AD OCCHI BENE APERTI [1918]

Tre colpi di pistola risuonarono all’uscita della fabbrica di armamenti Mikhelson di Mosca. Il panico si diffuse tra la folla presente.

Le grida non facevano che ripetere:

– Lo hanno colpito! Hanno ucciso Lenin!

Ma Vladimir Il’ič Ul’janov detto Lenin non era ancora morto.

Erano le dieci e mezza di sera del 30 agosto del 1918, ed aveva appena terminato il comizio davanti agli operai della fabbrica.

Stava dirigendosi verso la macchina, con il suo fido autista Ghil che gli faceva strada tra la folla, quando aveva udito distintamente pronunciare il suo nome, una voce che si era staccata dal brusio che intasava l’aria e che gli aveva fatto istintivamente girare la testa verso destra.

In quel momento si erano sentiti i tre spari in rapida successione.

Non si sa bene in quale ordine – un proiettile gli bucò il cappotto, uno gli trapassò il polmone sinistro, uno gli si piantò sulla spalla.

La grande guida della rivoluzione bolscevica venne precipitosamente portato al Cremlino per paura di eventuali altri attentatori sparsi in giro. In grave pericolo di vita, ma non era ancora morto. I medici ebbero accesso alla camera dove giaceva il corpo di Lenin solo dopo che questi fu messo definitivamente al sicuro da altri pericoli.

Non aveva sparato ad occhi chiusi, anche se sembrava che li avesse.

Aveva gli occhi aperti quando aveva premuto il grilletto, quasi spalancati.

Ma erano anni che viveva in un mondo in cui la sua vista andava e veniva all’improvviso – un mondo fatto di esplosioni bianche e di vuoti neri – cecità che durava settimane.

Ma voleva farlo – e per questo aveva cercato di tenere gli occhi bene aperti – per cercare di abituarsi a quella visione in bianco e nero della folla che osannava il tiranno – e poi, quando gli era sembrato che poteva trattarsi di lui, aveva gridato il suo nome, alzato la mano che impugnava la pistola e fatto fuoco per tre volte.

Aveva raggiunto la strada senza ostacoli. Il buio come alleato. Non sapeva nemmeno dove stava andando, mentre si allontanava dal luogo dell’attentato. Fino a quando non sbatté contro un muro di corpi. Corpi di poliziotti.

Mi chiamo Fanni Kaplan. Oggi ho sparato a Lenin. L’ho fatto da sola. Non vi dirò chi mi ha procurato il revolver. Ho preso la decisione di uccidere Lenin molto tempo fa. Lo considero un traditore della Rivoluzione. Sono stata in esilio a Akatuy per aver partecipato ad un tentativo di assassinio di un funzionario zarista a Kiev. Sono stata undici anni in regime di lavori forzati. Sono stata liberata dopo la Rivoluzione. Ho appoggiato l’Assemblea Costituente e continuo ad appoggiarla.

La donna non aggiunse altro e si chiuse in un ostinato mutismo. La polizia, prima di consegnarla alla Cheka, la polizia segreta al servizio del Partito istituita dallo stesso Lenin meno di un anno prima e destinata a diventare in breve tempo tristemente famosa, notò i tratti dello psicopatico nel suo volto e qualcosa di estremamente indecifrabile nel suo sguardo.

Nei locali della Lubjanka, Fanni Kaplan ripeté per filo e per segno ciò che aveva dichiarato alla polizia. Nessun nome di complici, nessun dettaglio della sua vita, nessuna precisazione sull’attentato.

Ciononostante, gli agenti della Cheka riuscirono a risalire alla sua vera identità ed a ricostruire un’interessante, per loro, storia della sua esistenza.

Il vero nome della donna era, in realtà, quello di Feiga Jaimova Roitman.

Era nata il 10 febbraio del 1890, in una numerosa famiglia di origini ebraiche, nella città di Volinia, in Ucraina.

Da giovanissima aveva abbandonato il tetto natale per andare a lavorare come operaia in una fabbrica di Odessa. Là, era entrata in contatto e aveva cominciato a frequentare gli ambienti rivoluzionari. Si era innamorata di un bandito, uno che diceva di essere anarchico, di nome Viktor Garski.

Fu in quel movimentato periodo che decise di farsi chiamare Fanni, o Dora, Kaplan.

Nel 1906, la bomba che stava preparando insieme a due compagni, destinata ad uccidere il capo della polizia di Kiev, esplose uccidendo una cameriera.

Mentre i suoi complici venivano condannati a morte, Fanni, in virtù della sua giovane età, veniva sentenziata con la deportazione in Siberia.

Nel 1908, Fanni venne portata e rinchiusa nel campo di Maltsev, vicino ad una miniera d’argento dove lavoravano i deportati uomini.

Nel campo femminile vivevano una sessantina di donne, tutte prigioniere per reati riconducibili alla politica, e le condizioni erano relativamente buone se confrontate con quelle dei loro colleghi del sesso opposto.

Fu più o meno dopo un anno che Fanni cominciò ad accusare i primi seri disturbi alla vista. Un po’ per le conseguenze dell’esplosione nell’albergo, un po’ per il fatta che passava la maggior parte del tempo nell’oscurità.

Il peggioramento fu costante e veloce fino alla cecità e questo fatto indusse Fanni a tentare il suicidio, ma le sue compagne riuscirono a salvarla in tempo.

E proprio queste compagne di prigionia le diedero la forza per continuare ad andare avanti. Aiutandola a farcela da sola, nonostante la menomazione, guidandola nei primi passi della sua nuova vita, incitandola, insegnandole il braille.

Nel 1912, Fanni venne trasferita nella prigione di Akatuy dove un medico dell’infermeria prese a cuore il suo caso e la propose per essere curata finalmente in una clinica.

Al termine della terapia, Fanni era di nuovo in grado in grado di vedere, se non come prima, almeno per essere completamente autonoma. E venne rispedita nella prigione di Akatuy.

A migliaia di chilometri di distanza , intanto, il mondo era sconvolto dalla più grande guerra mai vista che, naturalmente aveva coinvolto il grande impero zarista.

I rovesci degli eserciti russi, gli inauditi massacri di gente mandata al macello, i tumulti nelle città e nelle campagne per la fame e per le condizioni di vita, ed altro ancora, avevano portato a quella che sarebbe passata alla storia come Rivoluzione di Febbraio, nell’anno 1917.

Ma nonostante tutto, la guerra era continuata.

Nel marzo di quell’anno, Lenin andò incontro al suo destino su un treno che, dopo 17 anni di esilio in Svizzera, lo riportò sul suolo della terra che lo aveva visto nascere.

Nel frattempo, Fanni era stata rimessa in libertà insieme alle sue compagne grazie al decreto di amnistia per i reati politici promulgato dal governo provvisorio.

Con una sua amica del campo di prigionia, andò ad occupare una stanza in un appartamento di Mosca, con la ferma intenzione di ricominciare a vivere.

Ricominciò a frequentare gli ambienti rivoluzionari che ormai agivano alla luce del sole, e non come quando li frequentava lei, ma questa volta venne attratta da quelli del Partito Socialista Rivoluzionario.

I suoi problemi con la vista non erano, però, finiti ed in breve Fanni fu costretta a cercare una clinica in cui la potessero curare.

Si trasferì così in Crimea e poi a Jarkov, dove incontrò di nuovo il suo vecchio amore Victor. Tentarono di stare insieme ma, come era inevitabile, erano tutti e due profondamente cambiati. Victor non era più quell’affascinante bandito anarchico. Durante gli anni che aveva passato in carcere, si era avvicinato ai bolscevichi fino ad entrare nei quadri del Partito.

La storia non funzionò e Fanni raggiunse Semferopoli, dove aveva sede il quartier generale dei socialisti-rivoluzionari. Le venne assegnato un lavoro di ufficio nel municipio della città.

Quando l’Armata Rossa conquistò la roccaforte dei socialisti-rivoluzionari, nel marzo del 1918, Fanni si diede alla fuga.

Di lei, non si ebbero più notizie fino al giorno dell’attentato, sebbene sia abbastanza verosimile che si sia recata clandestinamente a Mosca proprio con quel proposito.

Lenin sopravvisse, ma non per molto, ed è opinione diffusa che le ferite procurate dai colpi della Kaplan abbiano contribuito in modo non secondario alla sua prematura morte per infarto cerebrale, secondo la versione ufficiale, il 21 gennaio del 1924.

Fanni Kaplan fu fucilata senza alcun tipo di processo il 3 settembre successivo all’attentato. Cercò di guardare le bocche dei fucili puntate contro di lei. Non ebbe paura, era già preparata per l’oscurità.

Due giorni dopo l’esecuzione, il governo bolscevico emise il decreto che portò all’eliminazione di ogni forma di dissenso all’interno del fronte rivoluzionario, periodo che, più tardi, venne chiamato col nome di “terrore rosso”.