CHAOS TAGEN [1982]

[Tratto da Contrahistoria n·5, autunno 2012]

Choas-Tagen, giorni o giornate del caos, sono raduni che vengono indetti dal 1983 in varie città tedesche in modo relativamente periodico. Accolgono principalmente un buon numero di punks e, abitualmente, anche skinheads, ai quali si sono uniti autonomi, anarchici e alcuni hooligans e ultras autoctoni. Sono nati ad Hannover, capitale della Bassa Sassonia, dove si celebrarono le prime giornate a causa della rivelazione sulla stampa dell’intenzione delle autorità cittadine di creare una specie di dossier punk con nomi e dati delle persone relazionate. A causa della pressione della polizia, le giornate sono state in molte occasioni proibite o spostate in altri punti del paese. La Giornate del Caos sono conosciute per i duri scontri che i suoi partecipanti hanno affrontato contro la polizia e l’estrema destra nel corso degli eventi, specialmente nell’edizione del 1995.

Nel 1979, si celebrava il primo raduno di punks di cui si ha notizia in Germania, nella città di Bochum. Questo movimento controculturale era sbarcato con forza qualche mese prima, nella sua veste più combattiva e rivendicativa, in una Germania praticamente sempre in uno stato post-bellico dalla Seconda Guerra Mondiale, continuando nel suo percorso strettamente legato ai movimenti sociali come quello delle okkupazioni e dell’antifascismo.

Città come Berlino, Amburgo e Hannover saranno icone sotto questo aspetto per generazioni a causa della quantità di persone, gruppi musicali, squats, bar, distributori e locali che hanno vissuto e vivono questi aspetti. Tra il 1980 e il 1981, vennero organizzati raduni in città come Recklinhansen e Duisburg, che divennero periodiche, una volta al mese, e che arrivarono a contare in qualche occasione fino a 500 punks.

Tuttavia, saranno le giornate conosciute come “Wuppertaler Punk-Treffs” (raduni punk a Wuppertal) quelle che vengono considerate le autentiche precursore di quelle del Caos. Le proteste per la presenza di questi da parte di alcuni settori culminarono nella loro persecuzione, e la repressione brutale da parte della polizia in certe occasioni, che obbligherà a trasferire i raduni a Wuppertal, intorno ad una fontana nel centro della città.

Sarà nel 1982 che, dopo che il comune aveva tentato di impedire questi frequenti raduni, scoppieranno violenti disordini che, per un effetto boomerang, finiranno per attrarre nel posto persone provenienti da ogni dove, che comincieranno a riunirsi periodicamente presso la detta fonte tutti i sabati, ripetendo gli scontri in varie occasioni nell’83 ed estendoli contro le abituali visite dei neonazisti nell’84.

Nel novembre del 1982, il giornalista Jürgen Vages, porta alla luce l’esistenza di un “Punker-Kartel” da parte della polizia e delle autorità nella città di Hannover. Si trattava di un dossier ufficiale in cui la polizia pretendeva includere ogni tipo di dati su chiunque fosse legato alla scena punk, indipendentemente dal fatto che avesse dei precedenti o meno. In numerose città tedesche, l’incremento delle okkupazioni e della scena più rivendicativa comincia ad essere considerato come un elemento preoccupante. In concreto, la città di Hannover conta su un buon numero di case e locali okkupati e alternativi frequentati da punks e skins agli inizi degli anni ’80, principalmente nei quartieri di Nordstadt e Linden. Speculatori fanno pressione sul comune per sgomberare le okkupazioni di Hannover dando vita al già menzionato Punk-Kartel come prevenzione per futuri scontri. Poco dopo la scoperta del dossier cominciano a vedersi i primi opuscoli che invitano ad un chaos-tag (giorno del caos, al singolare). L’intenzione è riempire la città di punks, tanto di Hannover come di fuori, con l’intenzione di ingrossare il dossier e farlo così mancare di validità e senso e di trasformare le informazioni della polizia in caos. Nel frattempo, la band americana Dead Kennedys, in pieno tour tedesco, sprona tutti i suoi fans a partecipare, facendo una notevole pubblicità. Così, il 18 dicembre 1982, viene convocato il primo chaos-tag al quale assistono più di 600 persone. L’organizzazione decide di fare una marcia nel centro di Hannover, rapidamente intercettata dalla polizia, e si produce una piccola battaglia in cui i punks non ne escono troppo bene.

Nell’aprile del 1983, si fa un nuovo invito, questa volta per tre giorni, che trasforma il nome in Chaos-Tagen (giornate del caos). Approfittando delle buone relazioni tra skinheads e la scena punk di Hannover si fa un invito sul tema “Punks e Skins uniti contro il governo, la borghesia e i nazi”. Il venerdì 1 giugno, cominciano ufficialmente le giornate e già nel pomeriggio, un 500 punks si radunano nei pressi della stazione centrale di Hannover dove, davanti alle proteste dei commercianti della città, la polizia li trattiene. Questa stessa notte, un concerto che accoglie un migliaio di spettatori, nel centro giovanile di Kornstrasse, è attaccato all’ultimo momento da un numeroso gruppo di neonazisti provenienti da Berlino ed Amburgo, e respinto ampiamente dagli assistenti al concerto. Rifugiatesi i boneheads tra gli schieramenti di polizia che avanzano verso il concerto, si scatenano disturbi e saccheggi che si prolungano fino alla notte. La stampa parla di 5000 punks che hanno preso la città. Sebbene questo dato sia abbastanza esagerato e sensazionalista, è certo che, il giorno dopo, Hannover accoglie la maggior concentrazione di punks mai vista fino ad allora nel paese. Un 1500 punks si radunano nella città. Anche alcuni boneheads si infiltrano tra loro aggredendo alcuni spettatori, il che propizierà, poco a poco, la polarizzazione delle risse, che finiranno in un confronto aperto tra punks e skins e la ritirata di questi ultimi. Per colpa dei fascisti il richiamo all’unità è un fallimento. Finalmente, domenica 3 giugno, i giovani cominciano ad andarsene, e si producono piccoli scontri, ostacolati dall’azione della polizia. L’estrema destra vedrà, in tutte le edizioni delle giornate, un’opportunità propagandistica per legittimare lo scontro con i punks e gli antifascisti che pretendono solo “distruggere le loro città”. Questo stesso anno, il 17 dicembre, un 150 persone celebrano le Weinhnachts-Pogo (Natale-Pogo) nell’anniversario della prima Giornata del Caos, di cui la maggioranza viene arrestata dalla polizia che vuole evitare lo svolgimento dell’evento.

Per la primavera del 1984, si annunciava la chiamata per una nuova edizione, invitando tutti i punks europei ad unirsi all’evento, un appello che arriva anche negli Stati Uniti, questa volta con lo slogan “Giorni del Caos contro la feccia nazi”. Il 3 agosto, la situazione dell’anno prima si ripete, e centinaia di spettatori venuti da tutte le parti sono bloccati nella stazione centrale, dove si svolgono anche i primi scontri con i boneheads. La polizia questa volta è preparata meglio e, nei primi due giorni, realizzerà numerose perquisizioni e arresti arbitrari, sequestrando come “armi” ogni tipo di cinture, giacche di pelle e qualsiasi altra cosa che avesse qualche tipo di punta, chiodi … Il giorno dopo un 2000 persone si riuniscono nei pressi della centrale Operplatz. Questo stesso giorno, una manifestazione antifascista convocata per il pomeriggio, si scontra con un gruppo di 150 neonazisti. Nella notte, un concerto celebrato nel Gloksee, un famoso posto della città, finisce prematuramente dopo che viene dato fuoco ad una macchina all’entrata. All’arrivo della polizia, scoppiano i tumulti che durano per svariate ore, lasciando il luogo dove si svolge il concerto, dove alcuni cercano di rifugiarsi dai manganelli della polizia, completamente distrutto. Vengono effettuati più di 1000 arresti e l’area viene isolata per tutta la notte. La mattina seguente si respira una certa aria di delusione tra gli organizzatori dell’evento che, dopo aver perso il controllo della situazione, sanno che sarà quasi impossibile ripetere un nuovo raduno dopo i disturbi della notte prima. Molti degli appartenenti a questa prima generazione di punks finiranno per passare alla nascente scena hardcore. Per il 1989 si tentò un nuovo raduno di carattere internazionale, ma solo un 150-200 accoliti risposero all’appello. Durante gli anni ottanta, si celebrarono una moltitudine di eventi, in varie città tedesche, alcuni di questi con scarsa o nulla relazione con i veri Chaos-Tagen se non il nome.

Sarà nel 1994 che le giornate torneranno a recuperare la loro importanza. Dopo un nuovo appello, dieci anni dopo l’emblematica giornata del 1984, l’importante fanzine tedesca Streetpunk presenterà un numero speciale con la storia dell’evento che verrà venduto massicciamente, facendogli una grande pubblicità e creando un importante clima di attesa da parte di una scena, alimentata ora da una nuova generazione di punks desiderosi di far casino. Questa volta, un giorno prima dell’inizio, si cominciano a vedere i primi gruppi arrivare alla stazione centrale dove la polizia aspetta visibilmente irritata. Il venerdì continua ad arrivare gente e si organizza una festa spontanea fuori della stessa entrata della stazione che provoca l-intervento della polizia e 175 arresti. I punks non sono ricevuti bene, li si impedisce l-accesso al centro della città, per cui, un mezzo migliaio, sono ricondotti fino all’emblematico, per la scena, quartiere di Nordstadt. Il sabato, il giornale sensazionalistico Neue Press dà notizia di un ipotetico, e inesistente opuscolo, in cui si incoraggia a ridurre Hannover in “detriti e cenere”, al quale il resto dei giornali e della stampa dà credibilità. La città continua ad essere limitata, tranne alcune zone, agli assistenti all’evento e a chiunque abbia un aspetto “sospetto”, per cui i punks si spostano al vicino festival “Fährmannfest”, un festival alternativo all’aperto. L’ambiente è sempre più caldo e le provocazioni della polizia, che non permette di muoversi liberamente per la città praticamente a nessuno, finiscono per far scoppiare la situazione e, dopo una breve battaglia, la polizia irrompe al concerto arrestando circa 400 persone. La stampa gonfia gli avvenimenti del fine settimana facendo di nuovo riferimento al finto opuscolo. I titoli parlano di macchine rovesciate e incendiate, pietre, cassonetti bruciati, devastazioni … e di terrore punk nella città. In realtà, i disordini più grandi durarono appena 20 minuti ma la supposta “festa della violenza”, come alcuni giornali chiamavano l’evento, vendette più copie.

Nel febbraio del 1995, viene alla luce il video Kampf-der-Welten (La Guerra dei Mondi), sulle giornate, che avrà una grande ripercussione. Il video sarà copiato e passato di mano in mano per anni diventando un’icona dei Chaos-Tagen. Anche i mezzi di comunicazione realizzano copie di questo e scene e servizi si succedono su giornali e telegiornali, di fronte ad un nuovo appello, questa volta diffuso per la prima volta attraverso internet. A seguito degli avvenimenti dell’anno prima, si annuncia l’immediato arresto di chi viene da un’altra città o paese, per cui questo anno il motto scelto sarà “Diretti in carcere”.

All’incirca 150 persone erano arrivate in città una settimana prima per evitare gli arresti. La polizia intensifica la sua presenza, aumentando le perquisizioni e i controlli vari giorni prima, mentre i mezzi di comunicazione parlano delle giornate quasi ogni giorno.

Il giovedì 3 agosto, la polizia comincia ad espellere dalla città i primi punks. Viene impedito l’accesso di questi e di chiunque sia a loro vicino in tutto il centro della località e li si permette di stare dalle parti di Schaufelder Strasse, vicino alla famosa okkupazione di Sprengel, nel quartiere di Nordstadt. Ci sono centinaia di perquisizioni e arresti arbitrari per tutta la città, fino a che i giovani non ne possono più e cominciano ad erigere barricate de incendiarle isolando la strada citata e quelle circostanti. Un nutrito gruppo risponde alle provocazioni della polizia con una pioggia di pietre che obbliga le forze dell’ordine a ritirarsi. Il 4 agosto cominciano ufficialmente i Giorni del Caos del 1995 e centinaia di punks cominciano ad arrivare in città, a cui si uniscono numerosi autonomi e anarchici dopo gli accadimenti della notte precedente. Si organizzano gruppi di difesa e si ergono enormi barricate attorno alla zona okkupata, preparandosi per nuovi attacchi della polizia. Il primo attacco si produce contro gli squats di Heisenstrasse, dove si sono riunite numerose persone che cominciano anche loro ad erigere barricate e ad incendiarle. Una nuova pioggia di pietre fa retrocedereun’altra volta la polizia antisommossa che deve battere ritirata. Anche i primi attacchi contro Schaufelder Strasse sono ricevuti pietre alla mano dai rivoltosi, ma a metà pomeriggio un brutale attacco della polizia riesce ad irrompere nel Sprengel arrestando decine di punks che resistono al suo interno. Nella notte, attratti dagli incidenti, cominciano ad arrivare nel luogo della battaglia numerosi giovani dalla stessa città e da quelle vicine, molti dei quali senza nessuna particolare affinità con i partecipanti alle giornate eccetto l’odio per la polizia, oltre ad un buon gruppo di ultras e hooligans di squadre locali, per unirsi alla sommossa. Scritte come ACAB (All Cops Are Bastards) inondano la città. In più, la polizia, nella sua ansia di controllo, si scontra senza motivo con i giovani turchi che si uniscono alla rivolta. Arrivata la notte, le forze dell’ordine si ritrovano a scontrarsi con un esercito di 3000 persone che praticamente li espelle da Nordstadt, mentre un supermercato di una famosa marca viene assaltato ed espropriato per festeggiare. La mattina comincia con relativa calma, con un concerto improvvisato in piena strada del gruppo Total Chaos nella zona okkupata. Nel pomeriggio, la polizia, che è riuscita a riunire tutti i suoi effettivi, tenta di isolare i rivoltosi intorno a Schaufelder Strasse e comincia un nuovo attacco, ma la notte finisce con una nuova sconfitta della polizia che deve ritirarsi una volta di più in simili circostanze del giorno precedente, totalmente impotenti, mentre i disordini con la gioventù di Hannover e turchi si estendono in buona parte della città. Il 6 agosto la tempesta comincia a calmarsi e, eccetto piccole scaramucce, i punks cominciano ad andare via con una prepotente sensazione di vittoria e coscienti di aver partecipato a giornate che si ricorderanno per molti anni. Notiziari e giornali del mondo intero diffondono la notizia e danno copertura agli avvenimenti.

Un paio di settimane dopo verrà proibita una marcia dell’estrema destra per la città con lo slogan “Quando il caos si impadronisce della Germania, i tedeschi hanno bisogno della mano dura”. Nel frattempo, la stampa dà la falsa notizia di un raduno ad Oldenburg per ripetere le giornate e l’isteria porta 1500 poliziotti e giornalisti a presentarsi in città. Naturalmente, lì non arriva nessuno e le forze dell’ordine lo reinterpretano, nonostante l’umiliante realtà, come un successo della loro azione. Poco dopo, il capo della polizia di Hannover dà le dimissioni, e al suo posto viene nominato un nuovo commissario rappresentante dell’ala più dura. In ottobre, farà sgomberare e demolire le case okkupate di Heisenstrasse, dove, secondo la polizia si trova il centro nevralgico e la sede delle giornate e promette la mano dura in futuri interventi.

Dopo il richiamo ad nuovo raduno, nel 1996, viene annunciato il divieto totale delle giornate, che vengono considerate dalle autorità, non come un incontro culturale ma come un’attività politica. Si inasprisce la cosiddetta “legge di polizia”, permettendo non lasciar entrare in una determinata località a qualunque persona sospetta di poter commettere un delitto qualsiasi. A partire dal 26 di luglio viene emanata una legge transitoria, valida per un periodo di undici giorni, in cui si proibisce espressamente qualsiasi attività legata al punk nella città di Hannover, e il potere di fermare e perquisire qualsiasi sospetto.

Il 2 agosto, 6000 poliziotti blindano la città con il permesso di tenerla libera da punks, i quali decidono di trasferire le giornate nella città di Bremen, dove finiranno per provocare vari scontri.

Il capo della polizia si vanta di averla fatta finita con i giorni del caos e proclama, eufemisticamente, per quel fine settimana le “Ordungstagen” (giornate dell’ordine).

Il 18 agosto, vengono proclamate le “Giornate del Caos sustituitive”, nelle quali un 500 partecipanti si scontrano di nuovo in città con la polizia. La stampa titola: “i punks sono tornati”, mentre deridono le dichiarazioni del capo della polizia.

Senza dubbio, a partire degli incidenti del 1995, ogni tentativo di ripetere le giornate è stato duramente represso, proibito e perseguitato dalle autorità, impedendo la sua celebrazione, specialmente quando si provava a farlo ad Hannover.

Nell’anno 2000, un nuovo raduno, che coincide con l’Esposizione Universale in città, è stata di nuovo impedito da un dispiegamento di polizia senza precedenti. Ciò ha portato a trasferire le giornate in altri luoghi.

Nel 2001, si tenta di fare un doppio raduno, a Dortmund e Cottbus, questa seconda nella vecchia RDT. Nel raduno di Dortmund assistono circa 700 punks durante il rpimo fine settimana di agosto, protagonisti di diversi incidenti che hanno terminato con all’incirca 500 arresti. D’altra parte, il raduno di Cottbus è stato proibito fin dal primo momento, con una massiccia presenza della polizia. Varie decine di partecipanti sono riuscite ad avvicinarsi fino ai dintorni mentre alcuni sono riusciti ad arrivare in città, iniziando nuovamente qualche scaramuccia contro il controllo e la repressione sofferta dell’evento, che ha finito con all’incirca 60 persone arrestate. Ad Hannover, lo stesso fine settimana, è stata eretta qualche barricata nel Nordstadt che ha coinciso con un concerto che ha attratto varie persone nel posto. Anche a Brema si sono ripetuti incidenti tra punks e polizia.

Nel 2002, si tenterà un nuovo raduno, questa volta a Monaco, mirato come protesta contro il candidato alla cancelleria, Edmund Stoiber. Una volta di più è stato proibito qualsiasi atto legato all’evento, si sono riportati al loro luoghi di origine i punks che sono arrivati in treno e aereo e si è trasformata Monaco in una fortezza. Di nuovo, il primo fine settimana dell’agosto 2005, si è riusciti a ripetere le giornate di Hannover, città in cui sono venuti tra i 400 e 500 punks. Dopo i primi incidenti, nella zona del centro e intorno all’università, che sono finiti con 90 arresti, la polizia ha sciolto l’evento e i partecipanti sono stati scortati fino ai treni di ritorno alle loro rispettive destinazioni.

Il 3 ottobre 2008, si produrranno nuovi scontri ad Hannover dopo la prima in un atto pubblico del film “Chaos Tage – We are Punks!”, basata sulle giornate. Lo stesso anno sono state indette, tra l’8 e il 10 agosto, le Koas Egunak a Bilbao. Mentre nel 2009 e nel 2010 si è tentato di ripetere le giornate in varie città sempre con lo stesso identico risultato, proibizione e scarsa ripercussione.

Le “Chaostagen” sono state viste come una semplice esaltazione della violenza e della depravazione, specialmente dalla stampa conservatrice e sensazionalista, ma sono state anche una rivolta contro la provocazione della polizia, la repressione e la perdita dei diritti che comporta il fatto di essere punk, o semplicemente di essere giovane, in una società basata sulla paura, piena di leggi e norme di carattere “preventivo”, che ci considera tutti potenzialmente sospetti. Le giornate, dalle sue origini, e soprattutto con i tentativi a partire dal 1996, hanno sempre contato su un programma di attività che includevano dibattiti, concerti, proiezioni e, anche, perché no?, una buona dose di divertimento e sfacciataggine. Si spera di recuperare lo spirito delle Giornate del Caos nel prossimo raduno nel 2013 ad Heidelberg, vicino alla frontiera con la Francia.

TANGO ONE IS DOWN [1994]

Tutti coloro che mettono mano alla spada,

di spada periranno.”

Matteo 26:52

[Necrologio su un giornale di Dublino]

Tango One is down … Tango One is down …”, gracchiava la radio delle auto della polizia, quel pomeriggio del 18 agosto.

Possiamo confermare che Tango One is down. Tutte le auto si rechino sul posto …”

Incrocio tra Oxford Road e Charleston Road …”

Le altre chiamate di emergenza devono essere messe in attesa. Tango One is down e deve avere la priorità.”

Tango One, per la polizia irlandese.

The General, per la stampa e la televisione.

Martin Cahill, per il resto della gente di Dublino.

La Garda (Garda Síochána na hÉireann, il corpo di polizia della Repubblica d’Irlanda) esultava, quel pomeriggio del 18 agosto, per la morte di colui che, ormai da anni, considerava come il nemico numero uno.

Le pattuglie in servizio che precipitosamente accorrevano verso l’incrocio tra Oxford e Charleston Road non lo facevano certo per amore della giustizia.

Tango One, per loro, era la rappresentazione del nemico, l’uomo capace di tutto, il male che si manifesta sotto forme inaspettate. Molto, molto più odiato di chi, in quegli anni, in quei luoghi, agiva attraverso formazioni paramilitari, in un misto di religione, politica e nazionalismo, in una guerra strisciante che sembrava non avere mai fine.

Molti Gardai venivano solo per vedere finalmente il volto di Tango One, il nemico numero uno.

The General, invece, lo chiamavano i mezzi d’informazione.

E questo era dovuto al fatto che i vari giornalisti avevano paura di chiamarlo con il suo vero nome per paura di una denuncia per diffamazione. D’altronde, che potevano fare? Incolpare un figlio del ghetto per ogni misfatto che avveniva a Dublino, con le sue generalità, quando polizia e tribunali sembravano non poterci fare niente.

In più, The General, era stato il personaggio perfetto per loro – fonte inesauribile di notizie da prima pagina, scoops, aneddoti, voci e illazioni di ogni tipo, leggende … Tutte cose che il diretto interessato tendeva anche a diffondere e amplificare.

Sì, perché il nemico numero uno rilasciava tranquillamente interviste, si faceva fotografare, anche se sempre a volto coperto, certo.

Lo presentavano così, come un padrino, un superboss, una vera e propria rock star …

Un vero figlio del popolo, invece, era Martin Cahill per la gente di Dublino.

Nato nella classica famiglia povera e numerosa il 23 maggio 1949, da un padre alcoolizzato e da una madre fervente cattolica, in un distretto periferico a nord della città. Già da piccolo, con il fratello maggiore John, cominciava con piccoli furti in mercati e negozi per contribuire in qualche modo alla precaria situazione economica familiare.

Nel 1960, i Cahill furono costretti a trasferirsi in un piccolo appartamento al numero 210 di Captains Road a Crumlin, da un piano urbanistico che prevedeva la demolizione del quartiere dove Martin aveva visto la luce.

Martin, naturalmente, frequentava una scuola cattolica ma, fuori dal rigido ambiente educativo, continuava con i piccoli furti insieme ai fratelli – oltre al già citato John, Eddie, Anthony, Michael e Paddy. Una vera e propria gang di strada in miniatura.

Martin venne beccato una prima volta, proprio nel ’60, per violazione di domicilio e una seconda sempre per lo stesso reato, cinque anni dopo. In quest’ultima occasione gli venne comminata la sua prima condanna: due anni richiuso in un collegio cattolico di provincia.

Mentre era là, avvenne uno degli avvenimenti più importanti della giovane vita di Martin. La sua famiglia veniva sgomberata dalla Dublin Corporation, proprietaria dell’appartamento dove abitavano, e trasferita d’ufficio nel quartiere di Hollyfield per morosità dell’affitto.

Hollyfield. Più che un quartiere, un ghetto. L’ultima tappa prima della vita in strada, prima dell’inferno vero e proprio. Popolato da chi non ce la faceva più a sostenere il peso di un affitto, appunto, ma anche da debitori di ogni tipo, alcoolisti, giocatori d’azzardo, disoccupati di lunga durata, ecc.

Senza dubbio, il peggior quartiere di Dublino, sotto molti punti di vista, ma anche un posto dove si sviluppava, forzatamente quasi, un fortissimo senso di lealtà verso i parenti e gli amici e, parallelamente, un enorme disprezzo per l’autorità in tutte le sue forme.

Un quartiere-ghetto che doveva accogliere il giovane Martin come un suo figlio naturale, al suo ritorno dal collegio. E Cahill gli sarebbe stato riconoscente fino alla fine dei suoi giorni.

Poco dopo la sua messa in libertà e del suo arrivo a Hollyfield, Martin conobbe Frances Lowless e si sposò.

Lui continuava imperterrito a fare il lavoro di sempre, coadiutavato dai fratelli, ma Frances, vedendolo regolarmente uscire di casa la mattina presto e rientrare la sera alle sette, si illudeva che suo marito avesse un regolare lavoro. Tutto ciò, naturalmente, fino a che non se lo vide, un bel giorno, portare via in manette dalla Garda davanti ai propri occhi.

la scuola riformista è stata la mia scuola elementare, l’istituto St. Patrick il mio liceo, ma il carcere di Montjoy è stato la mia università. Là ho imparato tutto ciò che so”.

Il salto di qualità nella carriera di Martin e i suoi fratelli, che fino a quel momento si erano limitati ai semplici furtarelli con destrezza, si ebbe però nel 1967, quando la gang riuscì a penetrare all’interno di un magazzino di armi confiscate dai Gardai. A quel punto, con un arsenale a disposizione, i Cahill si unirono ad un’altra gang formata da fratelli, quella dei Dunne. Cambiarono gli obbiettivi e, di conseguenza, anche l’entità dei bottini. E si può dire che il nome di Martin Cahill cominciò a farsi strada nel mondo della criminalità organizzata.

Eppure, anche se nel corso degli anni venne più volte accusato dalla polizia e descritto dai mezzi di comunicazione come un padrino in piena regola, Martin avrebbe sempre rifiutato con disprezzo questa definizione che gli si voleva affibiare a tutti i costi.

Non esiste un leader. Non ci può essere un leader con questo tipo di uomini. È gente diversa che sta insieme e che discute le cose. Alcune persone sono meglio in alcuni affari rispetto ad altri.”

Nel 1970, Martin venne nuovamente arrestato e condannato ad una pena di quattro anni per ricettazione.

Mentre lui era dentro, venne trasferito nella caserma della Garda del distretto di Rathmines, di cui Hollyfield faceva parte, l’ispettore Neil Ryan, destinato a diventare in breve uno dei più grandi nemici di Cahill e della sua banda. Ciò che Martin più odiava nel poliziotto, oltre al mestiere in quanto tale, era suo spietato ricorso alla tortura per estorcere confessioni, che in numerosi casi risultavano anche non veritiere.

Pochi mesi dopo il suo rilascio, nel 1974, sospettato di essere uno degli autori della rapina ad un furgone blindato della Securicor, che aveva fruttato un bottino di 93.000 sterline, Martin Cahill si trovò per la prima volta ad affrontare l’ispettore Ryan ed i suoi metodi.

Cahill però era fatto di un’altra pasta. Lui non parlava, lui resisteva. Al proposito, avrebbe anche dichiarato che per lui era una cosa abbastanza facile. Aveva il suo metodo:

Basta scegliere un punto sul muro e osservarlo.”

Ciò, però, non voleva dire che il suo odio nei confronti dei Gardai non aumentasse sempre più …

L’ultima volta che riuscirono a beccarlo ed a rinchiuderlo in una cella fu alla fine degli anni settanta, per un banale furto di auto. Venne condannato a scontare tre anni.

Proprio in quel periodo, la Dublin Corporation decise di demolire il palazzo che lo aveva ospitato fin da adolescente. Per Martin, una vera e propria dichiarazione di guerra.

Cahill cercò in tutti i modi di impedire la cosa, sia dispensando consigli legali a parenti e amici della sua cella, sia facendo il diavolo a quattro tutte le volte che veniva trascinato in tribunale per qualche pendenza. Invano. La costruzione, alla fine, venne buttata giù.

Martin, tuttavia, non si rassegnò affatto davanti al fatto compiuto e, una volta scontata la pena, tornò ad occupare le macerie del luogo in cui aveva abitato, armato di una tenda canadese.

La leggenda narra che fu necessario l’intervento diretto del sindaco di Dublino dell’epoca, Ben Buscoe, per farlo desistere.


Che cosa è il crimine?

La disoccupazione è un crimine. Il salario che pagano ai giovani è un crimine. D’y’understand?”

Verso la fine del 1981, Martin e il suo socio Christy Dutton rapinarono la Quintin Flynn Ltd., un’azienda che vendeva e noleggiava videogiochi. Presero 5.724 sterline, quasi una miseria, e fuggirono in moto.

Pochi giorni dopo, i due vennero fermati in strada dalla Garda. I dipendenti presenti al momento della rapina, tuttavia, non li riconobbero per cui, l’unica speranza per incastrarli in sede processuale, rimase quella delle analisi scientifiche sui loro caschi, guanti e giacche da motociclisti. Dette analisi vennero affidate al capo della scientifica James Donovan, già protagonista delle condanne di due dei fratelli di Martin, Anthony ed Eddie.

In tribunale, però, il clamoroso colpo di scena. Le anlisi scientifiche effettuate sugli oggetti sequestrati a Martin e Dutton, risultarono manipolate da parte dei periti della pubblica accusa in modo tale da far pendere il verdetto dalla parte della colpevolezza. Risultato: assoluzione piena dei due imputati.

A quel giorno risale la celebre foto che ritrae Martin Cahill all’uscita del tribunale che festeggia a modo suo il verdetto sotto lo sguardo divertito dei passanti: un passamontagna a coprirgli il volto, una maglietta con impresso Mickey Mouse (sua grande passione) e mutande.

Ma quella storia non certo finita con quell’improvvisato streaptease.

Il 6 gennaio 1982, l’auto di Donovan saltava in aria mentre questi si stava recando in ufficio. Il capo della polizia scientifica di Dublino ne uscì miracolosamente vivo, anche se ferito gravemente, ma, ormai, era chiaro che, l’acceso confronto tra Cahill e le forze dell’ordine irlandesi aveva inesorabilmente preso la strada del non ritorno.

Eppure, nonostante la stretta sorveglianza a cui era sottoposto, Cahill e i suoi sembravano aver appena incominciato con le loro imprese.

Nell’estate del 1983, portarono a termine la clamorosa rapina alla gioielleria O’Connor’s in Harold Street, rubando oro e preziosi per un valore di 1,5 milioni di sterline, l’equivalente a 2,55 milioni di euro di adesso.

L’operazione fu perfettamente pianificata ed eseguita, con uso di furgoni, walkie talkie e fumogeni. Il clamore, ovviamente, fu enorme, amplificato dal fatta che O’Connor, assicurata per “soli” o,9 milioni di sterline, fu costretta a dichiarare la bancarotta.

Un episodio venne, a quanto pare, a turbare il successo della rapina. Si disse che uno dei partecipanti al colpo avesse deciso di far sparire a suo pro una parte dell’oro trafugato. Secondo quanto poi anche riportato dal suo biografo Paul William, Martin e alcuni dei suoi soci rapirono il presunto colpevole e lo torturarono per farlo confessare. Iniziarono dapprima con schiaffi e pugni, e finirono con crocifiggere l’uomo ad alcune assi di legno. Poichè l’uomo continuava a negare, Cahill avrebbe finito per credergli e lo avrebbe poi accompagnato personalmente all’ospedale.

Questa versione dei fatti, in seguito, venne seccamente smentita dalla figlia maggiore di Martin, nel suo libro sul padre, e, parzialmente, anche dal diretto interessato in una delle tante interviste.

Ho sentito la storia. Posso solo dire che ci potrebbe essere qualche verità in essa, ma io non c’ero in quel momento.”

Nel maggio del 1986, la banda di colui che era considerato ormai il criminale più pericoloso in terra irlandese, portò a termine quello che risultò essere il secondo furto in ordine d’importanza nella storia dell’arte nel mondo.

Un gruppo di ladri, intorno alla mezzanotte, penetrò all’interno della Russborough House, nella contea di Wicklow, riuscendo a trafugare undici dipinti della collezione di Sir Alfred Breit. Volore della merce rubata: oltre 30 milioni di sterline.

Questo colpo rappresentò il culmine della carriera criminale del nostro Martin. A partire da quel giorno, iniziò una lenta ma inesorabile caduta. Una caduta che cominciò con il progressivo arresto, e relativa condanna, dei suoi soci e amici più fedeli.

A questo va aggiunto, anche il fatto di aver mai voluto mai scendere a patti con le potenti e onnipresenti organizzazioni paramilitari presenti in Irlanda, repubblicane o unioniste che fossero.

Si racconta una storia, del tutto verosimile visto il personaggio. Si dice che un portavoce dell’I.R.A., evidentemente colpita dalle cifre dei colpi portati a termine da Martin e i suoi, fosse andato a chiedere una percentuale a mo’ di contributo alla causa. E pare che la risposta di Cahill fosse stata:

Quelli dell’I.R.A. Hanno bisogno di soldi? Che se ne vadano a lavorare …”

Ma, quelli dell’I.R.A., non erano proprio famosi per il loro senso dell’umorismo …

In realtà, nonostante le cifre da capogiro che giravano attorno al suo nome, Martin non aveva cambiato poi molto il suo stile di vita.

Innanzitutto, non si era mosso dal quartiere-ghetto di Hollyfield. Possedeva una modesta casa in Swann Groove, dove viveva con Frances, e un’altra, un poco più confortevole, in Cowper Down, che condivideva con la sua amante, che altri poi non era che la sorella di sua moglie. Situazione, questa, accettata da tutte le parti in gioco, tanto che Cahill, in totale, ebbe cinque figli dalla moglie, e quattro dall’amante.

Continuava a vestire come uno dei tanti pezzenti della zona, con roba brutta sporca e vecchia.

Eppure era felice. Il sorriso sempre sulle labbra, la battuta pronta e tagliente.

Gli unici vezzi, se si esludono gli amori, sembravano essere la Harley Davildson e la Mercedes parcheggiate sotto casa, che nessuno osava rubare perché tutti, ma proprio tutti, nel quartiere, sapevano a chi appartenessero.

Nell’agosto del 1987, alcuni uomini mai identificati riuscirono ad eludere i sistemi di allarme del palazzo della Direzione della Procura e, una volta all’interno, distrussero circa 145 tra cartelle e dossier, tra cui tutto ciò che riguardava Martin Cahill.

Poco dopo questo episodio, il riconosciuto criminale numero uno chiese, e ottenne, con grande sbigottimento dell’opinione pubblica, il sussidio di disoccupazione e di sostegno ai figli, che lui senza dubbio aveva, di 100 sterline alla settimana.


Altro scandalo il 10 febbraio 1988, quando la rete televisiva RTE mandò in onda un documentario a lui interamente dedicato, in cui, dopo pochi minuti, un uomo con la testa coperta da un cappuccio e con il bavero rialzato veniva avvicinato dal giornalista.“Qualsiasi cosa dite che io sia, io non lo sono …”

Per la Garda, la misura era evidentemente colma. Rapine, furti, provocazioni a non finire (tra cui quella famosa in cui Cahill e i suoi si divertirono a scavare una moltitudine di buche supplementari nel campo di golf privato della polizia e dopo telefonarono alla centrale per lamentarsi del terreno di gioco), sussidi, interviste …

La Garda, nel dicembre del 1988, si decise ad istituire una Special Surveillance Unit, con il nome in codice di “Tango Squad”. Una squadra di settanta agenti dedicata al controllo ventiquattr’ore su ventiquattro del loro nemico giurato.

Nome in codice dell’obbiettivo: “Tango One”, naturalmente, con numerazione a crescere per gli altri membri conosciuti della gang.

La sorveglianza non era nemmeno così tanto nascosta. Una o due macchine stazionavano sotto ognuna delle due case di Martin.

Cahill, che poche volte in vita sua si era fatto vedere pubblicamente in faccia, usciva di casa con cappuccio e sciarpa sul viso, o meglio, scendeva in strada un individuo della sua stessa corporatura, di cui a mala pena si distingueva il naso, che portava in giro tre o quattro agenti per le strade ed i vicolo di Dublino …

Ho dovuto fare un po’ più di attenzione a dove vado. Ho continuato ad essere me stesso, mi piace stare da solo. Mi tenevo sempre nelle strade principali. Vedi, io conosco Dublino come il palmo delle mie mani. Li potevo seminare molto velocemente, ma non li volevo perdere di vista. Non volevo fargli vedere le mie scorciatoie.”

d’altronde, ben pochi degli stessi poliziotti incaricati della sua sorveglianza sarebbero stati in grado di riconoscerlo davanti ad una corte …

La Tango Squad, tuttavia, riusciva a fare il vuoto attorno a lui. Beccarono fratelli e parenti, come Eddie e John Fay, il marito della sorella, i soci della prima ora, come “Shavo” Hogan, “The Viper” Foley e Christy Dutton, senza contare quelli coloro che riusciva anche a far “cantare”, come per esempio lo stesso Shavo (che proprio per questo rischierà di perdere le orecchie a seguito di un’agressione in carcere).

Insomma, il cerchio si stringeva.

A riprova di ciò, venne il tentativo di rapina alla National Irish Bank.

Un colpo progettato male, malissimo. Che faceva denotare la carenza di mezzi, immaginazione, destrezza che avevano sempre caratterizzato le clamorose imprese precedenti.

Un piano che includeva il sequestro della famiglia di Jim Lacey, direttore della filiale College Green. Lui, Martin, che le voci del ghetto, narravano essersi sdegnosamente rifiutato di partecipare ad un piano di sequestro dei bambini del cantante della più nota rock band irlandese …

Per una cifra, poi, che risultò essere di sole 250.000 sterline, presenti quel giorno nel caveau della banca.

Colpo abbandonato precipitosamente in corso d’opera quando ormai era chiaro che ciò che avrebbero ottenuto di meglio sarebbe stata la pelle.

Questo avveniva nel 1993.

Quel pomeriggio del 18 agosto del 1994, Martin uscì per andare a restituire la video cassetta del film “Bronx”. Erano circa le tre del pomeriggio.

Con la sua Renault 5, Martin arrivò all’incrocio tra Oxford Road e Charleston Road e si fermò al semaforo. Nessuna macchina dei Gardai sembrava averlo seguito.

All’improvviso, gli si affiancò una motocicletta. Martin ebbe appena il tempo di vedere che l’uomo che stava dietro impugnava una pistola. Il killer esplose due colpi. Il primo lo raggiunse alla testa. Il secondo al collo.

Martin si accasciò sul volante, il piede, per riflesso, schiacciò l’acceleratore e la macchina sbandò fuori strada sulla destra andando a finire la sua corsa contro un palo del telegrafo.

Il killer si avvicinò a piedi, sparò altre tre volte al corpo inerme di Cahill, poi risalì sulla moto, scomparendo per sempre in direzione di Rathmines.

Fu in quel momento che le radio a bordo delle auto della polizia cominciarono a gracchiare: “Tango One is down …”

La cosa peggiore che puoi farmi è uccidermi, e anche così, dopo non mi importerà, continuerò ad essere libero …”


Una delle cose più curiose dell’attentato a Martin Cahill, oltre al provvidenziale buco nella sorveglianza della Tango Squad, fu il fatto che l’atto fu rivendicato, in due distinti comunicati, da due diverse organizzazioni paramilitari cattoliche da anni in guerra tra di loro – l’I.N.L.A. (Irish National Liberation Party), ala militare del I.N.S.P., un partito nato da una scissione dello Sinn Fein nel 1974, e Provisional I.R.A., dissidenti che criticavano l’Official I.R.A. perché troppo socialisti. Una battaglia a colpi di comunicati, fino a che quest’ultima non fornì particolari sull’assassinio incontrovertibili.

Sì, ma perché?

La motivazione insinuata nei comunicati del P.I.R.A. Era che Martin Cahill fosse coinvolto in un grosso traffico di droga i cui proventi andavano a finanziare l’U.V.F., l’ala militare del partito unionista. Tesi ripresa poi nel libro di Paul William, fondata sul fatto che un paio di soci di Martin proprio quello stavano facendo, anche se niente, nella vita del nemico numero uno dell’ordine pubblico irlandese, faceva pensare ad una qualche connessione con il mondo dei trafficanti.

The General” è stato il nome che gli è restato appiccicato addosso, il soprannome con cui forse sarà ricordato nella storia della cronaca nera – immortalato in una pellicola con questo titolo, citato indirettamente in altri film …

Probabilmente, Martin sarebbe andato al cinema il giorno della “prima”, avrebbe cominciato a ridere e poi si sarebbe calmato e ne sarebbe stato anche orgoglioso, alla fine, perchè questo non era nient’altro che un finale degno di una vita vissuta fino all’ultimo.

Continuerò comunque ad essere libero …”

LA VITA È UN INCONTRO TRUCCATO [1918]

Chi vive più di una vita

deve morire più di una morte

Oscar Wilde

La scena è quella di una donna sulla spiaggia che osserva un’imbarcazione a vela che si allontana verso l’orizzonte. Le onde le bagnano i piedi. Lei sospira e, finalmente, alza un braccio per salutare, mentre l’altra mano è appoggiata sul ventre. Le sembra di vedere l’uomo che risponde al saluto, anche se on può esserne sicura. Lei ha saputo da poco di essere incinta. È innamorata e felice. Qualche lacrima le solca il viso. Si rivedranno a Buenos Aires. Così si sono messi d’accordo.

La spiaggia è vicina a Veracruz, in Messico.

La donna si chiama Mina Loy.

L’uomo che se ne sta andando, invece, si chiama Arthur Cravan.

Solo che la scena corrisponde a come lei se la immaginerà dopo perché, in realtà, Mina non era in quella spiaggia. E la spiaggia non è quella.

Mina era già a Buenos Aires, ad aspettare, quando Arthur era salpato con un’imbarcazione di fortuna. Si erano separati perché non c’erano abbastanza soldi per tutti e due per prendere la nave diretta in Argentina.

I due però sono destinati a non vedersi più. La barca che avrebbe dovuto portare Arthur dalla sua Mina si perderà per sempre nelle acque del Golfo del Messico.

Nemmeno Arthur Cravan si chiamava in realtà Arthur Cravan.

Era venuto alla luce nel 1887 con il nome di Fabian Avenarius Lloyd. In Svizzera. A Losanna, precisamente. Anche se la sua famiglia, evidentemente, veniva dalle isole britanniche. Una famiglia un po’ particolare, comunque.

Questa storia è una combinazione di realtà e finzione – come praticamente tutte le storie, d’altronde – solo che in questa, in particolare, è lo stesso protagonista che fa di tutto per confondere le piste, le tracce, che ingrandisce e dimentica e rielabora, che vive alla velocità della vita stessa, per quanto è possibile, che vuole nascere, vivere e morire più e più volte – perché questa vita gli piace ma anche lo disgusta.

Una famiglia particolare, si diceva. Gente che era stata importante, un tempo non lontano. Storie di parenti che lavoravano a stretto contatto con Sua Maestà. Ma di queste cose, il piccolo Fabian, nato in Svizzera, non può e, all’inizio, non vuole sapere niente.

Tanto più che suo padre Otho se n’è andato via di casa con la giovane figlia del direttore della pensione dove soggiornavano a Losanna per andare a viverci in Italia, ancora prima che nascesse.

E anche se il padre è stato prontamente sostituito da uno nuovo, il dottor Henri Grandjean, un buonuomo in fin dei conti, il ragazzo in questione ha dato segni di essere una persona particolare molto presto.

Si dice che, a nove anni, a scuola, sia considerato come una sorta di piccolo fenomeno con il violino. Che, però, venga espulso per qualche imprecisato motivo.

Faccio molta fatica a far entrare le piccole regole nella testa di Fabian (…). In vita mia non ho mai visto una testa così dura”, dice la madre Nellie.

Si dice anche che, nella scuola privata in cui lo hanno iscritto, certi che la maggior disciplina gli avrebbe portato un qualche giovamento al carattere, il piccolo Fabian arrivi a primeggiare nel nuoto e che sia titolare nella squadra di calcio.

Certo è che, oltre che strano de inquieto, questo bambino viene su sano e forte.

Fabian, poi, viene spedito a Londra per terminare i suoi studi. Un periodo che gli sconvolgerà definitivamente l’esistenza. Un periodo passato, si dice, a dormire sotto i ponti del Tamigi. Un periodo che lo vede alla ricerca delle proprie radici e che lo vede fare la conoscenza di suo zio Vyvyan Hollande, il quale gli svela che la sorella di suo padre, Costance, si era sposata nientemeno che con Oscar Wilde.

Così Fabian viene a sapere della nobile parentela.

Terminati gli studi, inizia un periodo di pellegrinazioni che lo portano in California, da amici di famiglia, dove lavora come raccoglitore di arance, in Australia, in Italia, dove si mette a vendere gioielli falsi, per approdare infine a Berlino, dove altri amici di famiglia gli procurano un impiego come chaffeur in uno zuccherificio.

Nella capitale tedesca, la vitalità e l’irruenza di Fabian trovano finalmente il loro sfogo. Quello che è diventato nel frattempo un ragazzone di quasi due metri di altezza e un quintale di peso, scopre i bar e i bordelli, l’alcool e le droghe, i circoli degli artisti e dei rivoluzionari. Passa da eccesso in eccesso, tanto che su lui cominciano a fiorire leggende di ogni tipo, che Fabian stesso alimenta, come quello che lo vedeva camminare di notte con una puttana seduta su ogni spalla. Fa tanto parlare di sé che, alla fine, viene convocato dalla polizia che gli notifica l’ordine di espulsione: “Berlino non è un circo”.

La prima condizione dell’essere artista è saper boxare” (Arthur Cravan)

Il sogno del giovane Fabian è, comunque, di fare lo scrittore o il pittore.

Volevo creare nuove immagini e non copiare servilmente o cambiare leggermente i pensieri brillanti di certi autori”.

L’eredità di un parente gli permette di coronare il suo sogno, nel 1908, quello di trasferirsi a Parigi, la capitale mondiale dell’arte.

Là, Fabian inizia a frequentare gli ambienti di poeti e pittori, dell’Académie Française, presentandosi a tutti come scrittore. Anche se, in realtà, non è soddisfatto di ciò che scrive. Anche se, in realtà, non gli è stato mai pubblicato niente.

E nel giro di poco il sogno di diventare qualcuno nel mondo dell’arte si trasforma in una critica feroce e violenta di quel mondo e di chi lo popola. In definitiva, Fabian diventa un anti-artista, con attitudini e comportamenti che lo fanno diventare un idolo del futuro movimento d’avanguardia dada.

Ah, gli artisti, me ne frego! Tra poco in strada non vedremo che artisti e avremo tutta la difficoltà del mondo per trovare un uomo”.

Nel 1910, Fabian si iscrive alla scuola di boxe di Cuny e conosce Renée Bouchet, ex fidanzata del pittore Hayden, con la quale terrà una relazione lunga sette anni. È quest’ultimo incontro a portarlo a prendere una decisione, forse, covata da tempo. Quella di cambiare nome.

La giovane Renée, tanto invisa alla madre di lui che, nell’occasione del loro unico incontro, non si degna nemmeno di salutarla, è originaria infatti di Cravans, nel Charente-Maritime, nel sud-ovest della Francia.

E Fabian Lloyd, in suo onore, diventa così Arthur Cravan.

L’etimologia del suo nome è, allo stesso tempo, un luogo, un essere vivente e un verbo. “Cravan” significa “anatra di mare” e “oca tuffatrice” e si lega con il verbo “canarder” che ha almeno due accezioni: prendere il volo e scomparire e schivare o abbassare la testa. Cravan fece tutte queste cose: fuggì, mentì, schivò e scomparve”. [Articolo di Catherine Rendon]

Renée va a vivere nell’appartamento di Arthur al numero 67 di rue de Saint-Jacques, nel Quartiere Latino, e, anche se non arrivano mai a sposarsi, lui la presenta e ne scrive come Madame Cravan.

La vita è Maintenant!

Una rivista. È un’idea che Arthur coltiva da diverso tempo. Ciò che gli manca, così come sarà per tutta la sua vita, è il denaro.

Per questo Arthur va a bussare alla porta dei suoi amici-nemici e chiede un contributo.

Nell’aprile del 1912 esce il primo numero di Maintenant che, per 25 centesimi, offre “poesia, documenti inediti su Oscar Wilde e altre cosa”. Come direttore è indicato lo stesso Arthur Cravan, mentre gli autori degli articoli sono W. Cooper, Edouard Archinard, Robert Miradique e Marie Lowitska, tutti pseudonimi dello stesso Cravan. Sempre lui si incarica di distribuirla, andando in giro con un carretto della frutta per i boulevard, l’ippodromo, fuori dei ristoranti e delle esposizioni d’arte.

La rivista è una miscela micidiale di poesia, polemica, bugie, aggressività, umorismo e volgarità. I primi ad essere colpiti sono proprio coloro che lo hanno aiutato finanziando la pubblicazione – Gide, Picabia, Picasso, Chagall (che Cravan chiama “Chacal”), Susane Valacton (“vecchia puttana”), per finire con Apollinaire e sua moglie, Marie Laurencin. Il poeta non prende molto bene le insinuazioni su di lui (“giudeo”) e, soprattutto, le grossolane parole rivolte alla sua consorte (“è una persona a cui bisognerebbe sollevare la gonna e infilare un gran … in un certo posto”) e invia i suoi testimoni per comunicare a Cravan che lo avrebbe sfidato a duello. La risposta arriva sul numero seguente di Maintenant.

Sebbene io non tema la sciabola di Apollinaire, dato che il mio amor proprio è scarsissimo, sono disposto a fare tutte le rettifiche del mondo e a dichiarare che, contrariamente a ciò che potrebbe lasciar intendere il mio precedente articolo, il signor Apollinaire non è ebreo, bensì cattolico romano. Allo scopo di evitare possibili futuri malintesi, desidero aggiungere che il suddetto signore ha una pancia enorme e che il suo aspetto esteriore si avvicina più a quello di un rinoceronte che a quello di una giraffa. […] Desidero rettificare anche una frase che potrebbe dar luogo ad equivoci. Quando dico, parlando di Marie Laurencin, che è una persona a cui bisognerebbe sollevare la gonna e infilare un gran … in un certo posto, in realtà voglio dire che Marie Laurencin è una persona a cui bisognerebbe sollevare la gonna e infilare un gran planetario nel suo teatro di varietà.

Le risse, già abbastanza frequenti, soprattutto quando Cravan è ubriaco, e ubriaco lo è spesso, aumentano a dismisura grazie alla diffusione della polemica pubblicazione. Una sera, fuori da una galleria davanti alla quale sta distribuendo la rivista, Cravan viene aggredito da una decina di pittori inferociti che, però, ne escono piuttosto malconci.

Di Maintenant usciranno cinque numeri, l’ultimo dei quali porta la data dell’aprile 1915.

All’attività di scrittore/direttore/distributore, Arthur si mette in testa di aggiungerne un’altra. Quella di conferenziere. Certo che le sue conferenze sono un po’ particolari e molto portate a creare scandalo.

L’idea gli viene il 27 luglio 1912, quando va ad assistere alla lettura del Manifesto della donna futurista, nella sala Gaveau. Ben presto il pubblico, che ha fischiato fin dall’inizio, invade la scena e si scatena la rissa. Inutile dire che Cravan si butta subito nella mischia per difendere le futuriste.

Venite a vedere il poeta ARTHUR CRAVAN (nipote di Oscar Wilde) – campione di boxe, peso 105 kg, taglia 2 m. – LA CRITICA BRUTALE – PARLERÀ – BOXERÀ – DANZERÀ

Promette, inoltre, che andrà in scena indossando solo un perizoma e che, alla fine dello spettacolo, si suiciderà davanti a tutti.

L’appuntamento è per il 27 novembre 1913, al Cercle de la Biche in rue des Martyrs in Montmartre e Cravan, suicidio a parte, mantiene le promesse. Insulta i modernisti e i cubisti, balla, boxa e invita i suoi amici sul palco a fare altrettanto.

La seconda conferenza, prevista per il 14 marzo 1914, salta perché, durante un pranzo in un ristorante lo stesso giorno, litiga e viene alle mani con il fratello maggiore così violentemente che deve intervenire la polizia.

Riesce a portarne a termine una terza, il 5 luglio, nella sala delle Sociétés Savantes. Una conferenza che ricalcherà le orme della prima, con accesi toni antiarte, boxe e ballo, ma con l’aggiunta di colpi di pistola (a salve) e lancio di oggetti sul pubblico.

Arthur Cravan crede alla vita moderna ardente, brutale. Questo cinico è un ingenuo, un poeta interessante che crede che una “letteratura acuta” può crescere in apparente violazione della letteratura”. {André Salmon in Gil Blas]

E poi, scoppia la guerra.

Che crepi l’Europa, io non ho tempo!”

Di andare nelle trincee, a fare da carne da cannone, inutile girarci intorno, Arthur non ne ha la minima intenzione.

Si procura quindi un passaporto falso, uno dei tanti nel corso della sua vita, e, con Renée, passa in Spagna.

Lo ritroviamo a Barcellona, dunque, dove insegna boxe nel Real Club Maritimo.

Poche settimane dopo che si è aperto a Zurigo quello che diventerà il famoso Cabaret Voltaire, dove i dadaisti daranno luogo a scandalosi spettacoli ispirati anche dalla figura di Cravan, il nostro Arthur vive uno degli episodi più celebri della sua avventurosa vita. La sfida con l’ex campione del mondo dei pesi massimi Jack Johnson.

Nessuno sa come Arthur abbia fatto ad ottenere l’ingaggio, di certo, la sua fama fasulla di campione di Francia lo ha aiutato a mettersi in contatto con le persone giuste.

L’incontro, al meglio delle venti riprese, viene pubblicizzato come un degli eventi dell’anno.

Il 23 aprile 1915, Arthur Cravan sale sul ring posto nella Plaza de Toros Monumental davanti a cinquemila persone. Il match è praticamente una farsa. Il campione comincia a picchiare fin dal primo istante, anche se non ci va giù troppo pesante, il pubblico fischia, Cravan non fa che subire ma regge fino al quinto round, quando finisce al tappeto una prima volta, il pubblico comincia a tirare oggetti, Cravan si rialza, tra le grida e gli insulti, e riesce a terminare la ripresa. Il sesto round è quello del knock out definitivo. Che fa inferocire le persone presenti e che fa gridare allo scandalo la stampa che presiede l’evento.

Ma Arthur se ne frega altamente. Il suo piano è molto semplice: prendi i soldi e scappa.

Scappa dall’Europa e dalla sua guerra insulsa. Lasciando Renée, i due gatti che tengono e poco altro.

Se ne va in America, a New York, precisamente.

Non è il solo a fare questo viaggio. Sulla stessa nave trova il suo amico-nemico Picabia e fa la conoscenza di Leon Trotsky, che lo citerà nella sua autobiografia. Molte altre celebri e meno celebri personalità del mondo artistico e rivoluzionario li hanno preceduti.

Nella Grande Mela, Arthur vive come un randagio. Dorme in Central Park. Durante il giorno vaga per le strade infinite della metropoli. Quasi tutte le sere va a finire nel Greenwich Village, dove vivono anche molti di quegli artisti amici-nemici della scena parigina. Ne conosce altri. Fa amicizia, in particolare, con Arthur Burdett Frost con il quale comincia ad attraversare la parte orientale degli Stati Uniti. Trova un ingaggio come pugile in un circo e continua a viaggiare, guadagnando finalmente qualcosa.

Ogni tanto torna a New York.

Una sera di queste, si reca nello studio del pittore e milionario Walter Arensberg e, là, fa la conoscenza di Mina Loy.

Lui le dice, – Dovresti venire a vivere con me in un taxi, potremmo avere un gatto …

Lei gli risponde, – E un vaso di gerani alla finestra …

Mina Loy, nome d’arte di Mina Gertrude Lowry, pittrice, scultrice, scrittrice e disegnatrice di moda di origini londinesi. Una donna che ha già viaggiato e vissuto molto, divorziata, con due figli, ammirata per le sue poesie da gente come Ezra Pound, T.S. Eliot, e.e. Cummings e William Carlos Williams.

Arthur si innamora subito. Mina ci mette un poco di tempo in più prima di capire quello strano personaggio e di innamorarsi a sua volta.

Molti anni dopo, nel corso di un’intervista rilasciata ad un giornalista, alla domanda:

– Quali sono stati i momenti più belli della sua vita?

Mina risponderà:

– Tutti quelli passati con Arthur Cravan.

– E quelli più infelici?

– Tutti gli altri.

Il 19 aprile 1917, Arthur viene invitato dal suo amico Duchamp a tenere una conferenza alla Grand Central Gallery, in occasione dell’inaugurazione del Salone degli Indipendenti, dove deve esporre, tra gli altri, insieme a Picabia. Il quale, dal canto suo, non è molto convinto.

Cravan si presenta completamente ubriaco. Davanti ad un pubblico composto soprattutto da “signore eleganti, mecenati d’arte, invitati apposta per essere iniziati ai misteri della pittura futurista” (Danielle Buffet Picabia), Cravan inizia a spogliarsi fino a rimanere completamente nudo, abbozza delle finte e dei ganci, inizia a ballare. Il tutto lo fa fissando il quadro di una donna senza vestiti. All’improvviso, Arthur afferra l’opera, la sbatte al suolo e poi la lancia per le scale. La supposta esibizione o conferenza, che dir si voglia, viene interrotta dall’arrivo della polizia.

Arthur viene rilasciato dopo qualche giorno dietro cauzione che viene pagata dall’amico Arensberg.

La guerra arriva infine anche per gli Stati Uniti, anche se forse sarebbe meglio dire il contrario.

Arthur è in possesso di un improbabile passaporto russo ma decide comunque di non rischiare. Non vuole assolutamente andare a morire perché qualcuno glielo ha ordinato, così passa il Rio Grande a nuoto e, con mezzi di fortuna, raggiunge Città del Messico.

Mina è rimasta a New York e ad Arthur sembra di impazzire.

Mi manchi talmente tanto che mi fa paura. E ci rivedremo? Certe volte, ne dubito. È orribile, è orribile”.

Alla fine, nel gennaio del 1918, lei riesce a raggiungerlo e i due vivono insieme nell’hotel Suárez. Si sposano poco dopo, in aprile.

Nonostante che la vita nella capitale messicana sia a buon mercato, non lo è abbastanza per le tasche del povero Arthur che come unica entrata ha i pochi spiccioli che gli vengono dall’insegnare boxe in una scuola situata nella stessa strada del loro hotel. In più, a Mina sembra non piacere il Messico e gli propone di trasferirsi in Argentina, a Buenos Aires.

Cravan decide allora di ritornare sul ring per tirare su i soldi necessari per affrontare il viaggio. Come al suo solito, non si sa come, Arthur riesce ad organizzare due incontri, uno contro il campione del Messico, tale Honorato Castro, l’altro con il famoso Jim “Black Diamond” Smith, tra l’agosto e il settembre del 1918. Naturalmente, va al tappeto in entrambe le occasioni.

Ma non importa, ora Arthur e Mina hanno il denaro sufficiente per recarsi a Vera Cruz dove li attende una nave in procinto di salpare in direzione di Buenos Aires. Non si sa bene cosa succede, ma la coppia rinuncia ad imbarcarsi e, anche se i giornali messicani parlino di una probabile rivincita con “Black Diamond” a Vera Cruz, partono e raggiungono Salina Cruz, dall’altra parte, sulle coste dell’Oceano Pacifico. In quella città, Mina scopre di essere incinta.

Arthur trova una nave ospedale giapponese che fa scalo a Buenos Aires, ma i soldi che gli chiedono non sono sufficienti per tutti e due.

Vorrei stare a Vienna e a Calcutta, prendere tutti i treni e le navi,

fornicare con tutte le donne e mangiare tutto.

Mondano, chimico, puttana, ubriaco, musicista, operaio, pittore, acrobata, attore; Vecchio, bambino, imbroglione, canaglia, angelo e gaudente, milionario, borghese, cactus, giraffa o corvo; Codardo, eroe, nero, scimmia, dongiovanni, ruffiano, signore, contadino, cacciatore, industriale; Flora e fauna; Sono tutte le cose, tutti gli uomini e tutti gli animali!

Cosa fare?

Lasciateci Buenos Aires.

Mina parte così da sola. Giurano di rivedersi a Buenos Aires, non appena lui troverà il modo di raggiungerla.

L’11 novembre 1918 finisce ufficialmente la Grande Guerra.

Mina, quel giorno è a Buenos Aires e, come fa fin da quando è arrivata, si reca alle poste per vedere se ha ricevuto qualcosa da parte di Arthur.

Quando diventa evidente che gli è successo qualcosa, Mina comincia ad indagare. Quel che riesce a scoprire sono molte voci e poche certezze. Del tutto in linea con il personaggio.

La versione più accreditata, o almeno più verosimile, aldilà delle visioni romantiche di lei, è che Arthur a Slina Cruz aveva incontrato tre emigrati argentini desiderosi anch’essi di ritornare al loro paese e li aveva convinti ad affidargli i loro pochi risparmi per comprare un’imbarcazione in grado di portarli a destinazione. Era partito quindi con una bagnarola alla volta di Puerto Angel dove, aveva detto, c’era il fantomatico venditore.

E non era più tornato. Sparito nel nulla. Nelle acque dell’Oceano Pacifico.

Sparito per sempre?

La prima reazione della madre Nellie, venuta a conoscenza dei fatti attraverso Mina, fu quella di ridere. Conosceva suo figlio.

Mina era tornata a Londra e aveva dato alla luce Fabienne, la figlia di Arthur. Scriveva di continuo a Nellie per sapere se suo marito avesse dato qualche notizia di sè.

Per la madre era ovvio che fosse tutta una messa in scena, il modo contorto del suo Fabian di liberarsi della moglie e della figlia in arrivo. E, in fondo, così sperava anche Mina.

Poi, il tempo aveva continuato a passare, indifferente, e Mina si era rassegnata al fatto che Arthur fosse davvero morto. La madre invece no. aveva cominciato a dar credito alle voci che ogni tanto le arrivavano. Come quella proveniente da Parigi, dove qualcuno diceva di averlo visto mentre tentava di vendere lettere originali di Oscar Wilde.

Anche la presunta morte era, nel frattempo, diventata una leggenda dai mille volti. C’era chi lo voleva ucciso in un casinò, chi da un bandito di una banda di pistoleros alla quale si era unito, e così via.

Vivo o morto, comunque sia, sparito nel nulla …

MEGLIO I BARBITURICI [1923]

Di qualcosa si dovrà pur morire, si dice. Ma c’è anche chi, in un determinato momento della sua vita, pensa di scegliere quel qualcosa.

Tanti tra quelli che decidono di porre termine alla propria esistenza, prima o poi, pensano anche al come farlo. La causa autoindotta della propria morte.

Veronal [Treccani,1937]

-Acido dietil-barbiturico, Sedival. Fra i numerosi dall’acido barbiturico esso è il più noto e importante per le sue applicazioni terapeutiche (…).

Farmacologia – Con dosi relativamente piccole [da gr. 0,50 a 1 gr.] s’ottiene nell’uomo l’azione ipnotica dovuta alla diminuita eccitabilità dei centri medioencefalici e a dosi maggiori anche dei centri corticali (…).

Frequentissimi sono oggi gli avvelenamenti da veronal a scopi suicidi. L’esito più comune è la morte che, di solito per una dose di 10 gr., avviene entro le 24 ore preceduta da confusione mentale, diplopia, disartria, allucinazioni e coma.

Ovviamente, ognuno pensa e, di conseguenza, sceglie ciò che più ha quotidianamente sottomano. Questo se l’aspirante suicida ha il tempo di pensare.

Germaine Berton aveva vent’anni quando puntò la pistola contro se stessa. Non sarebbe stata, però, l’ultima volta.

Nata nel 1902 a Puteax, una piccola cittadina vicino Nanterre, probabilmente, la svolta nella vita di Germaine si era prodotta con la morte dell’adorato padre, quando non aveva che sedici anni. Arsène Berton di mestiere faceva il meccanico e aveva introdotto la figlia alle idee socialsite.

Germaine, che già lavorava come operaia nella fabbrica Rimailho di Saint-Pierre-des-Corps, era iscritta al sindacato e partecipava attivamente alle lotte dei lavoratori.

Rimasta sola con la madre, una fervente cattolica, Germaine aveva cominciato a diventare sempre più inquieta fino a che non aveva deciso di trasferirsi a Parigi.

Nella capitale aveva conosciuto gente molto più interessante ed originale, molto vicina a quello che sentiva dentro di sè e che non sapeva esprimere, gente pericolosa, arrabbiata, eccentrica. Era entrata in contatto con gente che professava l’anarchia.

Ben presto Germaine si era messa a frequentare l’ambiente degli anarchici individualisti dei quartieri della République e di Montmartre, quartieri dimenticati da Dio e dallo Stato, quartieri senza acqua corrente e con bagni pubblici aperti una volta a settimana.

Germaine viveva vagando in hotel malfamati. Campava di piccoli furti, pochi spiccioli recuperati in rapide incursioni nelle zone “alte”, di occasionali lavori malpagati e della generosità dei compagni.

Era stata arrestata una prima volta per oltraggio a pubblico ufficiale, facendosi tre mesi di prigione. Poco dopo, l’avevano arrestata di nuovo, per possesso di armi – in realtà, un coltello da cucina nascosto nel vestito e, forse, un po’ troppo affilato. Altri quindici giorni di gattabuia.

Germaine aveva voglia di vivere. Aveva fretta. Ed era arrabbiata.

Non che al tempo non ci fossero motivi per essere arrabbiati. Una carneficina lunga cinque anni si era appena consumata e mezzo mondo era in agitazione.

Motivi per odiare

L’Action Française era un movimento politico d’ispirazione patriottica fondato nel 1899 sull’onda dell’affaire Deyfrus, che ben presto, sotto l’influenza di Charles Maurras si era schierato a favore di un ritorno alla monarchia. Nel suo ambito, durante il 1908, erano nati i Camelots du Roi, formati da giovani dediti alla propaganda e, soprattutto, alla violenza di strada.

I motivi per odiare l’Action Française, oltre che ovviamente ideologici, erano molti e Germaine li esporrà con lucidità durante il processo. Il movente principale, però, risaliva direttamente al 31 luglio del 1914, quando uno studente ultranazionalista, tale Raoul Villaine, fomentato dalla infamante campagna portata avanti da quelli dell’Action Française, in un caffé di Montmartre, aveva ucciso uno dei capi del partito socialista, e convinto pacifista, Jean Jaurès. Il fatto aveva scosso il paese intero, inclusa la piccola Germaine, ma l’emozione era durata lo spazio di tre giorni. Poi, il governo aveva diramato l’ordine di mobilitazione generale e la Francia, così come buona parte del mondo, era stata risucchiata in quell’incubo che sarebbe stato chiamato Grande Guerra.

Raoul Villain aveva dovuto aspettare che tornasse la pace per avere il suo processo e, incredibilmente, il 29 marzo 1919, la corte aveva assolto il reoconfesso e aveva condannato la vedova Jaurès a pagare le spese processuali.

L’allora rpimo ministro Georges Clemenceau, da parte sua, aveva così commentato la sentenza:

Un avvenimento provvidenziale ebbe luogo nel luglio del 1914. voglio parlare dell’assassinio di Jaurès. Non sto scherzando, perché se avessimo avuto Jaurès durante la guerra, non avremmo mai potuto vincere. Per la stupidità dei suoi discorsi, avrebbe disarmato le nostre truppe e fatto il gioco dei tedeschi (…).

Ecco chi era Jaurès … un pericoloso imbecille. Lo ripeto, il suo assassinio fu una fortuna per la Francia …!”

Il 22 gennaio 1923, Germaine Berton si recò in rue de Rome e entrò nella sede di Action Française con l’intenzione di uccidere Léon Daudet, leader del movimento, che però al momento non era presente nell’edificio.

Germaine, qualche giorno prima, aveva lasciato una lettera indirizzata a Daudet in cui affermava essere in possesso di importanti informazioni riguardanti gli anarchici. Venne allora ricevuta da Marius Plateau, tesoriere e capo dei giovani Camelots du Roi. Dopo averlo insultato, Germaine gli sparò diversi colpi di revolver, uccidendolo. Poi rivolse l’arma contro di se e fece fuoco.

Mancò il bersaglio, producendosi solo una leggera ferita al petto. Uno sbaglio che doveva rimpiangere in seguito per lunghi anni.

La sera, mentre Germaine veniva trasportata in ospedale, dove rimase alcuni giorni prima di essere trasferita in carcere, quelli dell’Action Française sfogarono la loro rabbia assaltando le sedi di alcuni giornali di sinistra e libertari.

Una serie di inquietanti suicidi

Germaine Berton, come abbiamo visto, era ben nota alla Surété, e noti erano i suoi legami e le sue amicizie. Le perquisizioni ed i fermi, quindi, scattarono praticamente fin da subito. Gli agenti si presentarono nella sede di Le Libertaire e al domicilio di vari compagni e conoscenti dell’attentatrice.

La polizia, però, ci mise due settimane prima di andare a bussare alla porta di un alberghetto situato al numero 8 di rue Lecuyer. Là abitava un membro dell’Union Anarchiste, tale Gohary, che aveva ospitato Germaine per due settimane nel dicemdre precedente.

Gli agenti bussarono a più riprese alla porta senza ottenere risposta poi decisero di forzare la serratura e penetrare all’interno della stanza. L’anarchico era lì, ma con un buco nella testa. Ai piedi del cadavere, un revolver. Il caso fu in breve archiviato come suicidio.

Forse Gohary aveva paura di essere implicato nell’omicidio Plateau e l’aveva fatta finita prima di essere rintracciato. O forse, aveva avuto paura dei suoi stessi compagni visto che, si insinuò, tutti erano stati fermati dalla polizia tranne lui e, sempre forse, qualcuno poteva essersi messo in testa che fosse un informatore.

Poco tempo dopo, venne rinvenuto un altro cadavere, un altro uomo che si era sparato in testa. Solo che questa volta non si trattava di un sovversivo. Il suo nome era Joseph Dumas e non era neanche una persona qualunque. Dumas era uno degli alti ufficiali di polizia incaricati di indagare su Germaine Berton e l’omicidio. Sul caso calò, fin da subito, un pesante silenzio.

Philippe Daudet, invece, scomparve di casa il 20 novembre 1923. L’intenzione del quattordicenne figlio di Léon Daudet era quella di lasciare la famiglia e il paese stesso per sempre. Per questo aveva rubato un po’ di soldi ai genitori e aveva preso un treno con destinazione Le Havre. Da lì avrebbe voluto prendere una nave che lo avrebbe portato in Canada, ma i soldi che aveva preso non bastavano e l’imbarco gli venne rifiutato.

A Philippe non rimase che riprendere un treno per Parigi. Pare che, durante il viaggio, il ragazzo facesse la conoscenza di qualcuno che gli regalò una pistola senza munizioni.

Invece di tornare in famiglia, Philippe si recò nei locali di Le Libertaire. Georges Vidal, l’amministratore del foglio anarchico, parlò con il giovane che vaneggiava il proposito di uccidere uno tra Millerand (presidente della repubblica), Poincaré (presidente del consiglio) e suo padre. Dopo averlo calmato, Vidal lo affidò alle cure di un compagno dal quale passò la notte. In quelle ore, Philippe confessò tutta l’infelicità della propria vita, con il padre che lo puniva per ogni cosa e lo picchiava, confessò di sentirsi anarchico da sempre ma di non aver mai avuto il coraggio di dirlo a qualcuno.

Il giorno dopo, l’adolescente entrò nella librería di Le Flaoutter, un anarchico che era stato sentimentalmente legato a Germaine ma che più tardi si scoprì essere informatore della polizia, al quale ripetè l’intenzione di portare a termine un omicidio. E Le Flaoutter gli diede quei proiettili cha mancavano alla sua arma. Philippe uscì dalla librería e chiamò un taxi.

Un taxi con ultima fermata l’ospedale di Lariboisière. Philippe venne scaricato lì, come un pacco, con una ferita da arma da fuoco alla testa.

Il cadavere venne infine identificato dalla madre, che da qualche giorno vagava cercando il figlio misteriosamente scomparso.

Le indagini della polizia presero fin da subito la pista del suicidio. Il terzo, in meno di un anno, legato al crimine perpretato da Germaine.

Secondo la versione ufficiale, assecondata dalla formale dichiarazione del tassista, mentre la vettura passava davanti al carcere dove era rinchiusa la giovane anarchica, Philippe aveva preso la sua pistola e si era sparato un colpo alla testa.

A cosa pensava Germaine?

Al suicidio, ci pensava, senza dubbio. Ripensava a quando aveva rivolto la pistola che aveva appena ucciso Plateau verso di sè. Un gesto istintivo. Ci sarebbero stati altri tre morti, se non avesse fallito quella sua opportunità?

Suicidio?

No. Léon Daudet non ci poteva proprio credere.

Sembrava essersi arreso, almeno all’inizio, davanti all’evidenza. Erano state ritrovate tre lettere dell povero Philippe, in cui si annunciava, nemmeno tanto tra le righe,l’intenzione di farla finita. Una di queste era stata pubblicata anche da Le Libertaire.

Eppure, c’era qualcosa che non quadrava. Il grande capo del movimento nazionale non poteva accettare che suo figlio avesse deciso di sua spontanea volontà, anche per il fatto che si sarebbe dovuto chiedere il perché.

E così, mentre le pagine di Action Française vomitavano offese sulla giovane sovversiva e tentavano di indicare i responsabili che ne avevano armato la mano, poiché non si riteneva possibile che una donna potesse essere capace di un simile gesto, Daudet si buttò a capofitto ad indagare sulla morte del suo Philippe. Indagini che lo porteranno ben presto a scoprire non poche contraddizioni nelle dichiarazioni del tassista e nelle prove portate a dimostrazione della tesi del suicidio. Un anno dopo il fatto, Daudet presenterà un esposto per riaprire il caso di suo figlio accusando di omicidio tre uomini della Surété e il libraio Le Flaoutter. Il ricorso sarà respinto due volte dal giudice e Daudet, preso dalla disperazione e condannato per diffamazione dall’autista del taxi Bajot, arriverà a barricarsi nel suo ufficio armi in pugno per resistere all’arresto, arrendendosi dopo qualche ora.

Questa è una donna?”

Intitolava così il giornale Action Française il 19 dicembre 1923 all’apertura del processo per omicidio contro Germaine Berton.

La donna venne difesa dal celebre avvocato progressista Henry Torrès che, lungi dal farne un caso politico, puntò tutto sul precedente dell’assoluzione di Raoul Villain.

Germaine ammise senza problema alcuno la responsabilità del suo gesto, spiegando anche i motivi che l’avevano spinta a tanto.

Non c’era molto da discutere e, infatti, la corte si ritirò per deliberare dopo appena cinque giorni. A conferma di ciò, la comunicazione che la decisione era stata presa, arrivò dopo quindici minuti.

Il verdetto fu di proscioglimento.

Cosa provò a quelle parole, Germaine?

Libera, a meno di un anno da quel giorno di gennaio. Con la morte nel cuore. I compagni che l’aspettavano festanti fuori dal palazzo di giustizia.

La prima cosa che fece nella sua prima ora di libertà, fu quella di recarsi nel luogo in cui era sepolto il corpo di Philippe Daudet. Quando, in carcere, aveva saputo ciò che era successo al giovane, Germaine era riuscita ad inviare una carta alla madre restata il figlio per farle sentire tuta la propria vicinanza.

Era depressa, Germaine. Non riusciva a non pensare a Philippe e al suo suicidio.

Quelli di Le Libertaire, anche per farla uscire dallo stato in cui era caduta, gli proposero allora di partire per un giro di conferenze di propaganda e lei accettò.

Il tour fu disseminato di incidenti e disordini, come forse si poteva preventivare, per toccare il suo culmine il giorno 22 maggio a Bordeaux. Là si erano radunate all’incirca 1.500 persone per sentirla parlare ma la polizia aveva deciso che, quella sera, non ci sarebbe stata nessuna conferenza. Seguirono, inevitabili, gli scontri. La guerriglia si protrasse fino alle due di notte con un bilancio di 150 arresti tra cui, naturalmente, anche Germaine.

Accusata di porto di armi proibite, minaccie e oltraggio a pubblico ufficiale e incitamento alla rivolta, venne condannata a quattro mesi di prigione, la pena più alta tra tutti coloro che erano stati arrestati. A quel punto, iniziò uno sciopero della fame che la portò, ancora una volta, vicino alla morte.

Qualche mese dopo, sempre Le Libertaire, in un articolo, svelò Germaine, dalla sua uscita dal carcere, aveva già tentato due volte il suicidio – una volta la pistola si era inceppata, un’altra il veleno che aveva ingerito non aveva avuto l’effetto sperato. L’articolo diceva anche che la ragazza andava in giro con al collo un medaglione che racchiudeva la foto di Philippe Daudet e che, in uno di questi tentativi, aveva mandato un biglietto alla madre del giovane: “Philippe è morto a causa mia, io oggi muoio per lui”.

Fate spazio all’avanguardia!

Nel dicembre del 1924 uscì il primo numero della rivista di un gruppo d’avanguardia che era un discendente diretto dello scandaloso dadaismo. Il foglio si intitolava La Révolution Surréaliste e era stato fondato, tra gli altri, da André Breton, Louis Aragon, Benjamin Peret e Pierre Naville.

I cosidetti surrealisti presero Germaine e la proclamarono come una loro eroina.

Aragon, che diventerà in seguito uno stalinista di ferro, aveva già scritto su di lei, quando era in prigione, rivendicando la nobiltà del gesto di Germaine, la difesa dell’individuo, la rivolta contro chi minaccia la libertà, il “ricorrere a mezzi terroristi, in particolare all’omicidio, per salvaguardare, con il rischio di perdere tutto, ciò che per lei – a torto o a ragione – ha di più prezioso aldilà di tutto”.

I surrealisti erano accorsi tra la folla che l’aspettava il giorno della sua liberazione. Avevano con loro una grande corona di fiori con un’iscrizione: “A Germaine Berton, che ha fatto ciò che noi non abbiamo saputo fare”.

Sul primo numero di La Révolution Surréaliste c’era la foto di lei – al centro della pagina – circondata dalle facce di questi uomini, i surrealisti, con in fondo, a chiudere tutto, una citazione di Baudelaire: “La femme est l’être qui projette la plus grande ombre ou la plus grande lumière dans nos rêves”.

Ma dopo l’episodio di Bordeaux, Germaine cominciò a farsi vedere sempre meno.

Era depressa, forse, ma voleva ostinatamente continuare a vivere – cercava qualcosa che si può anche chiamare pace. E una cosa del genere, la puoi trovare nell’amore, sempre forse …

Germaine si sposò con il pittore olandese Paul Burger. Era il 17 novembre 1925.

I due andarono a vivere in Germania, lontani dalle luci della ribalta che lei attirava inevitabilmente su di sè.

Si sa poco del periodo passato in terra tedesca, all’incirca dieci anni, e della sua vita matrimoniale, se non che Germaine si appassionò e si mise a studiare l’esoterismo, Jung e Nietzsche. Si mise anche a scrivere una tormentata autobiografia, che non sarà mai pubblicata, dal titolo La dionysaque d’Unan, in cui il fantasma di Philippe Daudet tornava a più riprese. Si descriveva un amore che stava lì nella sua testa – Germaine e Philippe – una storia mai accaduta eppure così reale – per le strade di Montmartre tenendosi per mano, baci e carezze nelle camere di alberghi sgangherati, lui che le sussurra all’orecchio dolci poesie …

Un’idea che andava comunque a braccetto con quella del suicidio.

Germaine, in seguito alla rottura con Burger, fece il suo ritorno a Parigi dove si legò allo stampatore René Coillot.

La depressione, però, viaggiò con lei e l’accompagnò durante il suo nuovo soggiorno parigino. Dopo essere stata salvata una volta all’ultimo momento da Coillot, Germaine riuscì finalmente a coronare la sua intenzione ingerendo una forte dose di Veronal. La corsa all’ospedale Boucicant fu del tutto inutile. Germaine trovò la propria morte il 4 luglio 1942 e, davvero, a quei tempi, vivere forse non valeva proprio più la pena.

TRAMONTO TRAGICO [1923]

[Tratto dal romanzo inedito “Fuoco incrociato sulla mia generazione”]

Guardo, distrattamente, la mia sigaretta.

Esile, pallida e calda

come un’amante malata.

La vedo consumarsi lentissimamente

come la mia vita e i miei sogni:

come la vita e i sogni di tutti i miei fratelli.

La cenere cade a terra e si disperde. Così!

Il fumo s’innalza, denso e grigio, nell’aria

e si disperde pure. Così.

A me non rimane

che un po’ di nicotina gialla

sulle labbra amare. Così.

[…]

Entro il crepuscolo cupo

dell’anima mia

il mio rosso Demonio si desta.

Sento come un rivoletto di sangue amaro

scorrermi sulle labbra amare …

Ho un tragico presentimento …

Che avverrà nella notte?

Ma … le stelle

– le care stelle –

vedranno.

Oh, se potessi ancora una volta

ridere e maledire soltanto …

Ma vedo un lampo sinistro (un rogo?)

brillare nell’oscurità della notte.

Dovrò COLPIRE!

Lo sento …

Lo sento! Lo sento! Lo sento!

Io sono un astro che volge

verso un tramonto tragico.

[Renzo Novatore, da Ballata Crepuscolare, preludio sinfonico di “Dinamite”]

[Arcola, ottobre]

Renzo vagava già da un po’ di tempo tra i suoi amici boschi. I suoi sentimenti oscillavano tra un’indicibile malinconia e una rabbia incontrollabile – oscuri presagi – intorno a solitari falò, nascosto fra le montagne – le preziose sigarette fumate fino all’ultimo tiro, fino a scottarsi le dita – e pensieri, pensieri pieni di amore e di morte – pagine piene di scritti tragici.

Non era stanco, Renzo, era più, come dire, distratto. Sospirava, mentre si avviava nell’oscurità verso la sua casa di Arcola, verso sua moglie e i suoi figli. Emma e una notte d’amore, dopo quel che a lui era sembrato un secolo.

Gli era venuto da piangere, un attimo prima di addormentarsi tra le calde braccia di sua moglie, e prima di lasciarsi andare all’oblio di un sonno senza sogni.

Renzo venne strappato dal suo personale purgatorio da un rumore ben noto – il rombo del motore di diversi camion FIAT 18 BL.

Sono qui per me”, era stato il suo primo pensiero.

Poi era scattato in piedi – “la pistola e le bombe, dove sono?, cazzo, i vestiti dove sono?” – lo stava gridando o erano solo pensieri chiusi nella sua testa? – “in fretta, devo fare in fretta”. Emma lo osservava da sotto le lenzuola, gli occhi atterriti, non osava dire niente – lo sapeva cosa stava per succedere.

Si cominciavano a sentire quei canti maledetti che accompagnavano ogni spedizione punitiva.

Renzo si era tirato su i calzoni, aveva controllato il caricatore della sua pistola, si era messo la giacca elegante ormai lurida e ne aveva tastato le tasche per avvertire la confortante presenza delle due bombe SIPE – il tutto senza staccare lo sguardo dalla sua amata Emma. Poi, le si era accostato e le aveva sussurrato:

– Tornerò … presto …

Infine, si era precipitato giù per le scale, aveva tirato fuori le bombe, aveva tirato via la sicura, aveva aperto la porta e aveva cominciato a correre. Le camice nere stavano scendendo dai loro mezzi. Una bomba di qua e una di là. Esplosioni. Quelli si erano gettati istintivamente a terra e Renzo aveva continuato a correre con la pistola in pugno.

Era risuonato ancora qualche colpo d’arma da fuoco, ma Emma aveva avuto la certezza che lui ce l’aveva fatta. Ora i fascisti si sarebbero sfogati con lei e con la casa – ormai ci si era abituata e non le importava più. L’essenziale era che Renzo fosse ancora vivo. Si sarebbero rivisti, prima o poi.

[Novi Ligure, 25 novembre]

Era da qualche mese, precisamente dall’omicidio di Casalegno, che il maresciallo dei carabinieri Giovanni Lupano si era messo sulle tracce di Pollastro e di quelli della sua banda.

Sul luogo del delitto, secondo vari testimoni, uno dei banditi aveva lasciato il suo mezzo per fuggire con quello del povero portavalori. Le indagini erano iniziate proprio seguendo la pista di quella bicicletta.

La macchina sequestrata era una Maino di Alessandria. Un agente investigativo di Tortona, G. Bianchetti, si recò subito in quella città e trovò che la macchina tempo addietro era stata acquistata da uno di Novi. Nella nostra città, dove si portò immediatamente, in un primo tempo non riuscì a rintracciare il proprietario. Dopo, però, mascherato da contadino, fingendo di aver trovato la macchina abbandonata in campagna, si recò in tutti i negozi di riparazioni, esibendola e domandando se a qualcuno era nota la provenienza. Un piccolo garzone in un laboratorio disse: “Questa è la macchina di Nicolino”. L’abile funzionario respirò di soddisfazione pensando che le sue fatiche cominciavano ad aver successo. Ma riconosciutolo come funzionario di pubblica sicurezza, più nessuno volle fiatare e il piccolo garzone dovette essere condotto in camera di sicurezza, dove piangendo dette altre utili informazioni. D’accordo con la Questura e con i reali carabinieri della nostra città, si potè identificare il “Nicolino” in certo Comollo Silvio di Antonio, anni ventuno, che venne tratto in arresto. Contemporaneamente veniva arrestato il fratello a nome Comollo  Nicola, trovato in possesso di altra bicicletta. Ma costui venne subito rilasciato.”

[da Il Messaggero di Novi]

La pista era quella giusta, ma avevano beccato i Comollo sbagliati. Infatti, anche Silvio dovette infine essere rilasciato.

Il Comollo che il maresciallo Lupano cercava si chiamava Emilio, ed era il compagno della sorella di Sante Pollastro, Carmelina. Avevano tre figli ed abitavano in una cascina nel bosco della Frascheta, fuori Novi. Era lì che Sante andava a passare le notti, da un po’ di tempo a quella parte.

Ce ne mise di tempo, il maresciallo Lupano, a fare due più due e ad organizzare il piano per la cattura del famoso bandito. Forse gli arrivò una soffiata – anche se non è molto probabile.

I carabinieri accerchiarono la cascina, poi Lupano, accompagnato dal brigadiere Castioni, armi fuori dalla fondina, bussò alla porta della casa.

Gli aprì una giovane donna. Carmelina.

– Che volete …

Il maresciallo si fece strada scansandola con un braccio.

– Ci lasci entrare … stiamo cercando dei pericolosi latitanti …

– Ma qui non c’è nessuno …

Lupano non l’ascoltava già più, mentre avanzava verso la cucina – la pistola spianata e i nervi tesi.

Il brigadiere fece cenno a Carmelina di tacere.

All’improvviso, chiaro come un raggio di sole, si sentì un tonfo sordo. Poi un scoppio. E, subito dopo, il crepitio dei fucili dei carabinieri.

Lupano si precipitò alla finestra della cucina. Due individui scappavano correndo verso il bosco, sparando a destra e a manca.

L’esperto investigatore ruppe il vetro con la canna della pistola e prese la mira. Aveva solo qualche secondo prima che i banditi arrivassero fuori tiro. Lupano premette il grilletto – bang! – e vide uno dei due andare giù – l’altro che lo soccorreva, che lo abbracciava, che gli sussurrava qualcosa all’orecchio, che gli baciava delicatamente la fronte, che scattava in piedi con un balzo, che spariva nel fitto del bosco, lasciando il compagno morto steso sul prato, a meno di dieci metri da quella macchia che voleva dire salvezza.

Emilio Comollo ce l’aveva quasi fatta – gli mancavano dieci metri quando un proiettile vigliacco gli era penetrato nella schiena e lo aveva scaraventato altri tre metri più vicino alla boscaglia. Sante, che lo seguiva, aveva frenato la corsa e si era accucciato prendendolo per le braccia per aiutarlo a rialzarsi ma quello se ne era andato per sempre – lo aveva salutato con poche parole e un rapido bacio perchè le circostanze non permettevano altro, ed aveva sprintato con le sue gambe da ciclista senza bicicletta – “la pistola in tasca, e Girardengo nel cuore”, come si diceva allora a Novi tra la gente del Borgo.

Sante, mentre faceva perdere le proprie tracce, già meditava propositi di vendetta. Avrebbe avvertito gli altri perchè sapessero quello che era accaduto, perchè bisognava riorganizzarsi e passare all’azione – bisognava far capire a tutti, amici e nemici, che eravamo ancora vivi e vegeti e tutt’altro che vinti.

[Teglia di Rivarolo, Genova, 30 novembre]

Sante Pollastro non sa dove andare, ma va.

Attraversando gole e vallate. Di notte. A casaccio. E’ confuso per quel che è successo. Ci mette due giorni prima di poter tornare a pensare freddamente, a ragionare, a decidersi a prendere una direzione precisa.

Casa di Novatore ad Arcola.

Glielo deve a Renzo. Che sia almeno un compagno a dare ad Emma la tragica notizia. La storia dell’uccisione del suo Renzo.

Uno dei soliti appuntamenti di lavoro all’Osteria della Salute. Facciamoci un boccone prima di parlare di cose serie.

Sante e Renzo ordinano una zuppa. Dopo poco attaccano a mangiare come due lupi. Il loro ospite ancora non arriva.

I due lupi decidono di concedersi un secondo spuntino.

Invece del tipo che stanno aspettando, entrano tre uomini vestiti da operai. Due si dirigono sul tavolo alla destra, il solitario va verso quello di sinistra.

A Sante gli si agitano le antennine. Guarda Renzo. Quello continua a mangiare come se non si fosse accorto dei tre.

Era strano da un po’ di tempo, Renzo. Era chiuso in se stesso più del solito. Lupo. Forse da quando aveva ricevuto la notizia dei suoi compagni uccisi a Pisa. O di Argo Secondari. Era distratto dal pensiero della morte, Renzo.

Sante guarda le scarpe dei due alla sua destra. Altro che operai. Qua, meglio filarcela alla svelta. Sante scuote Renzo dal suo mangiare meccanico, dal suo torpore.

– Io vado a chiedere il conto …

Renzo capisce, ma è troppo tardi.

– Sante Decimo Pollastro! Ti dichiaro in arresto!

E’ subito il finimondo. Spari. Fumo. Tavoli rovesciati. Scheggie di vetro.

E’ Renzo il primo a cadere. Ha con se due rivoltelle e una bomba SIPE, ma non fa in tempo a metter mano ad una delle sue armi.

All’improvviso, il silenzio.

Sante vede l’amico morente. Sante vede anche il maresciallo Lupano, quello che ha ucciso suo cognato. Morto stecchito, con un bel foro in mezzo alla fronte. Si gira, e vede uno dei due finti operai sforacchiato dalle pallottole. E’ ancora vivo. L’altro era sicuoro di averlo ferito, ma non c’è. Sarà scappato a gambe levate a dare l’allarme.

Non c’è tempo per piangere. Sante guarda Renzo. Poi sente una voce vicino a lui. Anche se sembra venire dall’oltretomba.

– Pollastri … Pollastri … non mi uccidete …

Sante si rivolge al carabiniere travestito.

– Ti do un consiglio: cambia mestiere.

Poi si gira, corre sul retro, sfonda una finestra, si lancia e scompare.

L’allarme ci mette poco a scattare. L’Osteria della Salute viene circondata appena quindici minuti dopo il fattaccio.

Di Sante Decimo Pollastro nessuna traccia. Il carabiniere Giuseppe Marchetti steso in un lago di sangue ma ancora vivo. Il maresciallo Lucano indubbiamente morto. Un altro cadavere sconosciuto. Il complice del Pollastro, di sicuro. Lo perquisiscono. Addosso gli trovano due rivoltelle cariche, una bomba SIPE e documenti intestati a tale Giovanni Governato. In una successiva e più accurata ispezione, gli troveranno anche una dose letale di cianuro chiusa all’interno dell’anello che portava al dito medio della mano sinistra.

In poco tempo viene organizzata la caccia all’uomo. Non poteva essere andato molto lontano il Pollastro. Arrivano anche i miliziani in rinforzo. Battere le strade a raggiera, tutte le strade che dall’Osteria della Salute portano via lontano. Chiudere ogni via di fuga con posti di blocco. Presidiare tutte le stazioni ferroviarie della provincia.

In effetti, Sante non era andato molto lontano.

Si trovava appollaiato sopra ad un albero ad appena una sessantina di metri dall’Osteria della Salute. Ci rimase tutta la notte – fino a che non fu sicuro che la zona fosse relativamente tranquilla, e poi si incamminò – eroe tragico di un iliade da pezzenti, si incamminò verso i suoi amici monti. Nessuna meta. Solo fuggire.

Sante ora lo sa dove deve andare. Si è schiarito le idee. Si è ricordato che Renzo aveva con sè i documenti di Giovanni Governato. Conta sul fatto che questo gli dia un certo vantaggio.Non sanno ancora che si tratta di Renzo, alias Abele Ricieri Ferrari.

E’ sicuro di farcela.

Non sa per quanto tempo ha vagato senza senso. Non molto, decide. Gli sbirri ancora non sanno di chi è quel corpo là all’osteria. Non possono sapere che andrò a casa di Renzo. Un altro buon motivo per andarci. Sulla tappa successiva, ci avrebbe pensato in seguito.

Già un paio di chilometri dalla casa di Arcola, Sante capisce che non ce la farà mai. Sono in troppi che lo aspettano e lui è da solo. Carabinieri, camicie nere. Puzza di agguato lontano due chilometri.

Piano di riserva. Un misero bigliettino nelle mani di un compagno che abita nei dintorni, Erinne Viviani.

Sante il latitante, il ricercato glielo lascia. Non ha bisogno di spiegare niente. Il compagno ha già capito. Gli mette una mano sulla spalla – un abbraccio no, sarebbe già perdere troppo tempo.

Sante si gira e si perde in direzione dei monti.

Emma non lo vedrà mai.

Renzo Novatore non è più. E’ stato assassinato.

E’ caduto combattendo.

Non è stato ancora identificato; quando lo sarà, parlate di lui sui giornali, facendolo rivivere in una protesta.

Pensate anche a fare qualcosa per la sua famiglia.

Scusatemi. Non so cosa dirvi. Ho la testa in fiamme.

Saluti, vostro S.”

Fu così, tramite quel che era restato della fitta ragnatela che univa una volta i sovversivi della zona, che Emma ebbe un po’ di tempo per elaborare quel lutto da sola – prima che che un paio di guardie regie venissero a comunicarle la notizia ufficiale.