente ricevette una carta postale. Conteneva una foto di Ravachol. Sul retro, Caserio aveva scritto tre parole: “Ora è vendicato

 

Attentato a Sadi Carnot

Come conseguenza dell’attentato di Caserio, sull’onda del clamore e dell’indignazione, il 28 luglio, venne approvata la terza delle leggi chiamate “scellerate”, che vietava e puniva esplicitamente ogni forma di propaganda anarchica.

Questo portò alla soppressione di tutte le pubblicazioni periodiche, La Révolte, Le Père PeinardL’Endehors, in testa, ed una caccia all’uomo che portò all’arresto di tutti gli anarchici noti che non avevano avuto l’accortezza di rifugiarsi all’estero.

Solo due giorni prima dell’approvazione della legge, l’anarchico Théodule Meunier, che , arrestato a Londra e accusato degli attentati alla caserma Lobau ed al ristorante Véry, aveva salvato la testa negando tutto ed aveva ottenuto una condanna ai lavori forzati a vita.

La sentenza aveva fatto infuriare l’opinione pubblica che esigeva di più. Si voleva esplicitamente un processo all’anarchismo.

Fu così che si arrivò a quello che venne chiamato “il processo dei 30”, imbastito con tutti gli anarchici che si trovavano a vario titolo in carcere in quel momento e cinque latitanti.

Tra i primi figuravano i componenti della cosidetta banda Ortiz ma anche Sébastien Faure, Jean Grave, Felix Fénéon, Armand Matha. Tra i latitanti, invece, si trovavano Paul Reclus e Émile Pouget, riparati a Londra.

Il processo venne celebrato tra il 6 ed il 12 agosto ma, tranne nel caso di Ortiz e di alcuni dei suoi amici, il pubblico ministero non potè presentare nessuna prova o testimone a carico per dimostrare l’esistenza di una “associazione di malfattori”.

Alla fine, gli unici condannati furono Léon Ortiz, che si beccò 15 anni di lavori forzati, Paul Chiericotti, 8 anni di lavori forzati, e Orsini Bertani, che si prese 6 mesi di carcere per porto d’armi probito.

Tutti gli altri furono assolti ed il grande processo all’anarchismo si risolse solo in un gran fallimento.

Il processo a Sante Caserio si era invece tenuto il 3 agosto e non era durato che dodici ore, mentre la corte aveva deciso in una manciata di minuti. Per la pena di morte, naturalmente.

Il giovane italiano, dal canto suo, non aveva avuto niente da obbiettare.

Beh, se i governi impiegano contro di noi i fucili, le catene, le carceri, cosa dobbiamo fare noi anarchici, che difendiamo la nostra vita, restare chiusi in casa? No. Al contario, rispondiamo al governo con la dinamite, la bomba, lo stiletto, il pugnale. In una parola, dobbiamo fare il possibile per distruggere la borghesia ed i governi. Voi, che siete i rappresentanti della società borghese, se volete la mia testa, prendetevela.

Caserio venne ghigliottinato il 16 agosto, alle 4 e mezza del mattino, davanti ad una grande folla di curiosi.

Prima che la lama calasse, ebbe la forza di gridare: “Coraggio compagni! Viva l’Anarchia!