MORTE AI BORGHESI! Capitolo IV

CAPITOLO IV – FIN DE SIÈCLE

[in memoria di Alexandre Marius Jacob]

 

 

ERA UNA NOTTE BUIA E TEMPESTOSA

Alla fine del 1894, il movimento anarchico sembrava praticamente scomparso dal suolo francese.

Le pubblicazioni di stampo libertario erano andate sparendo mano a mano che aumentava la repressione a seguito dei vari attentati.

L’En-Dehors di Zo d’Axa aveva cessato di esistere nel gennaio del 1893.

L’ultimo numero di Le Père Peinard era uscito il 21 febbraio del 1894, dopo che le forze dell’ordine ne avevano più volte perquisito e devastato la sede al numero 4 bis di rue d’Orsel, nonché l’abitazione di Émile Pouget in rue Véron.

Infine, aveva cessato di esistere nel marzo dello stesso anno anche La Révolte che, il 24 febbraio, aveva visto condannato il suo direttore, Jean Grave, a due anni di carcere per la pubblicazione di un volume che raccoglieva una serie di suoi articoli intitolato “La Società morente e l’Anarchia”.

Zo d’Axa era stato arrestato a Jaffa, in Palestina, all’inizio del 1894 e rimpatriato. Aveva finito di scontare la sua condanna nel carcere parigino di Sainte-Pélagie il 1 luglio di quell’anno. Aveva, perlomeno, approfittato di quel tempo di riposo forzato per scrivere un libro sulle sue (dis)avventure a partire dal suo soggiorno nella prigione di Mazas fino al suo arresto, passando per la sua fuga a Londra e da lì l’Olanda, la Germania, Milano, un decreto di espulsione dall’Italia per aver dato in escandescenze in aula durante un processo ad anarchici locali, l’imbarco a Trieste per sbarcare a Salonicco, e poi Costantinopoli fino alla Palestina – sempre inseguito da un dispaccio diffuso dalla polizia a tutti i consolati francesi sparsi per il mondo in cui si avvertiva che un tipo strano vestito come un cardinale altri potesse essere che “tale Zo d’Axa, tuttora ricercato”.

Il libro, intitolato “Da Mazas a Gerusalemme”, venne molto bene accolto dalla critica dell’epoca.

Anche se libero, Zo d’Axa non veniva certo risparmiato dalle attenzioni poliziesche, che comportavano perquisizioni, pedinamenti, arresti preventivi, come quello di ventiquattr’ore in occasione del funerale del Presidente Sadi Carnot appena assassinato.

Un altro che aveva passato del tempo dietro le sbarre era Armand Matha, a cui Zo d’Axa aveva lasciato, insieme a Felix Fénéon, la gestione de L’En-Dehors.

Matha era figlio di contadini della regione di Lot-et-Garonne, autodidatta, barbiere di professione. Di spirito libero, aveva fatto la conoscenza di alcuni anarchici e quelle idee gli erano naturalmente piaciute.

Amico intimo del conferenziere Sébastien Faure, si era convinto a trasferirsi a Parigi nel 1891, mettendosi ad aiutare Jean Grave nella redazione de La Révolte.

Armand Matha aveva trent’anni ed era assetato più che mai di avventura e conoscenza. Ed in più, aveva scoperto che con quel che riguardava la redazione e la gestione di un giornale ci sapeva fare.

Era anche un personaggio eccentrico, uno che Zo d’Axa non poteva non adorare.

Dopo essere passato ad essere gerente de Le Père Peinard per qualche mese, Matha era finalmente approdato a L’En-Dehors in qualità di gerente dal numero 39 del 31 gennaio del 1892 e in questa veste era stato condannato due volte per istigazione a delinquere.

Amico di Émile Henry, aveva tentato inutilmente di dissuaderlo dai suoi propositi. Dopo il suo arresto, si era recato nell’abitazione in rue des Envierges, insieme ad altri due compagni, e lo aveva ripulito di ogni materiale atto a costruire esplosivi.

All’indomani dell’attentato nel ristorante Foyot, Matha era stato arrestato come presunto autore ma avevano dovuto lasciarlo per la totale mancanza di prove.

Infine, lo avevano trascinato in qualità di imputato nel processo dei 30. così lo presentava un giornalista:

Ecco Armand Matha, l’amico di Émile Henry, con i suoi lunghi capelli e la barba all’egiziana …

Matha era stato assolto e rimesso in libertà verso la fine di agosto.

Nel biennio delle bombe, avevano passato nelle carceri della Repubblica, per diversi periodi e sotto differenti pretesti, più di 400 anarchici. Un numero sconosciuto ma certo ben superiore si era rifugiato nei paesi vicini.

Pochi di loro in Italia e Germania, che in quei tempi avevano già approvato le proprie “leggi scellarate”. Qualcuno era riuscito a rifugiarsi a Barcellona, in Svizzera e in Belgio, posti dove sempre si poteva contare su qualche compagno. La maggior parte di questi “cavalieri erranti” era, però, riuscita a varcare La Manica e ad approdare a Londra.

In breve, nella capitale britannica era stato ricreato un microcosmo anarchico parigino. Là, gli anarchici francesi, ma non solo, venivano lasciati relativamente in pace.

Là viveva Louise Michel già da qualche tempo prima dei fatti di Parigi. Dalla fine del 1890, precisamente.

Louise aveva cominciato a fare propaganda per promuovere lo sciopero generale per il primo maggio fin dal 1890. Durante un giro di conferenze che aveva già toccato Reims e Lione, era intervenuta a Vienne il 29 aprile di quell’anno.

Al termine del suo discorso, era stata immediatamente denunciata per “incitamento diretto, mediante discorsi pronunciati in una pubblica riunione, ad azioni criminali e delittuose”, insieme ad Alexandre Tennevin che l’aveva accompagnata ed altri che erano intervenuti nel corso della riunione.

Incarcerata, le era stata offerta la libertà provvisoria, ma lei si era sdegnosamente rifiutata di godere di alcun beneficio. Il 31 maggio, le avevano comunicato che era libera di andarsene perché il giudice aveva concesso il non luogo a procedere. Ma Louise, quando aveva appreso che i suoi compagni sarebbero andati a processo, si era ribellata e si era rifiutata di uscire, aveva cominciato a dimenarsi e a colpire gli agenti che la volevano obbligare, finendo per distruggere il poco che c’era nella sua cella.

Le autorità avevano fare una diagnosi da un medico che l’aveva dichiarata “affetta da delirio di perscuzione” e ne aveva consigliato l’internamento.

Il caso era esploso a livello nazionale una settimana più tardi e lei aveva fatto un ultimo giro di conferenze per la Francia dal titolo “Appunti di un’irresponsabile”.

Dopo questo tour, Louise si era decisa ad andare a vivere a Londra, dove già si erano rifugiati anarchici da mezza Europa come Kropotkin e Malatesta.

Dopo l’ondata di repressione, era stata raggiunta da personaggi quali Zo d’Axa, Émile Pouget, Pol Martinet, …

Tra questi, il più attivo si dimostrò Émile Pouget.

Il giornale Le Père Peinard conobbe una seconda vita a Londra e lanciò un appello nel suo stile a tutti gli anarchici rimasti in patria:

… Di questi tempi, non è piacevole gridare sui tetti che si è anarchisti.

Non c’è nemmeno bisogno di aprire il becco per andare al gabbio, basta avere una faccia che non piace ad un qualsiasi sbirro!

[…]

Poiché oggi non si può fare propaganda francamente né fare ostentazione di idee in pieno giorno, si tratta di tergiversare, di muoversi con delicatezza, in modo che i banditi di cui sopra non possano trovare nulla di biasimevole.

Un luogo dove c’è uno splendido compito per i compagni è la Camera del lavoro della propria corporazione. Là, non vi possono nemmeno fare il solletico:le Sindacali sono ancora permesse, non sono, a differenza dei gruppi anarchisti, considerati come associazioni di malfattori”.

Le idee di Pouget vennero condivise da un giornalista e sindacalista destinato ad avere una grande influenza sull’ambiente operaio francese, rinforzando notevolmente le, fino a lì, rachitiche associazioni sindacali,un uomo, un lottatore impegnato in una lotta contro la morte fin da giovane, di nome Fernand Pellouttier.

Nato a Parigi nel 1867, figlio di una famiglia di origini piemontesi costretta a fuggire alle persecuzioni religiose perché valdese, nel XVII secolo.

Combattivo come i suoi avi, da ragazzino aveva tentato di fuggire dalla pensione religiosa dove lo avevano lasciato per la sua educazione, finendo comunque alla fine per essere espulso come autore di un breve romanzo anticlericale.

Fernand era stato sempre attratto dalla scrittura. A partire dai sedici anni aveva cominciato a redigere proprie riviste auto stilate e ad inviare articoli anticlericali al giornale La Démocratie de l’Ouest, di cui in seguito fu anche caporedattore per due mesi, nel 1885, e in cui conobbe Aristide Briand, allora socialista e, anni più tardi, più volte ministro nei governi della III Repubblica, che lo aveva convinto a passare da un iniziale repubblecanesimo anticlericale alle idee socialiste.

In quel periodo doveva colpirlo la malattia che gli avrebbe sconvolto la vita. Quello che sembrava un eczema, aveva cominciato ad attaccarlo ai lati del naso e aveva preso poco a poco la forma di una maschera di lupo.

La sua malattia, in particolare, si chiamava Lupus facciale de era originata dalla tubercolosi.

Durante i quasi due anni di riposo forzato, Pellouttier si era messo a leggere – cos’altro poteva fare? – e, tra le altre cose, si era ritrovato a leggere qualcosa di Proudhon e di Bakunin.

Quando aveva potuto tornare alla vita, lo aveva fatto cercando di seguire nuove vie. Aveva continuato a frequentare il suo amico Aristide mentre le loro strade cominciavano a divergere.

Si era trasferito a Parigi con la famiglia all’inizio del 1893 ed era andato a vivere in appartamento di rue Levert, nel XX arrondissement, con suo fratello Maurice e la moglie di lui, Berthe Ridel. La sorella di quest’ultima, Marta, sarebbe diventata la compagna della vita che gli restava da vivere.

Anche se gli attentati di Ravachol e gli altri lo avevano disgustato, all’inizio del suo soggiorno nella capitale, Pellouttier era comunque entrato in contatto con l’ambiente anarchico parigino tramite un suo collega giornalista de aveva fatto la conoscenza di Émile Pouget e di Bernard Lazare.

Fernand era rimasto affascinato dalle idee del fondatore de Le Père Peinard e si era iscritto alla Federazione Nazionale delle borse del lavoro, nucleo delle organizzazioni sindacali dei lavoratori. In breve, ne era diventato un membro così importante da essere eletto delegato per il congresso tenuto a Nantes nel settembre del 1894 dove, con l’amico Aristide Briand, era riuscito a far approvare l’obbiettivo dello sciopero generale.

Ma, con il suo amico, divergeva sul significato di questo termine. Mentre Aristide pensava allo sciopero come mezzo di pressione sulla politica per far approvare leggi di rivendicazione sociale, Fernand lo intendeva come mezzo insurrezionale.

Con l’appello di Pouget dalle pagine di Le Père Peinard londinese e il conseguente ingresso di molti anarchici nelle locali borse del lavoro, le posizioni di Pellouttier nella Federazione nazionale si rafforzarono.

Fernand Pellouttier

Una parte minoritaria del movimento si rifiutò di seguire la strada tracciata da Pouget e Pellouttier.

Se il sempre combattivo Pol Marinet sembrava essere stranamente assente nel suo esilio londinese, così non era per uno dei suoi principali compari, Eugène Renard.

Fortemente in disaccordo con la svolta sindacalista che avevano preso gli anarchici, Renard annunciò stizzito dalle colonne di un giornale quella che aveva il sapore di una scissione:

Se i compagni di Londra tengono così tanto all’appellativo di anarchici, di cui si è troppo abusato, che se lo tengano. Noialtri non abbiamo bisogno di qualifiche, noi siamo unicamente dei libertari,degli individui”.

Una frattura che, comunque, non si consumò mai del tutto, se non a livello individuale.

L’inaspettata amnistia concessa dal governo francese nel febbraio del 1895, concesse una tregua. Quasi tutti gli esiliati tornarono in Francia per iniziare una nuova vita.

LA BOHÈME

Émile Pouget fu il primo a rientrare a Parigi, stabilendosi nel XVIII arrondissement, al numero 15 di rue Lavieuville.

Gli altri lo seguirono e, nel giro di pochissimi mesi, i giornali di stampo libertario tornarono a pubblicare le proprie idee alla luce del sole.

Pouget fondò un nuovo settimanale, chiamandolo La Sociale, i cui locali avevano sede sempre nel XVIII, al 23 di rue Trois-Frères.

Anche Jean Grave era tornato e aveva ripreso possesso dei locali di rue Mouffetard, lanciando il periodico Les Temps Nouveaux.

Martinet iniziò a pubblicare la voce degli individualisti, con l’evocativo titolo di La Renaissance, aiutato dall’inseparabile Eugène Renard e da Georges Deherme. Il buon Pol, però, non immaginava che proprio il suo fedele amico aveva appena cominciato ad essere un confidente della polizia, con il nome in codice di Finot. Un confidente un po’ particolare, a dir la verità e leggando i suoi rapporti, in cui incensava se stesso e denigrava il resto del movimento senza, tra l’altro, dare informazioni di grande rilevanza.

La sorveglianza della polizia era, d’altronde, molto stretta sui tutti gli ex esiliati e non.

Un tempestivo rapporto del febbraio così recitava: “L’anarchia si ricostituisce in Montmarte, dove M. Pouget è andato a piantare la sua bandiera”.

Niente di più logico, se si pensa che Montmartre era anche la culla della bohème.

Non solo i militanti erano stati perseguitati dalla repressione antianarchica del biennio ’92-’94, ma anche tanti altri personaggi che gravitavano attorno a quella galassia di pittori, scrittori, cantanti ed artisti di ogni genere che veniva definita in una parola, la bohème.

Questa era una parola entrata nel linguaggio corrente dopo la pubblicazione, nel 1848, del romanzo di Henry Murger, “Scènes de la via de bohème”, che faceva riferimento alla vita degli artisti nel Quartiere Latino di Parigi e, in particolare, alle mansarde di rue des Canettes.

La bohème si era negli anni spostata in Montmartre, venendo in contatto con l’ambiente anarchico e mischiandosi sovente con esso.

… Ravachol non mi spaventa. È transitorio come il terrore che ispira. È il fulmine al quale succede la gioia del sole e dei cieli tranquilli. Dopo l’oscura tempesta, sorride il sogno d’universale armonia, sognata dall’ammirevole Kropotkin …”, scriveva Octave Mirbeau alla fine del 1892.

Cresciuto, come tanti, in una scuola cattolica, lo scrittore e feroce giornalista anticlericale, appena aveva potuto, era andato a cercare altrove ciò che poteva rispecchiare la sua vera indole, finendo per incontrare Jean Grave e l’ambiente della bohème e diventando anche assiduo collaboratore de L’En-Dehors di Zo d’Axa.

Un altro scrittore e giornalista ad aver avuto un percorso simile era Félix Fénéon, di mestiere impiagato presso il Ministero della Guerra.

Aveva come una doppia vita, Fénéon, quella in ufficio e quella fuori. La seconda era essenzialmente costituita dalla scrittura e dall’arte.

Nel 1884, aveva fondato La Revue Indépendante che, nella sua tormentata vita, ebbe la collaborazione di Verlaine, Huysmans, Mallarmé, e, nello stesso anno, al salone degli artisti indipendenti, aveva ammirato un quadro di Georges Seurat, “Une baignade”. Da allora, si era innamorato della pittura impressionista e neo-impressionista. Due anni, dopo, Fénéon, aveva pubblicato un piccolo saggio di critica d’arte intitolato “Les Impressionistes”, che sarebbe diventato in seguito il manifesto del movimento. Era diventato così amico dello stesso Seurat, di Maximilien Luce, Paul Signac, Camille Pissarro (lo scopritore di Vincent Van Gogh). Tutti insieme evolveranno verso l’anarchismo.

Fénéon aveva poi collaborato, sempre sotto pseudonimo, a diverse riviste letterarie e artistiche d’avanguardia, come La Vogue di Gustave Kahn, scrittore e poeta inventore del verso libero, La Revue wagnérienne e ancora a Symboliste e L’Art moderne di Bruxelles, al famoso Le Chat Noir, per approdare infine a L’En-Dehors diZo d’Axa, in cui era uno dei fautore della tendenza anarchicheggiante e di cui, insieme a Matha, aveva assicurato la vita fino alla chiusura nel febbraio del 1893.

Fénéon aveva allora prestato la sua penna a Le Père Peinard, La Revue anarchiste e La Revue libertaire.

Dopo l’attentato di Henry al café Terminus, era stato a lui che Matha aveva consegnato il materiale recuperato nella sua camera. Fortemente sospettato, aveva subito una prima perquisizione, il 5 aprile, al suo domicilio al numero 78 di rue Lepic, che però non aveva dato esito.

La polizia aveva ripetuto l’operazione venti giorni dopo, setacciando in più anche il suo ufficio presso il Ministero, in cui aveva finalmente scoperto centinaia di lettere di artisti e militanti anarchici ma, soprattutto, sei detonatori e un flacone di mercurio.

Lo scandalo era stato grande, per questo ritrovamento proprio nella sede del Ministero della Guerra.

Fénéon era stato arrestato, licenziato dal suo posto di lavoro e incolpato anche dell’attentato al ristorante Foyot, che era costato l’orecchio al poeta Laurent Tailhade.

Era subito partita una campagna a suo favore a cui avevano partecipato, tra gli altri, Bernard Lazare, Gustave Kahn, Louise Michel, Stéphane Mallarmé, Octave Mirbeau, Henri Rochefort, Séverine.

Fénéon era stato uno degli imputati al processo dei 30. il suo comportamento aveva molto impressionato ilpubblico e la giuria per via della flemma e delle battute fulminanti con cui poteva zittire il procuratore Bulot. Ad esempio, una volta che questi aveva chiesto l’interruzione del processo per potersi lavare le mani, si era sentita la voce calma e profonda di Fénéon echeggiare in aula: “Era dai tempi di Ponzio Pilato che non si vedeva un giudice lavarsi le mani con cotanta ostentazione …”, e, giù, tutti a ridere.

Alla fine era stato assolto.

Félix Fénéon

Quando uscì dal carcere di Mazas, Fénéon fu preso a lavorare da Thadée Natason per fare da segretario di redazione alla sua La Revue Blanche, rivista letteraria de artistica, di cui divenne redattore capo nel 1896.

Fondata a Liegi nel 1889 dai tre fratelli Natason, aveva stabilito la sua redazione a Parigi due anni più tardi.

La rivista, dal momento dell’arrivo di Fénéon prese subito un’altra dimensione e direzione, sia politica che letteraria ed artística.

Su La Revue Blanche cominciarono ad apparire campagne di forte denuncia sul genocidio armeno, contro le campagne militari degli stati europei in Cina, sulla guerra degli inglesi nel sud dell’Africa.

Periodicamente, la stessa rivista pubblicava dei pamphlets di Tolstoj, Thoreau, Nietzsche, Stirner, all’epoca poco o per nulla conosciuti.

Ma Félix era anche un eccellente scopritore di talenti. Mallarmé, Apollinaire e Rimbaud avevano pubblicato grazie a lui.

Era stato lui a far conoscere Seurat, Pissarro, Signac, Matisse e avrebbe contribuito a far conoscere Toulouse-Lautrec, Bonnard e tanti altri.

Tutto era strano in lui, dalla sua lunga testa spigolosa, da yankee da café musicale – fino alla flemma che non si poteva smontare”.

Fénéon continuò, tra l’altro, la sua collaborazione con la stampa anarchica, in particolare con la nuova pubblicazione dell’individualista Pol Martinet, La Renaissance.

La Revue Blanche illustrata da Toulouse-Lautrec

Uno tra gli artisti della bohème destinato ad un, seppur limitato, riconoscimento postumo fu lo scrittore Georges Darien.

Nato a Parigi nel 1862, Georges aveva perso la madre da piccolo. Il padre si era risposato con una fervente cattolica che aveva voluto per lui una rigorosa educazione religiosa.

A 19 anni era stato richiamato per fare il servizio militare ma, dopo poco più di due anni, un consiglio di guerra lo aveva condannato al battaglione disciplinare in Africa per insubordinazione, altrimenti detto, nell’argot dell’epoca, “al Biribi”.

Nei 333 mesi passati nella 5º Compagnia di fucilieri a Gafsa in Tunisia aveva avuto modo di descrivere le bestialità del bagno penale militare. Pubblicato in poche copie nel 1887 dell’editore Savine, il libro “Biribi, la disciplina militare” era andato esaurito quasi subito ma l’editore si era rifiutato di ristamparlo per paura di noie con le autorità.

Solo dopo due anni, si era deciso alla ristampa in seguito al successo editoriale di un romanzo simile, il “Sous-Offs” di Lucien Descaves.

Damien aveva comunque continuato a scrivere e pubblicare con il romanzo satirico “Bas les coeurs!” e quello anticlericale “Les Pharisiens”.

Nonostante il suo “Biribi” fosse stato oggetto di un’accesa polemica in parlamento, i suoi libri continuavano a non essere un affare per il suo editore.

Darien cominciò a collaborare con varie pubblicazioni anarchiche. Come L’En-Dehors, naturalmente, e La Révolte, e fondò la rivista intitolata L’Escarmouche che durò un anno a cavallo tra il 1893 e il 1894, illustrata a tutta pagina da Toulouse-Lautrec, Bonnord, Valloton e Willette.

Non è ben chiaro cosa abbia fatto Darien in questi anni, tra il 1891 e il 1897, oltre alla sua attività di redattore. Si sa che viaggiò in Belgio, Germania e, più frequentemente a Londra, dove frequentò per un tempo l’ambiente degli esiliati politici.

Nel 1897, venne pubblicato il romanzo che lo avrebbe destinato alla gloria, anche se postuma.

Si intitolava “Le Voleur” [il ladro] e, secondo alcune voci mai smentite, faceva in realtà uno squarcio di luce su cosa Darien avesse combinato in quegli anni, anche se il nome del protagonista del romanzo è Randal.

Randal è un ragazzo che perde i genitori e che viene dato in affidamento allo zio, il quale gli ruba l’eredità. Da quel momento, Randal decide di rubare ai ricchi borghesi. Al di là delle azioni e delle avventure del protagonista, la storia è un pretesto per criticare ferocemente la società borghese, la sua morale, le leggi e la religione.

Il romanzo, ripubblicato nel 1955, ossia 34 anni dopo la morte del suo autore, sarebbe diventato un successo editoriale, così come “Bas les coeurs!”.

Georges Darien

NON CI TENGO ALLA VITA

Quello che uscì per le strade di Parigi quella fredda notte d’inverno era un uomo ridotto come un animale ferito, che non ha più niente da perdere, uno che vuole che scorra più sangue possibile prima di arrendersi.

Georges Etiévant era nato a Parigi nel 1865, da padre contabile e madre casalinga. A 18 anni, prima di essere richiamato, si era arruolato volontario nell’esercito ed aveva prestato servizio per cinque anni in un reggimento di zuavi nella provincia di Oran, in Algeria.

Fatto ritorno a Parigi nel 1888, aveva trovato lavoro come tipografo e si era progressivamente avvicinato, anche influenzato dal fratello Henri, all’anarchismo.

Nel 1891, era stato condannato una prima volta a 50 franchi di multa per “essere stato sorpreso, pistola in tasca, mentre affiggeva manifesti anarchici”.

Indicato nei rapporti di polizia come “antimilitarista”, Etiévant aveva fondato il gruppo anarchico “Groupe amical d’études sociales d’Asnières”. Durante una perquisizione ai locali che ospitavano le riunioni del gruppo, però, erano saltate fuori delle cartucce di dinamite provenienti dal lotto rubato nelle miniere di Soisy-sous-Etiollles, utilizzato anche da Ravachol per i suoi attentati.

Etiévant era stato quindi condannato, con altri quattro compagni, nel luglio del 1892, a cinque anni di carcere, scontati nella prigione di Poissy.

Georges Etiévant

Quando Etiévant uscì dal carcere, trovò lavoro presso Le Libertaire di Sébastien Faure. Quello stesso dicembre, fu di nuovo ricercato dalla polizia per “apologia di reato”, a causa di un articolo intitolato “Le Lapin et le Chasseur” [il coniglio e il cacciatore].

Questa volta, Etiévant decise di rendersi irreperibile e il tribunale lo condannò a due anni in contumacia.

Ma lui non aveva lasciato Parigi. Non ne aveva mai avuto nemmeno l’intenzione. Quel che voleva era solo la vendetta.

Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio del 1898, Etiévant uscì dal suo nascondiglio nel XVII arrondissement si diresse verso la stazione di polizia di rue Berzélius. Là, aggredì e ferì con diverse pugnalate il piantone notturno e, poi, un altro poliziotto venuto in soccorso di questo, prima di essere finalmente immobilizzato.

La lunga notte di Etiévant non era, però, ancora finita.

Gli agenti lo avevano sbattuto in una cella dimenticandosi di perquisirlo. Etiévant prese allora il piccolo revolver che teneva nascosto e fece più volte fuoco attraverso le sbarre, ferendo un altro poliziotto.

Al processo, celebrato il 15 giungo del 1898, Etiévant, pur non avendo alla fine ucciso nessuno, venne condannato a norte.

Lui accolse la lettura della sentenza con un’alzata di spalle:

Non ci tengo alla vita, non è fatta, per me, che da miserie.

La pena gli venne poi commutata nei lavori forzati a vita.

La morte non ci mise poi molto a raggiungerlo comunque. Georges Etiévant morì nelle Isole della Salute il 6 febbraio del 1900.

L’attentato di Etiévant

L’AFFAIRE DREYFUS

Nonostante il famoso articolo di Émile Zola, il “J’Accuse”, indirizzato sotto forma di lettera al Presidente della Repubblica, che avrebbe fatto diventare celebre il caso, spaccando la Francia letteralmente in due fazioni contrapposte, fosse del gennaio del 1898, quello che passò alla storia come “l’affaire Dreyfus”, era cominciato ben quattro anni prima, esattamente nell’estate del 1894.

all’origine di tutta la storia, c’era un cestino di rifiuti il cui contenuto era stato recapitato al servizio di controspionaggio francese dall’anziana donna delle pulizie che lavorava presso l’ambasciata tedesca di Parigi. Tra i fogli rinvenuti, c’era una lettera strappata in sei pezzi, scritta a mano, senza data né firma, indirizzata all’addetto militare dell’ambasciata, in cui si proponeva la vendita di alcuni segreti militari di secondaria importanza. Tra questi c’erano le caratteristiche tecniche di un cannone in fase di costruzione, cosa che fece subito pensare che l’autore fosse un artigliere che avesse in qualche modo avuto a che fare con lo Stato Maggiore dell’esercito.

Il Ministro della Guerra di allora, il generale Auguste Mercier, aveva visto in quella lettera l’occasione per tirare su la sua popolarità di fronte ad un’opinione pubblica che lo tacciava da incompetente ed aveva ordinato un’indagine segreta.

Il colpevole ideale era stato ben presto trovato nel capitano d’artiglieria Alfred Dreyfus, ebreo e proveniente dall’Alsazia, la regione passata all’Impero prussiano dopo la guerra del 1870. Il pregiudizio antisemita, molto forte e diffuso nell’esercito francese, aveva certamente avuto un ruolo di primo piano in un’indagine portata avanti in un modo di sicuro frettoloso e grossolano che non aveva fatto emergere alcuna prova o indizio tale da incastrare il capitano. Ma questi era artigliere, aveva frequentato lo Stato Maggiore, era ebreo e, per via delle sue origini, scriveva e parlava correttamente il tedesco. E tanto era bastato.

Dreyfus era stato arrestato nell’ottobre del 1894, in modo da mantenere il segreto sulla faccenda e minacciando la famiglia di non rivelare niente sull’accaduto poiché, in caso contrario, c’era il serio pericolo che si scatenasse una nuova guerra franco-prussiana.

Una parola, una sola parola, e sarà la guerra in Europa”, aveva detto il generale du Paty de Clam, membro dello Stato Maggiore e a capo delle indagini.

Nel primo interrogatorio, avevano tentato di estorcergli una confessione che avrebbe sopperito alla mancanza di prove. Ma Dreyfus si era rifiutato.

Lo avevano allora lasciato solo nella stanza con una pistola appoggiata in bella vista sul tavolo sperando che, secondo il codice d’onore militare, l’avrebbe usata per suicidarsi pur di non vivere l’onta di un’accusa di tradimento.

Ma Dreyfus non l’aveva nemmeno impugnata e aveva dichiarato che si sarebbe difeso fino alla morte per dimostrare la propria innocenza.

L’affare era venuto fuori per la prima volta con la pubblicazione di un articolo del giornale antisemita di destra La Libre Parole, diretto da Éduard Drumont, il 29 do ottobre.

Il 1º novembre, en era venuto a conoscenza il fratello dell’accusato, Mathieu, che era diventato subito il primo sostenitore di Alfred e aveva contattato l’eminente avvocato penalista Edgar Demange.

Nei due mesi che avevano preceduto il Consiglio di Guerra, i giornali di destra come La Libre Parole non avevano perso l’occasione di accusare Dreyfus di ogni sorta di comportamenti indecenti e immorali, con storie inventate che corrispondevano ai loro pregiudizi sugli ebrei.

Il processo era iniziato il 19 dicembre a porte chiuse. Anche se in assenza di prove chiare e di motivazioni, dato che Dreyfus era un fervente patriota e di famiglia molto ricca, du Paty de Clam era piùche mai deciso ad andare fino in fondo.

Il testimone chiave dell’accusa era stato Alphonse Bertillon, l’inventore dell’antropometria giudiziale, che, nonostante non fosse in alcun modo un esperto in grafologia, aveva affermato la tesi della falsificazione della propria scrittura.

Il 22 dicembre, i sette giudici del Consiglio avevano dichiarato Dreyfus colpevole all’unanimità, condannadolo alla degradazione e alla deportazione perpetua.

Il 21 febbraio del 1895, l’ex capitano era stato imbarcato su una nave con destinazione Guyana.

Il fratello Mathieu non aveva però perso la speranza di avere una revisione del processo, nonostante le minacce di arresto per complicità. Alla fine, sia era rivolto al giornalista e critico d’arte, il già più volte citato anarchico Bernard Lazare.

Bernard Lazare si chiamava in realtà Lazare Bernard, nato nel 1865 in una famiglia ebrea borghese di Nîmes, attaccata però ai valori laici e ai diritti dell’uomo della Rivoluzione Francese.

Appassionato di letteratura, Lazare si era iscritto alla Société litteraire et artistique della sua città.

Nel 1886, aveva realizzato il suo sogno, quello di andare a vivere a Parigi. Là, si era invertito nome e cognome e così aveva firmato i vari articoli pubblicati dai giornali ai quali collaborava, come Le JournalLe FigaroL’Écho de ParisLe Nouveau Siècle ed altri. 

Dal 1890, Lazare aveva cominciato a frequentare gli ambienti della bohème entrando così contatto con la galassia anarchica. Aveva quindi iniziato a pubblicare su Le RévoltéL’En-Dehors e su altri fogli libertari. Era diventato fautore dell’”arte sociale” e aveva esortato gli artisti ad abbandonare la bohème per impegnarsi nella lotta rivoluzionaria.

Costretto all’esilio in Belgio, durante la repressione del biennio degli attentati, una volta tornato, aveva pubblicato una propria rivista, L’Action sociale, a cui collaborava anche Pelloutier.

Nel 1894, aveva pubblicato anche il saggio “L’antisémitisme, son histoire et ses causes” [l’antisemitismo, la sua storia e le sue cause].

Estremamente prolisso, aveva tantissime conoscenze sia tra gli anarchici che tra i socialisti antiparlamentari di tutta Europa e godeva di una certa notorietà.

Per questo, Mathieu Dreyfus si era rivolto a lui, oltre naturalmente al fatto che fosse ebreo.

Bernard LAzare

Rimandato più volte per ragioni di opportunità dalla famiglia Dreyfus, Lazare pubblicò “Une erreux judiciaire, la vérité sur l’affaire Dreyfus” nel novembre del 1896 a Bruxelles.

La campagna, in cui cercò di coinvolgere anche gli anarchici, però, inizialmente non ebbe una grande eco, si sviluppò poco a poco.

A metà di novembre del 1897, il dossier arrivò tra le mani dello scrittore Émile Zola, che accettò di scrivere una serie di tre articoli sul caso. Questa serie doveva essere pubblicata su Le Figaro ma, di fronte alla campagna di non rinnovo degli abbonamenti, il giornale decise di non far uscire gli scritti.

J’Accuse” uscì finalmente su L’Aurore, sotto forma di lettera diretta al Presidente della Repubblica Félix Fauve.

Scritto sfruttando il lavoro precedentemente svolto da Lazare, l’articolo mirava essenzialmente a far denunciare il suo estensore per riportare il caso in tribunale.

[…] In più, la persona di Dreyfus mi è indifferente. Come ufficiale, apparteneva a quella casta di individui che ordinerebbero il fuoco contro di me e i miei amici domani, se, domani, la rivolta si affermasse contro l’ipocrita decadenza dell’Autorità. A questo titolo, mi è piuttosto antipatico”.

Con queste parole, Sébastien Faure parlava del suo punto di vista su l’affaire, anche se era stato convinto personalmente da Lazare sull’innocenza del capitano. Faure, però, esprimeva anche un sentimento comune a tutti gli anarchici. Antimilitaristi e anticlericali convinti, i libertari tendevano a non prendere posizione in un caso che, secondo loro, restava una bega che non li poteva riguardare direttamente.

Coloro che si impegnarono nell’affaire, come nel caso di Faure e Émile Pouget, lo fecero per ragioni politiche e non per simpatia per il personaggio implicato. L’avanzata dell’estrema destra francese, nazionalista e antisemita, e il pericolo di un colpo di stato da parte dei militari, furono, per molti, un motivo più che sufficiente per schierarsi dalla parte di Dreyfus.

Nato nel 1858 a Saint-Étienne in una famiglia benestante, Sébastien Faure aveva fatto i suoi studi dai gesuiti e stava facendo il noviziato per diventare prete quando suo padre, gravemente malato, gli aveva chiesto di rinunciare alla vocazione per provvedere al sostentamento della famiglia. Faure aveva, così, trovato impiego presso una compagnia di assicurazioni.

Si era trasferito a Parigi nel 1888, dopo il divorzio da un matrimonio durato tre anni. Nella capitale, aveva trovato lavoro nella Società di viaggi e villeggiature a credito.

Inizialmente socialista e candidato senza fortuna nelle fila del Partito Operaio alle elezioni legislative, Faure venne poco a poco conquistato dalle idee anarchiche, diventando poi un conferenziere professionista.

Gli inizi furono penosi. Sébastien partiva con qualche compagno, senza un soldo in tasca, dormendo dove capitava, talvolta ai bordi di un fossato, al chiaro di luna, su un pagliaio; elemosinando una stalla, un capannone, il retro di un café dove potesse parlare un momento”.

Nel tempo, però, e grazia anche all’aiuto di Armand Matha, era riuscito ad organizzare tournée con grandi successi di pubblico, facendo discorsi anticlericali e spiegando l’anarchismo con parole semplici e comprensibili, discorsi che sarebbero stati molto spesso stampati e pubblicati sotto forma di brochure.

All’epoca degli attentati aveva pubblicato “L’Anarchie en cour d’assise”.

Arrestato e implicato anche lui nel processo dei 30, era stato assolto, come quasi tutti.

Nel 1895, con l’aiuto di Louise Michel e Matha, aveva fondato il settimanale Le Libertaire.

Sébastien Faure

Faure era stato coinvolto nell’affaire Dreyfus da Bernard Lazare, ma era stato solo dopo aver letto il “J’Accuse” che aveva deciso di mettere la sua persona al servizio della causa dreyfusiana.

Faure aveva scritto a Zola il 14 gennaio 1898, sentendo il bisogno “di esprimerle la soddisfazione che mi ha procurato la lettura della sua <<Lettera al Presidente>>. […] Considero che tutti i suoi scritti, è quello che più le fa onore, poiché è quello che provoca più collera”.

Faure organizzò un paio di meeting sull’argomento, attirandosi le critiche di Grave e di Pouget, che insinuarono sulla vera natura del suo anarchismo. Faure rispose con un articolo in cui sfidava i suoi interlocutori “a trovare una sola opinione, una sola parola che sia in disaccordo con le idee che espongo da dieci anni” e poi, in un altro, “[…] oseranno ancora ripetere che <<questi affari>> non ci interessano e che conviene girarci i pollici? Se è questo l’avviso di coloro per i quali tutta la Rivoluzione consiste nel pubblicare dei giornali, che si sotterrino nei loro uffici di redazione. Non saremo noi ad obbligarli ad uscirne, e ancor meno gli ritireremo, se rifiutano, la loro patente di anarchici. Noi deploriamo la loro cecità e la loro indifferenza, ecco tutto”.

Faure cominciò a pubblicare una serie di articoli, poi ripubblicati sotto forma di opuscolo dal titolo “Gli anarchici e l’affaire Dreyfus”, prendendo posizione, da libertario, contro la campagna antisemita, clericale e patriottica, contro la giustizia sommaria, a porte chiuse, ricordando allo stesso tempo i compagni imprigionati e la persona di Dreyfus, che, come già detto, non godeva certo delle sue simpatie.

La polemica tra Faure, da una parte, e Grave e Pouget, dall’altra, sull’affaire ebbe l’effetto di iniziare una campagna a favore della liberazione dei tantissimi anarchici che si trovavano in carcere o, peggio, al bagno penale, esortando gli intellettuali dreyfusardi a partecipare.

E voi, Zola, Scheurer-Kestner, Anatole France, Duclaux, Geffroy, Jaurès, Vaughan, Clemenceau, Leyret, Gohier, Descaves, Mirbeau; voi, Ajalbert, Pierre Bertrand, Gabriel Monod, Ranc, Bernard Lazare, Séverine, voi tutti che sapete scrivere e parlare, non andrete a prendere la penna e alzare la voce a favore dei Nostri?

Sempre a seguito dell’affaire Dreyfus, nel 1898, la Coalizione rivoluzionaria, formata da anarchici e socialisti antiparlamentari, e, nel febbraio dell’anno successivo, il periodico Le Journal du Peuple, organo della Coalizione, redatto da quelli di Le Libertaire, che cessò momentaneamente di esistere, da alcuni collaboratori di Grave a Les Temps Nouveaux, Émile Pouget, alcuni socialisti rivoluzionari e intellettuali simpatizzanti, tra i quali Mirbeau, Pellouttier e Tailhade.

Amareggiato dalle critiche provenienti dall’ambiente anarchico, dalla scomparsa de Le Journal du Peuple, nel dicembre del 1899, Faure prese la decisione di lasciare la direzione di Le Libertaire che, nel frattempo, aveva ripreso le pubblicazioni quella stessa estate, e di continuare da solo la propria battaglia con un altro settimanale, Les Plébéiennes, seguito nel 1901 da Le Quotidien, pubblicato a Lione, lasciando la propaganda prettamente anarchica, indirizzandosi in generale “agli uomini di spirito indipendente” e disinteressandosi progressivamente dell’affaire Dreyfus, che nel frattempo era stato amnistiato e aveva fatto ritorno in Francia.

[…] Sono certo che l’Affaire, parlando propriamente, non sarà mai ripreso. Darà luogo, forse, a dei processi clamorosi […] ma si può dire addio a questa effervescenza che, durante due anni, ha sconvolto questo paese, a queste immense correnti che precipitavano l’opinione pubblica in degli abissi che la portavano verso la cima […]. Dreyfus è libero, è stato reso alla sua famiglia […]. Solo un uomo avrebbe potuto far rivivere l’Affaire e ridargli la sua andatura grandiosa e tragica: Dreyfus stesso. Se, graziato e libero, invece di rifugiarsi nel silenzio e nell’oblio […] Alfred Dreyfus, ingigantito dalla prova, illuminato dai cupi eventi che hanno fatto di lui un simbolo, si fosse alzato selvaggio, implacabile, davanti ai suoi aguzzini, se avesse teso, forzato della vigilia, la mano a coloro che le strette maglie della legge tengono ancora al bagno; se avesse dichiarato una guerra senza tregua al mondo gallonato di cui si è tanto lamentato, se avesse voluto essere uno dei campioni di questo proletariato il cui slancio generoso deve la sua liberazione; se, in una parola, avesse dedicato alle vittime delle iniquità sociali questa esistenza che deve al loro intervento appassionato, Dreyfus avrebbe potuto portare le masse all’assalto delle vecchie bastiglie dove governano la menzogna e la vergogna, e dare, così, all’Affaire il suo seguito logico e fecondo.

Alfred Dreyfus non ha fatto niente. La sua famiglia e i suoi amici sembrano desiderare il silenzio e la pace.

Per noi, è finita.

Per noi, non c’è più un affaire Dreyfus.

Questo non esiste ancora che per i giornalisti e i politici. Che se la sbrighino loro”.

[Sébastien Faure, Les Plébéiennes, maggio 1900]

RITORNO DAGLI INFERI

Lo abbiamo visto partire sulla lancia che dall’Isola del Diavolo lo portava sul piroscafo diretto in Francia. Tutti provavano la più ardente simpatia per lui, mentre io, mi duole confessarlo, partecipavo a quella gioia con profonde riserve. Certo, Dreyfus era vittima di un’oscena cospirazione, ma restava pur sempre il militare di professione che non vedeva al di là dei suoi galloni e della ferrea disciplina, estraneo ad ogni anelito di vita ideale, di aspirazioni più generose e nobili che non fossero quelle dell’onore e del grado militare. La mia solidarietà andava alla vittima delle turpi macchinazioni degli aguzzini in uniforme, alla vittima con tutta probabilità innocente, se due uomini degni come Zola e Jaurès ne avevano preso le difese, ma col capitano, con qualsiasi capitano che ebbro di disciplina e fanatico della gerarchia obbedisce senza discutere anche quando gli ordinano di sparare a mitraglia su un’orda di straccioni insorta per fame, io non potevo aver nulla in comune”.

Quando scriveva queste parole, nel settembre del 1899, Clément Duval era al bagno penale da più di dieci anni, precisamente dal 1887.

In tutto questo tempo, il suo pensiero fisso, come quello di un gran numero di altri forzati, era stato quello della fuga da quell’inferno.

Il bagno penale era stato istituito ufficialmente nel 1854, durante il secondo Impero, con l’obbiettivo di popolare le lontane colonie d’oltremare e, soprattutto, di liberare la Francia da individui considerati irrecuperabili.

Uno degli articoli della legge prevedeva che chi veniva condannato ad una pena inferiore a otto anni di lavori forzati, una volta scontata la pena, avrebbe dovuto risiedere nella colonia un uguale periodo di tempo. Per chi era stato condannato a più di otto anni, il periodo di residenza si estendeva a tutta la vita. Questo sistema era chiamato “douplage” [raddoppio].

La condizione di vita del forzato era quella di una quotidiana lotta per la sopravvivenza. Prima di tutto, a causa dell’ambiente che lo circondava. Il clima tropicale, un caldo implacabile che rendeva difficilissimo qualsiasi sforzo e una giungla impenetrabile popolata da giaguari, insetti e serpenti velenosi.

Poi c’erano i tra 500 e 600 agenti dell’Amministrazione Penitenziaria incaricati di sorvegliare i vari campi di lavoro disseminati per tutta la Guyana. Le esecuzioni sommarie con il pretesto che il detenuto aveva tentato la fuga erano una pratica corrente così come l’impiego di confidenti tra i forzati, i ricatti costanti per estorcere i pochi soldi che avevano i detenuti, i traffici molto redditizi con le merci destinate ai deportati, le punizioni con cella a pane e acqua per qualsiasi sciocchezza, e tante altre pratiche illegali tranquillamente accettate dall’Amministrazione.

La vita di un forzato valeva quindi poco più di nulla.

La cattiva alimentazione e le condizione climatiche portavano ad un gran numero di epidemie. Febbre gialla, tifo, lebbra, malaria, dissenteria e parassiti di ogni genere erano dilaganti.

I condannati alla deportazione chiamavano la Guyana “la ghigliottina a secco”, data l’altissima probabilità di trovarvi la norte.

Il trattamento peggiore, però, era riservato agli anarchici. Questi erano troppo diversi dalla media degli altri detenuti. Solitamente, sapevano leggere e scrivere, erano istruiti e intelligenti, poco docili e vendicativi, evitavano il gioco d’azzardo, l’alcool, i furti. Studiavano il codice penale per difendere i propri diritti, erano solidali tra loro, incutevano rispetto e timore.

Nell’ottobre del 1894, era scoppiata una rivolta, una delle pochissime avvenute nella colonia, condotta dagli anarchici presenti nell’isola di Saint-Joseph.

Il piano, preparato per alcune settimane, prevedeva di impossessarsi delle armi da fuoco dei guardiani e, dopo aver preso in ostaggio gli ufficiali, tentare l’evasione di massa.

Duval e Pini, diventati nel tempo amici per la pelle, avevano tentato invano di farsi trasferire nell’isola per partecipare al tentativo. Non essendoci riuscito, aveva comunque partecipato inviando armi, coltelli soprattutto, con la complicità dei detenuti che portavano i generi di prima necessità a Saint-Joseph.

Ma la rivolta era stata anticipata rispetto a quanto progettato per un episodio accaduto sull’Isola Royale, dove un anarchico di nome François Briens era stato ucciso con un colpo a bruciapelo dopo un alterco con una guardia. Quando la notizia era arrivata a Saint-Joseph, gli anarchici avevano deciso di anticipare l’azione programmata.

Il 21 ottobre, all’ora del contrappello, gli anarchici del 2º padiglione avevano aggredito i due militari di ronda. Uno di questi aveva perso la vita insieme al detenuto Garnier. Simon detto Biscuit e, in Guayana, chiamato anche Ravachol II, si era impadronito delle chiavi ed era andato ad aprire altre celle. Prima che l’allarme venisse diffuso, erano riusciti a scappare otto di loro. Nel giorno successivo, erano tutti stati ritrovati e uccisi sul posto, Simon tra questi.

Il bilancio della rivolta era stato di 4 militari e 19 anarchici uccisi.

Duval e Pini, relegati nell’Isola Royale, avevano più volte tentato la fuga, fallendo sempre. Pini, nonostante il fisico possente, aveva cominciato a cedere alle privazioni ed era caduto gravemente ammalato.

Sarebbe morto pochi anni dopo,nell’ospedale dell’isola, nel giugno del 1903.

Duval ottenne invece la “concessione”, cioè il trasferimento sulla terraferma, nel campo di prigionia di Saint-Laurent de Maroni, nel luglio del 1900. a Maroni, i detenuti godevano di più libertà, potevano costruirsi la propria baracca e coltivare un orto, e, particolare non da poco per Duval, si era vicini con il confine della Guyana olandese.

Aiutato economicamente da un forzato di origini corse, un certo Tomassini che, lavorando presso l’Amministrazione, riuscì a sottrarre un po’ di fondi, Duval si procurò un’imbarcazione sufficientemente grande per affrontare il mare aperto. Durante settimane, lui e i suoi quattro complici, tra cui figurava anche il figlio di sua sorella, Eugène, portarono scorte di cibo sulla barca nascosta nei pressi della spiaggia.

A pochi giorni dalla data fissata per la fuga, Tomassini venne arrestato per gli ammanchi di cui era responsabile.

La notte del 19 aprile, però, invece di quattro, si ritrovarono in nove a voler prendere il largo. Tutti avevano un amico da salvare. Gli otto fuggitivi si videro così costretti a liberarsi di ogni peso superfluo, soprattutto e a malincuore, dei viveri pensati per cinque persone. Ma, ora o mai più. E partirono.

Duval era al suo diciottesimo tentativo di evasione. Praticamente più di uno all’anno da quando era arrivato. Questa volta, però, pensava che sarebbe stata l’ultima. Non aveva più le forze. La malaria che lo aveva colpito due anni prima, gli aveva fatto capire che, se non ce l’avesse fatta questa volta, sarebbe morto lì, al bagno penale, senza rivedere quella libertà che aveva sempre sognato.

Ci volle del tempo per uscire dalle acque territoriali francesi. Sembrava quasi fatta quando una tempesta li fece naufragare sulla costa olandese. Senza quasi più viveri e con la paura di essere scoperti e alle autorità francesi, i nove fuggiaschi tentarono una sortita dopo aver riparato la barca alla bell’e meglio. Non ci fu niente da fare. L’imbarcazione non poteva più sopportare il peso di tutte quelle persone.

Duval, un detenuto che aveva fatto il mozzo, un ex carpentiere e un forzato che, per la febbre, non sarebbe stato in grado di farcela nella giungla, restarono sulla barca.

Zio e nipote non si sarebbe mai più rivisti.

Ci vollero quattro giorni per raggiungere la foce del Corentyne ed approdare nella Guyana britannica. Qui, se non si creavano problemi, non si rischiava di essere riconsegnati ai militari francesi.

I quattro sopravvissuti si divisero. Duval raggiunse Georgetown. Lavorando come fabbro, riuscì a raccogliere i soldi per uscire dalla Guyana. S’imbarcò per l’Isola di Santa Lucia, poi passò in Martinica per arrivare in Venezuela e prendere un bastimento che lo portò infine in Portorico.

Il 16 giugno 1903, Duval salì a bordo di un piroscafo con destinazione New York, dove avrebbe passato il resto dei suoi giorni, aiutato da compagni anarchici francesi e italiani. Venne convinto da Luigi Galleani a scrivere le sue memorie che uscirono prima a puntate sulle pagine del giornale L’Adunata dei Refrattari, poi in un unico volume intitolato “Memorie autobiografiche”.

Duval visse a lungo ospite di Raffaele Schiavina, direttore de L’Adunata dei Refrattari, e morì a Brooklyn il 19 marzo 1935.

I LAVORATORI DELLA NOTTE

Il 31 marzo del 1899, il commissario Jules Pons e tre agenti di polizia entrarono nel locale del Monte di Pietà di Marsiglia. Il commissario accusò il gestore di riciclaggio di un orologio rubato e lo ammanettò mentre i tre agenti inventariarono tutti gli oggetti presenti e li sequestrarono, portandoli nelle carrozze che aspettavano fuori in strada.

Il gestore del Monte di Pietà venne trasferito al tribunale e lasciato ammanettato su una panca in attesa dell’interrogatorio del giudice istruttore.

Fu un usciere che, a fine serata, si accorse dell’uomo ancora seduto dove lo aveva lasciato e che scoprì, dopo alcune domande, che era stato in realtà raggirato da una banda di ladri che lo avevano alleggerito all’incirca di 400.000 franchi di merce.

La notizia, pubblicata il giorno dopo sui principali quotidiani, fece ridere tutta la Francia.

Pochi mesi più tardi, venne arrestato a Tolone e accusato del furto al Monte di Pietà di Marsiglia, tale Alexandre Jacob, nato a Marsiglia il 29 settembre del 1879.

Schedato come anarchico, Alexandre Jacob aveva terminato gli studi elementari e, a undici anni, si era arruolato come mozzo su una nave da trasporto che faceva rotta in Estremo Oriente.

Ho visto il mondo”, dirà in seguito, “e non è bello”.

Pare che durante il viaggio, oltre alla dura disciplina e alle punizioni all’ordine del giorno per ogni minima mancanza, il giovane Alexandre aveva dovuto far fronte anche alle molestie sessuali di un membro dell’equipaggio.

Arrivati a destinazione, il ragazzo aveva così disertato ed era riuscito a tornare a Marsiglia con il successivo piroscafo. Là, lo attendeva una condanna per il suo atto di ribellione che, però, non aveva scontato in ragione della sua giovane età.

Fin dal suo ritorno, Alexandre aveva cominciato a frequentare gli ambienti anarchici della sua città natale. Nel 1897, era stato arrestato preventivamente insieme ad un compagno in vista della visita a Marsiglia del Presidente Félix Faure. Ai due avevano trovato addosso una copia de “L’Indicatore anarchico”, il manuale dell’illegalismo diffuso ai tempi da Pini e Parmeggiani, che gli era stato dato da un provocatore pagato dalla polizia di nome Lecca.

Da quel giorno, Alexandre era stato perseguitato dalla polizia che si presentava in tutti in cui lui trovava un impiego, finrndo sempre per farlo licenziare.

Esasperato da questo trattamento, Jakob aveva dichiarato la sua personale guerra alla società borghese.

Dotato di un’intelligenza acuta e feconda, Alexandre aveva deciso di colpire il nemico nel punto in cui credeva gli avrebbe fatto più male, il denaro. E per questo si era organizzato.

Il furto al Monte di Pietà era stato il primo di una serie di colpi portati a termine nel sud della Francia, ma anche in Spagna e in Italia.

Alexandre Jacob

Arrestato, come detto, qualche mese dopo il suo esordio, Jacob venne condannato a cinque anni di carcere, ma lui simulò così bene la follia che venne trasferito nell’ospedale di Montperrin a Aix-en-Provence da cui riuscì ad evadere il 19 aprile del 1900, con la complicità di un infermiere che ne condivideva le idee.

Si stabilì quindi a Sète, ospite di Ernest Saurel, anarchico amico di Sante Caserio. Là, incominciò ad organizzare nei minimi particolari la sua banda di ladri dei possidenti borghesi, i Lavoratori della Notte.

Jacob mise tutta una serie di regole che ogni persona che ne entrava a far parte era tenuto a seguire. Si attaccavano solo le abitazioni di persone appartenenti alle istituzioni, del clero, dei militari e, in generale, di tutti quelli che vivevano, come nobili, notai, proprietari terrieri, sfruttando il popolo. Il 10% del bottino ricavato doveva essere donato alle famiglie degli anarchici incarcerati o deportati e ai relativi periodici di propaganda. Le armi erano ammesse ma si potevano utilizzare solo per la difesa personale quando c’era pericolo di arresto. Più altre regole di semplice precauzione per la sicurezza personale.

Jakob viaggiò tantissimo in quel periodo. Formò una ragnatela di contatti in tutta la Francia e anche all’estero, specialmente a Bruxelles, Amsterdam e Londra. Gente in grado di falsificare qualsiasi tipo di documento, gente che poteva riciclare titoli di stato e di borsa,gioielli ed altri oggetti di valore.

Sotto la lucida guida di Jakob, dopo essersi trasferiti a Parigi, i Lavoratori della Notte arrivarono a rubare su scala industriale. Si calcola che, nei circa tre anni in cui operarono, tra i furti confessati più tardi dallo stesso Jakob, più o meno 150, e quelli di cui si sospettarono, la banda abbia messo a segno un colpo ogni due, tre giorni.

La modalità di azione era sempre la stessa. Vari membri della banda viaggiavano nelle varie località francesi, ma anche fuori dai confini, si facevano un giro notturno nei quartieri dei ricchi possidenti, annotando nomi e indirizzi. Mettevano alla porta della potenziale vittima un sigillo visibile solo a loro. Se, a distanza di ventiquattr’ore, il sigillo era ancora intatto, il Lavoratore mandava un messaggio in codice via telegrafo a Parigi. Due o tre altri membri della banda prendevano allora il primo treno per quella città, armati di tutti gli strumenti del caso, e effettuavano il colpo.

Jacob, quando era lui a far parte della partita, poiché era la sua guerra personale, si divertiva a lasciare sempre un piccolo biglietto firmato con svariati pseudonimi, tra i quali Attila, Barabba, commentando l’accaduto alla sua vittima, schernendola, facendo trasparire con l’ironia il perché di quanto accaduto.

Poche parole taglienti come pugnali affilati.

A te, Giudice di Pace, noi dichiariamo Guerra. Attila.

Dio dei Ladri, cerca il ladro che ha derubato altri ladri”, e via dicendo.

In quel lasso di tempo, giornali anarchici quali Le Libertaire di Faure, La Guerre Sociale di Gustave Hervé e Germinal della città di Amiens ebbero l’opportunità di aumentare il numero di copie e la periodicità grazie alle donazioni dei Lavoratori della Notte.

Lavoratori della Notte

Certo, l’impresa non era esente da rischi e, non sempre, le cose filavano lisce.

Jacob fu costretto a difendersi a colpi di revolver per evitare l’arresto a Orléans, il 27 febbraio del 1901, mentre il suo amico e complice Royères venne acciuffato.

All’inizio del 1903, fu il turno di Joseph Ferrand e Vaillant a finire in manette a Nevers.

Il 22 aprile di quello stesso anno, Jacob e Léon Pélissard si recarono a Abbeville dove li attendeva Félix Bour. Il tempo era brutto e Jacob debilitato dalla febbre, ma si decisero lo stesso a fare quello per cui erano venuti.

I tre penetrarono in uno degli edifici segnalati da Bour che era rimasto con i sigilli a posto. Fecero però troppo rumore e qualche vicino si svegliò preoccupato. I ladri decisero allora di rinunciare e di andare a prendere il primo treno per Parigi in un paese vicino, Saint.Rémy. Quando finalmente arrivarono alla stazione non era ancora l’alba e c’era da aspettare un po’. Non fecero in tempo a prendere il treno prima di attirare la naturale curiosità di due poliziotti che giravano da quelle parti per via di una segnalazione di un tentato furto nella vicina Abbeville.

Quando fu chiara l’intenzione degli agenti di procedere all’arresto, loro reagirono. Ne nacque una violentissima rissa alla fine della quale Bour e Pélissard riuscirono a sottrarsi alla presa,ma Jakob fu costretto a sparare e uccidere uno dei due e ferendo l’altro per poter fuggire.

Rimasto solo, febbricitante e insonne, Jacob vagò per i campi per qualche ora, finendo per essere fermato dalla polizia. Cercò di sostenere la parte dell’innocuo commerciante di oggetti antichi in giro per affari, che assumeva spesso nei suoi giri in provincia in cerca di obbiettivi. La recita durò qualche ora, fino a che non venne riconosciuto da alcuni testimoni, tra cui l’agente ferito ma alla stazione di Saint-Rémy.

Jocab dovette assistere al triste spettacolo della folla inferocita che si riunì sperando nel linciaggio. Scrisse delle pagine amare, in seguito, ripensando a quei momenti, mentre, dalla piccola finestra della cella dove lo avevano rinchiuso per il riconoscimento,  osservava quelle persone, il cosiddetto popolo, quei volti deformati e curiosi, ascoltava le loro voci, le loro urla, la loro voglia di un capro espiatorio.

In quel momento non ci dovette comunque fare molto caso. Aveva altri piani per la mente, lui.

Grazie alla scorta di uno squadrone di cavalleria, Jakob venne finalmente condotto nel carcere di Amièns, in attesa di giudizio.

L’istruttoria per il processo ai Lavoratori della Notte fu lunga e difficile. Cosa abbastanza insolita per ilsistema giudiziaro francese.

Il fatto è che gli inquirenti restarono esterefatti dalla complessità dell’impresa criminale. Era come un labirinto in cui alcune portavano da nessuna parte e altre portavano a altri labirinti ancora più complessi. A partire dall’identificazione di ogni componente, che sembrava avere decine d’identità, con tanto di documenti.

Il lavoro durò quasi due anni e fu limitato alla banda che faceva le azioni sul campo e qualche fiancheggiatore. Fu stabilito che ne facevano parte almeno una quarantina di persone.

Quelli che caddero nelle mani delle autorità fino alla data del processo furono ventitré. Sempre che tutti fosse vera l’accusa.

Il giudice istruttore Hallé, sconvolto da quello che aveva scoperto, arrivò ad esclamare a pochi giorni dall’inaugurazione del procedimento: “Siamo in piena anarchica!

il processo ai Lavoratori della Notte ebbe inizio l’8 marzo del 1905, in una città militarizzata per paura di un tentativo degli anarchici di liberare i loro compagni. Timore più che fondato, anche se, in realtà, Jacob andò molto vicino a liberarsi da solo.

Alexandre rischiava chiaramente la pena di morte.

Ma il processo non si svolse come era stato previsto. I giudici e il pubblico non si aspettavano l’uomo che avevano di fronte.

Jacob ammise di essere responsabile di 150 furti all’incirca, tutti crimini che riguardavano anche solo persone che comparivano anche loro in giudizio o che, nel frattempo, erano morte, come Royères, nel chiaro tentativo di coprire chi era rimasto in libertà.

Ma lui, non si limitò a questo. Non era un carattere docile. Durante la lunga sfilata dei testimoni dell’accusa, le vittime dei suoi furti, in effetti, Jacob rispose, a seconda delle circostanze, scherzando, canzonando, criticando, accusando, a chi piangeva per la propria intimità violata, a chi invocava la pena più severa possibile, a chi lo chiamava depravato, anarchico o altro.

Contagiò così i suoi compagni di sventura che, nonostante non proprio tutti si professassero anarchici, cominciarono anche loro a rispondere a tono.

Il procedimento ebbe termine il 22 di quello stesso mese.

Jacob ebbe l’occasione di fare un discorso conclusivo, prima della sentenza:

Signori,

Adesso sapete chi sono: un ribelle che vive del ricavato dei suoi furti. Di più. Ho incendiato diversi alberghi e difeso la mia libertà contro l’aggressione degli agenti del potere. Ho messo a nudo tutta la mia esistenza di lotta e la sottometto come un problema alle vostre intelligenze. Non riconoscendo a nessuno il diritto di giudicarmi, non imploro né perdono né indulgenza. Non sollecito ciò che odio e che disprezzo. Siete i più forti, disponete di me come meglio credete. Inviatemi al penitenziario o al patibolo, poco m’importa. Ma prima di separarci, lasciatemi dire un’ultima parola…

Avete chiamato un uomo: ladro e bandito, applicate contro di lui i rigori della legge e vi domandate se poteva essere differentemente. Avete mai visto un ricco farsi rapinatore? Non ne ho mai conosciuti. Io, che non sono né ricco né proprietario, non avevo che queste braccia e un cervello per assicurare la mia conservazione, per cui ho dovuto comportarmi diversamente. La società non mi accordava che tre mezzi di esistenza: il lavoro. la mendicità e il furto. Il lavoro, al contrario di ripugnarmi, mi piace. L’uomo non può fare a meno di lavorare: i suoi muscoli, il suo cervello, possiedono un insieme di energie che deve smaltire. Ciò che mi ripugnava era di sudare sangue e acqua per un salario, cioè di creare ricchezze dalle quali sarei stato sfruttato. In una parola, mi ripugnava di consegnarmi alla prostituzione del lavoro. La mendicità è l’avvilimento, la negazione di ogni dignità. Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. “Il diritto di vivere non si mendica, si prende”.

Il furto è la restituzione, la ripresa di possesso. Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò a cui avevo diritto, ho preferito insorgere e combattere faccia a faccia i miei nemici, facendo la guerra ai ricchi e attaccando i loro beni. Comprendo che avreste preferito che mi fossi sottomesso alle vostre leggi, che operaio docile avessi creato ricchezze in cambio di un salario miserabile, e che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, mi fossi lasciato crepare all’angolo di una strada. In quel caso non mi avreste chiamato “bandito cinico”, ma “onesto operaio”. Adulandomi mi avreste dato la medaglia al lavoro. I preti promettono un paradiso ai loro fedeli, voi siete meno astratti, promettete loro un pezzo di carta.

Vi ringrazio molto di tanta bontà, di tanta gratitudine. Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti che un automa, una cariátide.

Dal momento in cui ebbi possesso della mia coscienza, mi sono dato al furto senza alcuno scrupolo. Non accetto la vostra pretesa morale che impone il rispetto della proprietà come una virtù, quando i peggiori ladri sono i proprietari stessi.

Ritenetevi fortunati che questo pregiudizio ha preso forza nel popolo, in quanto è proprio esso il vostro migliore gendarme. Conoscendo l’impotenza della legge, o per meglio dire, della forza, ne avete fatto il più solido dei vostri protettori. Ma, state accorti, ogni cosa finisce. Tutto ciò che è costruito dalla forza e dall’astuzia, l’astuzia e la forza possono demolirlo.

Il popolo si evolve continuamente. Istruiti in queste verità, coscienti dei loro diritti, tutti i morti di fame, tutti gli sfruttati, in una parola tutte le vostre vittime, si armeranno di un “piede di porco” assalendo le vostre case per riprendere le ricchezze che essi hanno creato e che voi avete rubato. Riflettendo bene, preferiranno correre ogni rischio invece d’ingrassarvi gemendo nella miseria. La prigione… i lavori forzati, il patibolo… non sono prospettive troppo paurose di fronte ad una intera vita di abbrutimento, piena di ogni tipo di sofferenze. Il ragazzo che lotta per un pezzo di pane nelle viscere della terra senza mai vedere brillare il sole, può morire da un momento all’altro, vittima di una esplosione di grisou. Il muratore che lavora sui tetti, può cadere e ridursi in briciole. Il marinaio conosce il giorno della sua partenza ignora quando farà ritorno. Numerosi altri operai contraggono malattie fatali nell’esercizio del loro mestiere, si sfibrano, s’avvelenano, si uccidono nel creare tutto per voi. Fino ai gendarmi, ai poliziotti, alle guardie del corpo, che, per un osso che gettate loro, trovano spesso la morte nella lotta contro i vostri nemici.

Chiusi nel vostro egoismo, restate scettici davanti a questa visione, non è vero? Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, Signori, credetemi. Le pene che infliggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male.

Le misure coercitive non possono che seminare l’odio e la vendetta. È un ciclo fatale. Del resto, fin da quando avete cominciato a tagliare teste, a popolare le prigioni e i penitenziari, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Per quanto mi riguarda sapevo esattamente che la mia condotta non poteva avere altra conclusione che il penitenziario o la ghigliottina, eppure, come vedete, non è questo che mi ha impedito di agire. Se mi sono dato al furto non è per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia libertà, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi l’artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato.

Certo anch’io condanno il fatto che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del furto dell’altrui lavoro. “Ma è proprio per questo che ho fatto guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri”. Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto sarebbe impossibile. Non approvo il furto, e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale.

Per eliminare un effetto, bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto è perché “tutto” appartiene solamente a “qualcuno”. “La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti”.

Anarchico rivoluzionario, ho fatto la mia rivoluzione, l’anarchia verrà!

Tra il pubblico presente, c’era anche il giornalista Maurice Leblanc, inviato dal suo direttore per redigere la cronaca del processo. Ispirandosi alla figura di Jacob, ed

eliminando ogni motivazione politica, creò il personaggio di Arsène Lupin, geniale ladro gentiluomo, protagonista di una fortunata serie di 17 romanzi e 39 racconti.

Alexandre Jacob riuscì ad evitare la ghigliottina in questo processo e anche in quello successivo che dovette affrontare a Orléns per il ferimento di un poliziotto.

Naturalmente, non riuscì ad evitare la “ghigliottina bianca”, i lavori forzati a vita.

Jacob sbarcò nelle Isole della Salute, il 13 gennaio del 1906.

Là, colui che venne registrato come la matricola 34777, si sarebbe guadagnato un nuovo soprannome, quello di Trompe-la-Mort [inganna la morte].