MEGLIO I BARBITURICI [1923]

Di qualcosa si dovrà pur morire, si dice. Ma c’è anche chi, in un determinato momento della sua vita, pensa di scegliere quel qualcosa.

Tanti tra quelli che decidono di porre termine alla propria esistenza, prima o poi, pensano anche al come farlo. La causa autoindotta della propria morte.

Veronal [Treccani,1937]

-Acido dietil-barbiturico, Sedival. Fra i numerosi dall’acido barbiturico esso è il più noto e importante per le sue applicazioni terapeutiche (…).

Farmacologia – Con dosi relativamente piccole [da gr. 0,50 a 1 gr.] s’ottiene nell’uomo l’azione ipnotica dovuta alla diminuita eccitabilità dei centri medioencefalici e a dosi maggiori anche dei centri corticali (…).

Frequentissimi sono oggi gli avvelenamenti da veronal a scopi suicidi. L’esito più comune è la morte che, di solito per una dose di 10 gr., avviene entro le 24 ore preceduta da confusione mentale, diplopia, disartria, allucinazioni e coma.

Ovviamente, ognuno pensa e, di conseguenza, sceglie ciò che più ha quotidianamente sottomano. Questo se l’aspirante suicida ha il tempo di pensare.

Germaine Berton aveva vent’anni quando puntò la pistola contro se stessa. Non sarebbe stata, però, l’ultima volta.

Nata nel 1902 a Puteax, una piccola cittadina vicino Nanterre, probabilmente, la svolta nella vita di Germaine si era prodotta con la morte dell’adorato padre, quando non aveva che sedici anni. Arsène Berton di mestiere faceva il meccanico e aveva introdotto la figlia alle idee socialsite.

Germaine, che già lavorava come operaia nella fabbrica Rimailho di Saint-Pierre-des-Corps, era iscritta al sindacato e partecipava attivamente alle lotte dei lavoratori.

Rimasta sola con la madre, una fervente cattolica, Germaine aveva cominciato a diventare sempre più inquieta fino a che non aveva deciso di trasferirsi a Parigi.

Nella capitale aveva conosciuto gente molto più interessante ed originale, molto vicina a quello che sentiva dentro di sè e che non sapeva esprimere, gente pericolosa, arrabbiata, eccentrica. Era entrata in contatto con gente che professava l’anarchia.

Ben presto Germaine si era messa a frequentare l’ambiente degli anarchici individualisti dei quartieri della République e di Montmartre, quartieri dimenticati da Dio e dallo Stato, quartieri senza acqua corrente e con bagni pubblici aperti una volta a settimana.

Germaine viveva vagando in hotel malfamati. Campava di piccoli furti, pochi spiccioli recuperati in rapide incursioni nelle zone “alte”, di occasionali lavori malpagati e della generosità dei compagni.

Era stata arrestata una prima volta per oltraggio a pubblico ufficiale, facendosi tre mesi di prigione. Poco dopo, l’avevano arrestata di nuovo, per possesso di armi – in realtà, un coltello da cucina nascosto nel vestito e, forse, un po’ troppo affilato. Altri quindici giorni di gattabuia.

Germaine aveva voglia di vivere. Aveva fretta. Ed era arrabbiata.

Non che al tempo non ci fossero motivi per essere arrabbiati. Una carneficina lunga cinque anni si era appena consumata e mezzo mondo era in agitazione.

Motivi per odiare

L’Action Française era un movimento politico d’ispirazione patriottica fondato nel 1899 sull’onda dell’affaire Deyfrus, che ben presto, sotto l’influenza di Charles Maurras si era schierato a favore di un ritorno alla monarchia. Nel suo ambito, durante il 1908, erano nati i Camelots du Roi, formati da giovani dediti alla propaganda e, soprattutto, alla violenza di strada.

I motivi per odiare l’Action Française, oltre che ovviamente ideologici, erano molti e Germaine li esporrà con lucidità durante il processo. Il movente principale, però, risaliva direttamente al 31 luglio del 1914, quando uno studente ultranazionalista, tale Raoul Villaine, fomentato dalla infamante campagna portata avanti da quelli dell’Action Française, in un caffé di Montmartre, aveva ucciso uno dei capi del partito socialista, e convinto pacifista, Jean Jaurès. Il fatto aveva scosso il paese intero, inclusa la piccola Germaine, ma l’emozione era durata lo spazio di tre giorni. Poi, il governo aveva diramato l’ordine di mobilitazione generale e la Francia, così come buona parte del mondo, era stata risucchiata in quell’incubo che sarebbe stato chiamato Grande Guerra.

Raoul Villain aveva dovuto aspettare che tornasse la pace per avere il suo processo e, incredibilmente, il 29 marzo 1919, la corte aveva assolto il reoconfesso e aveva condannato la vedova Jaurès a pagare le spese processuali.

L’allora rpimo ministro Georges Clemenceau, da parte sua, aveva così commentato la sentenza:

Un avvenimento provvidenziale ebbe luogo nel luglio del 1914. voglio parlare dell’assassinio di Jaurès. Non sto scherzando, perché se avessimo avuto Jaurès durante la guerra, non avremmo mai potuto vincere. Per la stupidità dei suoi discorsi, avrebbe disarmato le nostre truppe e fatto il gioco dei tedeschi (…).

Ecco chi era Jaurès … un pericoloso imbecille. Lo ripeto, il suo assassinio fu una fortuna per la Francia …!”

Il 22 gennaio 1923, Germaine Berton si recò in rue de Rome e entrò nella sede di Action Française con l’intenzione di uccidere Léon Daudet, leader del movimento, che però al momento non era presente nell’edificio.

Germaine, qualche giorno prima, aveva lasciato una lettera indirizzata a Daudet in cui affermava essere in possesso di importanti informazioni riguardanti gli anarchici. Venne allora ricevuta da Marius Plateau, tesoriere e capo dei giovani Camelots du Roi. Dopo averlo insultato, Germaine gli sparò diversi colpi di revolver, uccidendolo. Poi rivolse l’arma contro di se e fece fuoco.

Mancò il bersaglio, producendosi solo una leggera ferita al petto. Uno sbaglio che doveva rimpiangere in seguito per lunghi anni.

La sera, mentre Germaine veniva trasportata in ospedale, dove rimase alcuni giorni prima di essere trasferita in carcere, quelli dell’Action Française sfogarono la loro rabbia assaltando le sedi di alcuni giornali di sinistra e libertari.

Una serie di inquietanti suicidi

Germaine Berton, come abbiamo visto, era ben nota alla Surété, e noti erano i suoi legami e le sue amicizie. Le perquisizioni ed i fermi, quindi, scattarono praticamente fin da subito. Gli agenti si presentarono nella sede di Le Libertaire e al domicilio di vari compagni e conoscenti dell’attentatrice.

La polizia, però, ci mise due settimane prima di andare a bussare alla porta di un alberghetto situato al numero 8 di rue Lecuyer. Là abitava un membro dell’Union Anarchiste, tale Gohary, che aveva ospitato Germaine per due settimane nel dicemdre precedente.

Gli agenti bussarono a più riprese alla porta senza ottenere risposta poi decisero di forzare la serratura e penetrare all’interno della stanza. L’anarchico era lì, ma con un buco nella testa. Ai piedi del cadavere, un revolver. Il caso fu in breve archiviato come suicidio.

Forse Gohary aveva paura di essere implicato nell’omicidio Plateau e l’aveva fatta finita prima di essere rintracciato. O forse, aveva avuto paura dei suoi stessi compagni visto che, si insinuò, tutti erano stati fermati dalla polizia tranne lui e, sempre forse, qualcuno poteva essersi messo in testa che fosse un informatore.

Poco tempo dopo, venne rinvenuto un altro cadavere, un altro uomo che si era sparato in testa. Solo che questa volta non si trattava di un sovversivo. Il suo nome era Joseph Dumas e non era neanche una persona qualunque. Dumas era uno degli alti ufficiali di polizia incaricati di indagare su Germaine Berton e l’omicidio. Sul caso calò, fin da subito, un pesante silenzio.

Philippe Daudet, invece, scomparve di casa il 20 novembre 1923. L’intenzione del quattordicenne figlio di Léon Daudet era quella di lasciare la famiglia e il paese stesso per sempre. Per questo aveva rubato un po’ di soldi ai genitori e aveva preso un treno con destinazione Le Havre. Da lì avrebbe voluto prendere una nave che lo avrebbe portato in Canada, ma i soldi che aveva preso non bastavano e l’imbarco gli venne rifiutato.

A Philippe non rimase che riprendere un treno per Parigi. Pare che, durante il viaggio, il ragazzo facesse la conoscenza di qualcuno che gli regalò una pistola senza munizioni.

Invece di tornare in famiglia, Philippe si recò nei locali di Le Libertaire. Georges Vidal, l’amministratore del foglio anarchico, parlò con il giovane che vaneggiava il proposito di uccidere uno tra Millerand (presidente della repubblica), Poincaré (presidente del consiglio) e suo padre. Dopo averlo calmato, Vidal lo affidò alle cure di un compagno dal quale passò la notte. In quelle ore, Philippe confessò tutta l’infelicità della propria vita, con il padre che lo puniva per ogni cosa e lo picchiava, confessò di sentirsi anarchico da sempre ma di non aver mai avuto il coraggio di dirlo a qualcuno.

Il giorno dopo, l’adolescente entrò nella librería di Le Flaoutter, un anarchico che era stato sentimentalmente legato a Germaine ma che più tardi si scoprì essere informatore della polizia, al quale ripetè l’intenzione di portare a termine un omicidio. E Le Flaoutter gli diede quei proiettili cha mancavano alla sua arma. Philippe uscì dalla librería e chiamò un taxi.

Un taxi con ultima fermata l’ospedale di Lariboisière. Philippe venne scaricato lì, come un pacco, con una ferita da arma da fuoco alla testa.

Il cadavere venne infine identificato dalla madre, che da qualche giorno vagava cercando il figlio misteriosamente scomparso.

Le indagini della polizia presero fin da subito la pista del suicidio. Il terzo, in meno di un anno, legato al crimine perpretato da Germaine.

Secondo la versione ufficiale, assecondata dalla formale dichiarazione del tassista, mentre la vettura passava davanti al carcere dove era rinchiusa la giovane anarchica, Philippe aveva preso la sua pistola e si era sparato un colpo alla testa.

A cosa pensava Germaine?

Al suicidio, ci pensava, senza dubbio. Ripensava a quando aveva rivolto la pistola che aveva appena ucciso Plateau verso di sè. Un gesto istintivo. Ci sarebbero stati altri tre morti, se non avesse fallito quella sua opportunità?

Suicidio?

No. Léon Daudet non ci poteva proprio credere.

Sembrava essersi arreso, almeno all’inizio, davanti all’evidenza. Erano state ritrovate tre lettere dell povero Philippe, in cui si annunciava, nemmeno tanto tra le righe,l’intenzione di farla finita. Una di queste era stata pubblicata anche da Le Libertaire.

Eppure, c’era qualcosa che non quadrava. Il grande capo del movimento nazionale non poteva accettare che suo figlio avesse deciso di sua spontanea volontà, anche per il fatto che si sarebbe dovuto chiedere il perché.

E così, mentre le pagine di Action Française vomitavano offese sulla giovane sovversiva e tentavano di indicare i responsabili che ne avevano armato la mano, poiché non si riteneva possibile che una donna potesse essere capace di un simile gesto, Daudet si buttò a capofitto ad indagare sulla morte del suo Philippe. Indagini che lo porteranno ben presto a scoprire non poche contraddizioni nelle dichiarazioni del tassista e nelle prove portate a dimostrazione della tesi del suicidio. Un anno dopo il fatto, Daudet presenterà un esposto per riaprire il caso di suo figlio accusando di omicidio tre uomini della Surété e il libraio Le Flaoutter. Il ricorso sarà respinto due volte dal giudice e Daudet, preso dalla disperazione e condannato per diffamazione dall’autista del taxi Bajot, arriverà a barricarsi nel suo ufficio armi in pugno per resistere all’arresto, arrendendosi dopo qualche ora.

Questa è una donna?”

Intitolava così il giornale Action Française il 19 dicembre 1923 all’apertura del processo per omicidio contro Germaine Berton.

La donna venne difesa dal celebre avvocato progressista Henry Torrès che, lungi dal farne un caso politico, puntò tutto sul precedente dell’assoluzione di Raoul Villain.

Germaine ammise senza problema alcuno la responsabilità del suo gesto, spiegando anche i motivi che l’avevano spinta a tanto.

Non c’era molto da discutere e, infatti, la corte si ritirò per deliberare dopo appena cinque giorni. A conferma di ciò, la comunicazione che la decisione era stata presa, arrivò dopo quindici minuti.

Il verdetto fu di proscioglimento.

Cosa provò a quelle parole, Germaine?

Libera, a meno di un anno da quel giorno di gennaio. Con la morte nel cuore. I compagni che l’aspettavano festanti fuori dal palazzo di giustizia.

La prima cosa che fece nella sua prima ora di libertà, fu quella di recarsi nel luogo in cui era sepolto il corpo di Philippe Daudet. Quando, in carcere, aveva saputo ciò che era successo al giovane, Germaine era riuscita ad inviare una carta alla madre restata il figlio per farle sentire tuta la propria vicinanza.

Era depressa, Germaine. Non riusciva a non pensare a Philippe e al suo suicidio.

Quelli di Le Libertaire, anche per farla uscire dallo stato in cui era caduta, gli proposero allora di partire per un giro di conferenze di propaganda e lei accettò.

Il tour fu disseminato di incidenti e disordini, come forse si poteva preventivare, per toccare il suo culmine il giorno 22 maggio a Bordeaux. Là si erano radunate all’incirca 1.500 persone per sentirla parlare ma la polizia aveva deciso che, quella sera, non ci sarebbe stata nessuna conferenza. Seguirono, inevitabili, gli scontri. La guerriglia si protrasse fino alle due di notte con un bilancio di 150 arresti tra cui, naturalmente, anche Germaine.

Accusata di porto di armi proibite, minaccie e oltraggio a pubblico ufficiale e incitamento alla rivolta, venne condannata a quattro mesi di prigione, la pena più alta tra tutti coloro che erano stati arrestati. A quel punto, iniziò uno sciopero della fame che la portò, ancora una volta, vicino alla morte.

Qualche mese dopo, sempre Le Libertaire, in un articolo, svelò Germaine, dalla sua uscita dal carcere, aveva già tentato due volte il suicidio – una volta la pistola si era inceppata, un’altra il veleno che aveva ingerito non aveva avuto l’effetto sperato. L’articolo diceva anche che la ragazza andava in giro con al collo un medaglione che racchiudeva la foto di Philippe Daudet e che, in uno di questi tentativi, aveva mandato un biglietto alla madre del giovane: “Philippe è morto a causa mia, io oggi muoio per lui”.

Fate spazio all’avanguardia!

Nel dicembre del 1924 uscì il primo numero della rivista di un gruppo d’avanguardia che era un discendente diretto dello scandaloso dadaismo. Il foglio si intitolava La Révolution Surréaliste e era stato fondato, tra gli altri, da André Breton, Louis Aragon, Benjamin Peret e Pierre Naville.

I cosidetti surrealisti presero Germaine e la proclamarono come una loro eroina.

Aragon, che diventerà in seguito uno stalinista di ferro, aveva già scritto su di lei, quando era in prigione, rivendicando la nobiltà del gesto di Germaine, la difesa dell’individuo, la rivolta contro chi minaccia la libertà, il “ricorrere a mezzi terroristi, in particolare all’omicidio, per salvaguardare, con il rischio di perdere tutto, ciò che per lei – a torto o a ragione – ha di più prezioso aldilà di tutto”.

I surrealisti erano accorsi tra la folla che l’aspettava il giorno della sua liberazione. Avevano con loro una grande corona di fiori con un’iscrizione: “A Germaine Berton, che ha fatto ciò che noi non abbiamo saputo fare”.

Sul primo numero di La Révolution Surréaliste c’era la foto di lei – al centro della pagina – circondata dalle facce di questi uomini, i surrealisti, con in fondo, a chiudere tutto, una citazione di Baudelaire: “La femme est l’être qui projette la plus grande ombre ou la plus grande lumière dans nos rêves”.

Ma dopo l’episodio di Bordeaux, Germaine cominciò a farsi vedere sempre meno.

Era depressa, forse, ma voleva ostinatamente continuare a vivere – cercava qualcosa che si può anche chiamare pace. E una cosa del genere, la puoi trovare nell’amore, sempre forse …

Germaine si sposò con il pittore olandese Paul Burger. Era il 17 novembre 1925.

I due andarono a vivere in Germania, lontani dalle luci della ribalta che lei attirava inevitabilmente su di sè.

Si sa poco del periodo passato in terra tedesca, all’incirca dieci anni, e della sua vita matrimoniale, se non che Germaine si appassionò e si mise a studiare l’esoterismo, Jung e Nietzsche. Si mise anche a scrivere una tormentata autobiografia, che non sarà mai pubblicata, dal titolo La dionysaque d’Unan, in cui il fantasma di Philippe Daudet tornava a più riprese. Si descriveva un amore che stava lì nella sua testa – Germaine e Philippe – una storia mai accaduta eppure così reale – per le strade di Montmartre tenendosi per mano, baci e carezze nelle camere di alberghi sgangherati, lui che le sussurra all’orecchio dolci poesie …

Un’idea che andava comunque a braccetto con quella del suicidio.

Germaine, in seguito alla rottura con Burger, fece il suo ritorno a Parigi dove si legò allo stampatore René Coillot.

La depressione, però, viaggiò con lei e l’accompagnò durante il suo nuovo soggiorno parigino. Dopo essere stata salvata una volta all’ultimo momento da Coillot, Germaine riuscì finalmente a coronare la sua intenzione ingerendo una forte dose di Veronal. La corsa all’ospedale Boucicant fu del tutto inutile. Germaine trovò la propria morte il 4 luglio 1942 e, davvero, a quei tempi, vivere forse non valeva proprio più la pena.