LA VENDETTA DI ANTONIO [1914]

Il suo respiro si era sempre confuso con quello dei dannati della terra. Dove era nato e cresciuto. Nelle terre che aveva visitato.

In quello stesso respiro che molte volte era solo un fetore insopportabile ma che ti poteva anche riscaldare nelle peggiori delle notti più nere.

Un respiro che era come un soffio, una brezza che stava a contatto con la pelle, sempre, senza abbandonarlo mai, e che, di tanto in tanto, poteva divenire tempesta.

Un respiro affannato, comunque. Il caldo, la brezza del caldo, il respiro del deserto che giungeva dalle coste africane e arrivava fino a quella terra, l’Andalusia, dove era nato Antonio.

A Molvizar, in provincia di Granada, un paesino di poche centinaia di anime, situato su una collina, a circa 8 km dalla costa mediterranea.

Antonio Ramon Ramon era nato precisamente il 13 novembre del 1879.

Quando aveva cinque anni, il già povero paese dove aveva visto la luce, un luogo che basava la sua esistenza esclusivamente sull’agricoltura, fu colpito da tutta una serie di sciagure che fecero pensare ai suoi abitanti che Dio li avesse abbandonati una volta per sempre. Casi di colera. La filoxera che attaccò le vigne. Una serie di terremoti che rovinò le case, fortunatamente senza fare vittime.

In processione, gli sfortunati che lì vivevano chiesero al Signore la grazia di risparmiarli da altre disgrazie.

Gli uomini di Molvizar, nella stragrande maggioranza braccianti, furono costretti a cercare lavoro altrove.

Tra questi, anche il padre di Antonio, che cominciò a stare sempre più fuori di casa.

Il padre di Antonio gli aveva passato il suo nome, chiamandosi lui Antonio Ramon Ortiz. Era un uomo molto conosciuto in paese per i suoi eccessi. Beveva molto, troppo.

Normalmente, non era un uomo cattivo, ma tendeva ad essere violento con la moglie quando aveva alzato il gomito. Sempre più spesso.

Cominciò ad accusare la donna di volerlo avvelenare con i pasti che gli preparava fino a che non arrivò a costringere la figlia a confessare le malefatte della madre a suon di ceffoni.

A quel punto intervennero i genitori della sposa, e Antonio padre venne rinchiuso in un istituto per malati di mente per otto mesi.

Il piccolo Antonio, invece, era un bravo figlio. Tranquillo, gentile, obbediente.

Il padre lo adorava e, a lui, non mise mai le mani addosso.

Il piccolo Antonio frequentò solo un anno di scuola, poi, anche lui, come tutti gli abitanti poveri di Molvizar, fu spedito a lavorare nei campi.

Il padre lo vedeva poco. Da quando era tornato dall’istituto, sembrava aver messo la testa a posto. Ma le voci che circolavano in paese raccontavano di un’altra donna, di un altro figlio, di un’altra vita.

A Lobrès, distante un pugno di kilometri, dove Antonio il vecchio era stato a lungo per lavoro, esisteva tutto un mondo. Altro. Parallelo.

O, almeno, questo è ciò che raccontavano le voci.

Dopo qualche tempo, il vecchio Antonio fu preda di nuovo delle sue paranoie e venne rinchiuso, questa volta, a Granada.

Il figlio era l’unico che andava a trovarlo quando aveva modo di risparmiare qualcosa per il viaggio.

Il giovane Antonio, però, non osava chiedere al suo vecchio su quella sua supposta vita parallela.

Il giovane Antonio pensava, come tutti quelli che avevano ancora la forza di farcela in paese, di andarsene. Di andare via lontano in cerca di fortuna.

In America, per esempio.

Si parlava molto di questa mitica terra, in paese.

L’America. Il luogo che prometteva un’altra vita. Prometteva di ricominciare d’accapo. come se si potesse cancellare tutta quella miseria dalla memoria e dalla pelle.

Ma l’America era lontana, troppo lontana per Antonio e le sua possibilità economiche. Dovette dunque accontentarsi di emigrare in cerca di fortuna dall’altra parte del Mediterraneo.

Nel 1902, Antonio si stabilì a Oran, nell’Algeria francese, trovando lavoro nel porto.

Fu durante le feste della Settimana Santa che fu avvicinato da due individui che cominciarono a parlargli in una lingua che non conosceva e che lo trattavano come se fossero amici di lunga data.

Ci volle del tempo per chiarire l’equivoco ma, alla fine, Antonio si convinse che i due tipi lo avevano scambiato per quel fratellastro di cui sospettava l’esistenza.

Si recò quindi nella vicina Aranzol dove gli avevano detto che viveva e lavorava il ragazzo.

Si incontrarono, si parlarono e nacque subito un’amicizia basata su una spontanea simpatia.

Il fratellastro di Antonio si chiamava Manuel Vaca ed era nato a Lobrès, una località

sul mare in provincia di Granada, e si era trasferito in Algeria con la madre quando il comune padre aveva definitivamente rinunciato a riconoscere la sua famiglia clandestina.

Antonio e Manuel divennero subito inseparabili. Lavoravano e vivevano insieme.

Insieme, decisero di partire e tentare la fortuna in America. La terra promessa.

Nel 1905, i due fratelli arrivarono in Brasile. Il piano era quello di raggiungere Buenos Aires, in Argentina, e lì, cercare un lavoro e sistemarsi.

I soldi che avevano con loro, però, non bastavano per il viaggio di tutti e due. Decisero così di separarsi temporaneamente. Manuel si sarebbe recato nella Capital Federal argentina, mentre Antonio sarebbe rimasto in Brasile.

Non potevano sapere che erano destinati a non rivedersi mai più-

Antonio trovò un lavoro come dipendente delle ferrovie a Botucatú, all’interno dello stato di Sao Paulo, a circa 230 km dalla capitale.

Manuel arrivò a Buenos Aires, ma non vi restò che due mesi. Nella capitale argentina le condizioni di vita degli immigrati non erano certamente quelle che si immaginavano i due fratelli quando avevano deciso di partire.

conventillos accoglievano queste masse provenienti dalla Spagna, dall’Italia, dalla Russia, dalla Polonia, dalla Germania – stipati in cameroni . bassa manovalanza pagata pochi spiccioli dalla borghesia e dall’aristocrazia locale . gente che veniva bastonata e uccisa senza pietà alcuna non appena tentava di organizzarsi e di ribellarsi alla misera vita che gli era riservata.

I due si scrivevano regolarmente. Antonio seppe così che Manuel se ne era andato da Buenos Aires. Era venuto a conoscenza che in Cile, nel nord del paese, assumevano per lavorare nelle miniere di salnitro.

Quando Antonio riuscì finalmente a mettere insieme i soldi per il viaggio, facevano già sette mesi che Manuel lavorava nelle miniere.

Continuarono a scriversi. Fino a che, a partire dal dicembre del 1907, nella cassetta delle lettere di Antonio cessò di arrivare qualsiasi cosa che portasse la firma di Manuel.

Lo sciopero che fu poi chiamato dei “18 pennys” ebbe inizio il 10 dicembre nella miniera di San Lorenzo, nella pampa cilena.

I 18 pennys venivano fuori dal fatto che i minatori chiedevano, tra le altre rivendicazioni, di essere pagati con la stessa moneta con cui venivano pagati gli introiti dei loro padroni. E siccome i padroni delle miniere del nord del Cile erano per lo più inglesi, esigevano di essere pagati in sterline, proprio come loro, quindi 18 pennys all’ora.

Lo sciopero, in breve, si estese come un fuoco tra le sterpaglie.

Il 16 dicembre, gli scioperanti, parecchie migliaia, si concentrarono a Iquique, sede del governo regionale, e si sistemarono nell’ippodromo. Chiedevano di incontrare i rappresentanti delle compagnie minerarie per una trattativa.

Il governo regionale prese tempo, completamente spiazzato dalla situazione, e chiese istruzioni a quello centrale.

La risposta fu l’invio di tre battaglioni dell’esercito di rinforzo, di cui uno di artiglieria, e, soprattutto, del generale Roberto Silva Renard, accompagnato da un segretario del ministero dell’interno che avrebbe preso a carico le negoziazioni.

Il generale Renard era un ufficiale di lunga data, che doveva la sua carriera all’aver scelto il lato giusto durante la guerra civile del 1891. In seguito, si era distinto esclusivamente per le due repressioni contro scioperanti a Valparaiso, mietendo vittime a centinaia.

Il 20 dicembre, mentre i dirigenti sindacali erano impegnati nelle negoziazioni con il rappresentante del governo, sul giornale locale venne pubblicato il decreto di stato d’assedio.

Come conseguenza, già quella stessa sera, i militari aprirono il fuco su alcune famiglie di minatori che cercavano di lasciare la città, provocando sei morti e numerosi feriti.

Il giorno dopo, gli scioperanti, tra i 10 e i 12 mila, invasero piazza Manuel Montt e la Scuola Santa Maria. I sindacalisti salirono sul tetto dell’edificio arringando la folla e chiedendo alle autorità di mediare con i padroni inglesi. L’esercito accorse per circondare la piazza.

Gli ordini intimati furono chiari. I manifestanti se ne dovevano tornare all’ippodromo e, da lì, da dove erano venuti, cioè nei loro luoghi di lavoro nelle miniere.

I delegati sindacali, a nome degli scioperanti, si rifiutarono di muoversi fino a che non avessero ottenuto il permesso di dialogare con i padroni.

Allora, il generale Renard lanciò un ultimatum. Alle ore 14:30, gli scioperanti avrebbero dovuto cominciare a spostarsi verso l’ippodromo.

Poco prima dello scadere, il generale, magnanimo, concesse un’altra ora di tempo. Dopo, avrebbe dato l’ordine alle truppe di aprire il fuoco.

Solo qualche scioperante lasciò l’edificio.

Esattamente alle ore 15:30, Renard diede il fatidico ordine.

La prima raffica colpì i dirigenti sindacali e gli scioperanti che si trovavano sul tetto.

La folla che era presente all’interno e intorno alla scuola, presa dal panico, cercò disperatamente di sfuggire all’accerchiamento.

Il generale Renard ordinò il fuoco a volontà.

Non si seppe mai il numero delle vittime. Anche le stime meno pessimistiche non contarono meno di 2.200 morti.

Altri arrivarono ad una stima di 3.600.

In ogni caso, uno dei più grandi massacri della storia del Cile.

I sopravvissuti furono scortati fino all’ippodromo e, da lì, obbligati a salire sui treni che li avrebbero riportati ai loro rispettivi luoghi di lavoro.

Per l’ennesima volta, uno sciopero era finito con una strage.

La notizia del massacro dei minatori a Iquique arrivò in Argentina con un certo ritardo.

Quando ne venne a conoscenza, Antonio venne preso da un brutto presentimento.

Sebbene l’ultima lettera del fratello non menzionasse lo sciopero, la zona in cui si trovava impiegato e, soprattutto, il periodo dell’interruzione della corrispondenza, lasciavano pensare che qualcosa di tragico fosse avvenuto.

In preda all’angoscia, Antonio mise da parte il denaro necessario e, nel giugno del 1908, partì alla volta del Cile, deciso a scoprire che cosa era accaduto a Manuel.

Suo fratello era stato una delle numerose vittime della strage.

Antonio scoprì la terribile verità domandando ai pescatori di Iquique e ai colleghi minatori dell’alto Cile.

Da quel momento in poi, Antonio cominciò a vagare. Tra propositi di vendetta ed esigenze di sopravvivenza.

Lavorando qua e là, cercando di seguire il generale Renard quando, occasionalmente, tramite la carta stampata, veniva a sapere dei suoi incarichi e delle sue assegnazioni.

Ma il sopravvivere, in alcuni periodi, prendeva il sopravvento, facendogli dimenticare completamente la sua missione.

Visse facendo il giornaliero nella pampa cilena, per un tempo il vinaio a Valparaiso. Tornò per due volte in Argentina.

I mesi, gli anni passavano …

Nel 1914, il generale Renard era ormai un ufficiale in pensione ma, per i suoi particolari meriti nel servire la patria, era stato nominato direttore di una fabbrica che produceva cartucce per l’esercito a Santiago.

Tutte le mattine, dalla sua abitazione, raggiungeva a piedi l’ufficio.

La mattina del 14 dicembre, mentre il generale camminava tranquillamente come sempre in calle Viel, nelle vicinanze del parco Cousiño, sentì, all’improvviso, un dolore acuto alla base del collo.

Poi un altro colpo, e poi un altro.

Sentì le viscere liberarsi e un liquido scivolare lungo i pantaloni.

Il generale barcollò. La sua mano afferrò l’inferriata di una finestra e riuscì a voltarsi. Aggrappato al ferro, vide gli occhi del suo assassino e la mano con il coltello calare ancora verso il suo viso.

Le grida di pietà e di aiuto, finalmente, ebbero l’effetto di attirare l’attenzione, in particolare degli aiutanti del generale.

L’attentatore allora cominciò a fuggire entrando nel parco vicino. dopo un breve inseguimento, vedendosi circondato, si fermò per ingerire un liquido giallognolo, un veleno che, però, non ebbe effetto alcuno.

I militari, con l’aiuto di una guardia del parco, immobilizzarono l’uomo e uno di loro lo ferì alla testa con una sciabolata.

Il generale Renard non morì in seguito alle gravissime ferite riportate. Almeno, non subito.

A causa del lungo periodo di convalescenza, fu costretto a lasciare il suo posto di direttore della fabbrica.

Costretto alla pensione, con una paralisi facciale e dei dolori atroci alla schiena in conseguenza delle ferite, il boia della Escuela Santa Maria de Iquique spirò il 7 luglio del 1920.

Nella sua prima dichiarazione dopo l’arresto, Antonio Ramon, l’attentatore, si assunse la responsabilità del gesto.

Io sono l’autore delle ferite al generale Roberto Silva Renard, e le ho inflitte per vendetta per essere stato il generale Silva Renard chi ordinò il fuoco contro gli operai nella scuola Santa Maria di Iquique, tra i quali stava il mio fratello illegittimo Manuel Vaca, che perì in conseguenza degli spari della truppa.

Al processo, la pubblica accusa cercò inutilmente le prove di un complotto anarchico, ma non si riuscì a trovare la minima connessione con il movimento libertario.

Movimento che, però, non esitò a mobilitarsi a suo sostegno durante il giudizio, con grandi manifestazioni pubbliche di solidarietà.

Dopo processi e revisioni, Antonio, alla fine, fu condannato a cinque anni per tentato omicidio.

Avrebbe dovuto essere rilasciato il 19 novembre 1919.

Cosa successe ad Antonio non è stato mai chiarito.

Una versione racconta che non venne rilasciato e che, dopo poco, morì in carcere.

Un’altra dice che alla sua uscita dal carcere, venne colpito da un decreto di espulsione e che, grazie al sindacalista anarchico Juan Chamorro, che gli recapitò 15000 libras, riuscì ad imbarcarsi a Valparaiso e tornare, infine, al suo paese natale.

A Molvizar, sarebbe morto per malattia o spinto al suicidio da una grave depressione nel 1924.

Nessuna di queste ipotesi ha comunque mai trovato conferma.