MORTE AI BORGHESI! Capitolo II

CAPITOLO II – IO NON SONO UN LADRO

[in memoria di Clément Duval]

Una mezza manciata di anarchici

La borghesia potrà dormire sonni tranquilli fino a che non dovrà fare i conti che con la “dinamite” e con i “plotoni d’esecuzione” di una mezza manciata di anarchici”.

Con queste parole, il socialista Jules Guesde aveva ironizzato su L’Égalité del 28 luglio del 1880, commentando un congresso avvenuto a Parigi in quell’epoca in cui erano presenti sia i membri del suo partito che gli anarchici.

Eppure, dopo soli cinque anni, la mezza manciata di anarchici non sembrava più tale.

Vari circoli e gruppi di militanti libertari erano nati in tutti e venti gli arrondissement di Parigi e in alcune delle sue banlieues, e nelle principali città del paese.

Anche la stampa militante, sia come numero di testate sia come tiratura, era notevolmente cresciuta.

Importante per il movimento, fu il trasferimento a Parigi nell’aprile del 1885 di una delle prime testate dell’anarchismo, Le Révolté, fondata sei anni prima a Ginevra da Kropotkin, François Dumartheray e Georges Herzig, all’epoca ormai totalmente affidata nelle mani del francese Jean Grave.

Calzolaio autodidatta nato nel 1855, Jean Grave era figlio di un comunardo e, durante quei due gloriosi mesi, aveva assistito alle riunioni dei blanquisti. Nel 1874, per colpa della tubercolosi, aveva perso la madre e la sorella, poi, dopo due anni, era morto anche il padre.

Il 21 ottobre 1882, Grave era stato arrestato, insieme ad Arsène Crié, nel quadro dell’inchiesta su La Bande Noire, ma era stato quasi immediatamente rilasciato.

Nell’autunno del 1883, c’era stata la svolta della sua vita. Elisée Reclus lo aveva invitato a raggiungere Ginevra dopo aver letto alcuni articoli che il giovane aveva inviato a Le Révolté.

Quello che doveva essere un soggiorno di sei mesi, si era trasformato in una residenza di quasi due anni.

In Svizzera, Grave aveva appreso il mestiere di tipografo ed era stato, praticamente, a scuola di anarchismo con i vecchi membri della Federazione del Giura, nucleo originario della successiva Internazionale libertaria.

Nel giro di poco tempo, il giovane era diventato indispensabile per le sorti di Le Révolté, assicurando la redazione, l’amministrazione e la composizione del giornale.

A fronte dei continui interventi dello stato elvetico per limitare la distribuzione del periodico, era stato deciso di trasferire la redazione in Francia.

A Parigi, Grave stabilì gli uffici del giornale al numero 140 di rue Mouffetard, nel V arrondissement.

Il primo numero dell’edizione francese uscì quindi il 12 aprile del 1885. all’epoca, Le Révolté era un bimensile ed aveva una tiratura di circa 2.000 copie.

In due anni, però,l’ambiente anarchico parigino era molto cambiato e Grave non avrebbe tardato ad accorgersene.

Due articoli anonimi pubblicati su Le Révolté quella stessa estate, “Les Voleurs” (i ladri) e “La Morale”, gli misero contro quella parte che credeva fermamente nell’individualismo e nell’azione illegale.

Da lì a poco, una nuova tragedia doveva toccare Jean Grave. In ottobre, la sua giovane moglie, Clotilde Benoît, morì in conseguenza del parto, seguita qualche giorno dopo, dalla figlia che aveva appena messo al mondo.

Grave rimarrà sempre legato alla famiglia di lei e considererà i nipoti alla stregua di figli propri.

Jean Grave

Superato il lutto, Grave si rimise al lavoro sul giornale facendone una vera e propria ragione di vita.

Nel maggio del 1886, Le Révolté divenne settimanale e, in poco tempo, se ne arrivò a stampare, alla fine del 1887, 8.000 copie.

Condannato ad una forte multa per una lotteria non autorizzata, per sfuggire all’ammenda, fu cambiato il nome della testata in La Revolte.

Il giornale ebbe una vita eccezionalmente lunga, attraversando un’epoca fino al suo tramonto.

Jean Grave aggiunse anche un supplemento letterario a cui collaborarono scrittori come Octave Mirbeau, Zo d’Axa, Georges Darien e pittori e illustratori come Paul Signac, Pissarro e Maximilien Luce.

Diventato il periodico di riferimento del movimento, La Revolte si attirò per contro anche non poche critiche.

Fedele custode dell’ortodossia delle dottrine anarchiche, Jean Grave diffidava di ogni idea o teoria che non ricadesse in tutto ciò che aveva appreso nel suo periodo ginevrino, tanto da guadagnarsi ironici appellativi quali “il papa di rue Mouffetard” o “padre La Morale” da parte di Charles Malato o di circoli inclini all’illegalismo e alla propaganda con il fatto come La Panthère des Batignolles, del XVIII arrondissement.

Ciò che alla fine gli si rimproverava, a lui e a tutto l’ambiente che gravitava attorno a La Revolte, era di essere tanto intransigente nella teoria quanto addormentato in ciò che riguardava la pratica.

Ma, a Parigi, c’era chi faceva esattamente il contrario. Poche parole e molta azione.

200 GRAMMI DI ACIDO CIANIDRICO

la polizia era venuta a conoscenza che un fatto del genere sarebbe potuto succedere.

Non sapevano che fatto di preciso, ma sapevano chi ne sarebbe stato l’autore.

Qualche mese prima, l’ultimo protettore di un ragazzo abbandonato fin dalla nascita dalla sua giovane madre si era presentato alla polizia di Rouen, dicendosi molto preoccupato per i discorsi e i comportamenti del “ragazzo”, che lui definiva evidentemente anarchici, e denunciando il proposito del suo assistito di commettere un attentato.

Il ragazzo in questione si chiamava Charles Gallo, nato il 7 febbraio 1859 a Palais, Morbihan, da padre sconosciuto e con la madre che lo aveva lasciato non appena dato alla luce. Una situazione non certo così rara per quei tempi.

Il piccolo Charles era cresciuto grazie a dei caritatevoli tutori o protettori di Rouen. Nessuna di queste persone se ne era mai lamentato, anzi. Il bambino si era mostrato subito molto intelligente e interessato allo studio.

Charles, appena poco più che adolescente, aveva trovato degli impieghi più che rispettabili per uno dalle così umili origini. Insegnante aggiunto in una scuola, commesso negli uffici giudiziari, impiegato.

Sarebbe stata forse una di quelle vite normali, tranquille, quiete, della piccola borghesia francese, di chi pensava di avercela fatta almeno ad evitare la disperata miseria di chi li circondava, se non fosse stato che, nel 1879, lo avevano arrestato per fabbricazione di moneta falsa.

Che l’accusa fosse vera o meno, Gallo si era buscato cinque anni di carcere.

Uscito dal carcere, aveva ormai venticinque anni. Il protettore di Charles era convinto che, durante quel lungo periodo, si fosse convertito alla religione protestante. Il buon uomo, sapendo che restare a Rouen sarebbe stata dura, aveva procurato al giovane un posto da tipografo a Nancy.

Nell’aprile del 1885, Charles si era quindi trasferito. Secondo un rapporto della polizia risalente a quei primi mesi, Charles “studiava molto … passava le sue serate nella biblioteca della città … spendendo tutto il suo stipendio nell’acquisto di libri politici e parlando spesso di Kropotkin”.

Charles aveva anche fondato un circolo di studi sociali con una dozzina di aderenti. Era abbonato ai giornali anarchici La Guerre Sociale e Cri du Peuple. Parlava ormai correttamente l’inglese e il tedesco e stava studiando l’ebraico.

Quando il protettore era andato a trovarlo a Nancy, non aveva potuto credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Tutti quei di scorsi che Charles gli aveva rifilato, sulla libertà, sull’eguaglianza. E tutte quelle citazioni di autori sconosciuti in lingue straniere. E che si fosse messo a studiare chimica con, come dire, accanimento. E, soprattutto, quell’insistere sul dover fare qualcosa, qualcosa di clamoroso …

Tutto ciò lo aveva convinto a recarsi alla polizia.

Charles Gallo prese il treno da Nancy per Parigi il 16 febbraio del 1886.

Una volta arrivato, si recò al palazzo della Borsa, salì nelle gallerie superiori e, da lì, lanciò nel mucchio degli agenti sottostanti una bottiglietta contenente 200 grammi di acido cianidrico.

Il vetro esplose. Una fiammata e un piccolo fumo bianco. E il panico tra gli addetti ai lavori ed il pubblico.

Ma l’esplosione che avrebbe dovuto uccidere, non si era prodotta.

Charles estrasse allora un revolver e sparò tre colpi verso la folla sotto di lui.

Colpi che non raggiunsero nessuno.

Prima che la polizia lo immobilizzasse, tentò di sparare ancora, ma quel vecchio arnese che aveva preso non si sa dove, si rifiutò di fare nuovamente fuoco.

Attentato alla Borsa di Parigi

Charles comparve una prima volte davanti alla corte d’assise della Senna in giugno.

Cacciato via per intemperanze, uscì gridando “Viva la Rivoluzione Sociale! Viva l’Anarchia! A morte i giudici borghesi! Viva la dinamite!”.

Lo riportarono in giudizio il 15 luglio. Charles, questa volta, non fece alcun tentativo di difendersi e rivendicò l’atto.

Volevo uccidere quanti più strozzini fosse possibile che erano lì. Uccidere i miserabili che speculano sulla miseria pubblica.

Sfortunatamente, non ho ucciso nessuno”.

Charles Gallo venne condannato a venti anni di lavori forzati e imbarcato su una nave con destinazione Nuova Caledonia agli inizi di dicembre.

IN CUOR MIO, NON VI PERDONO

Clément Duval era uno dei principali animatori di quel circolo La Panthère des Batignolles che criticava le posizioni di La Revolte e del suo gerente, Jean Grave.

Nato nel 1850 nella Sarthe, Duval, come molti della sua generazione e nella sua condizione, aveva avuto una vita alquanto disgraziata.

Arruolato in fanteria a venti anni, aveva combattuto durante la guerra franco-prussiana ed era stato ferito dall’esplosione di una granata, costringendolo ad una degenza di sei mesi in ospedale al termine dei quali era stato reintegrato nel suo reparto.

Duval aveva rivestito gli abiti civili ed era tornato a Parigi nel 1873. ma non era stato un ritorno felice. La sua giovane moglie, nel frattempo, si era trovata un altro uomo.

Ne erano seguiti 14 strazianti mesi di litigi e di scenate alla fine dei quali i due erano tornati ad essere una coppia.

La vita era dura. I due vivevano in un tugurio. Duval aveva trovato lavoro come meccanico in una fabbrica. Quattordici ore al giorno per uno stipendio da fame. Ma il peggio doveva ancora venire.

Poco tempo dopo, nel 1876, Duval aveva cominciato ad avere fortissimi attacchi di reumatismi, conseguenza della ferita di guerra, che lo avevano costretto a letto per lunghissimi periodi.

Naturalmente, per questo motivo, aveva perso il lavoro ed il già fragile rapporto con sua moglie era nuovamente peggiorato.

Un giorno del 1878, Duval vagava per la città in cerca di un impiego, in preda alla disperazione. Per caso, era passato davanti alla biglietteria della stazione dei treni e, vedendola momentaneamente incustodita, aveva allungato la mano e rubato quello che aveva trovato nella cassa.

Tempo dopo, era tornato nello stesso luogo per ripetere il colpo. Ma questa volta, non aveva avuto la stessa fortuna. Arrestato, era stato condannato ad un anno di carcere a Mazas.

Una volta uscito, aveva scoperto che sua moglie se ne era andata, questa volta per sempre.

La disperazione, a questo punto, si era trasformata in rabbia.

Clément Duval aveva cominciato a frequentare gli ambienti anarchici della capitale e a fare propaganda fuori dalle fabbriche.

Insieme ad una dozzina di altre persone aveva fondato il circolo La Panthère des Batignolles, un gruppo molto radicalizzato se si pensa che nella loro prima riunione si era discusso su come confezionare bombe a mano.

Il problema restava sempre quello del finanziamento per la propaganda e gli altri strumenti necessari alla rivoluzione.

Era stato questo il motivo che aveva spinto Duval e i suoi amici al furto. Andare a riprendersi quel denaro che, come lavoratori, sentivano gli era stato sottratto dai ricchi possidenti. Colpi studiati nei dettagli e non improvvisati come quello che era costato a Duval un anno dietro le sbarre.

Il 15 ottobre 1886, un incendio devastò l’abitazione privata di una ricca signora, Madame Herbelin, in rue de Monceau, nel XVIII arrondissement.

La polizia accertò che erano stati portati via tutti i gioielli e l’argenteria della casa che in quel momento era disabitata e che, molto probabilmente, le fiamme erano state appiccate intenzionalmente dagli stessi ladri.

Dieci giorni più tardi, durante una perquisizione a casa di un ricettatore di nome Didier, gli agenti trovarono in quel luogo Duval.

Tentando di immobilizzarlo, il sergente Rossignol esclamò:

Ti arresto, in nome della legge!

Tirando fuori un pugnale, Duval gli rispose prontamente:

E io ti uccido, in nome della libertà!

Non evitò comunque l’arresto, mentre il poliziotto se la cavò con qualche ferita superficiale.

Clément Duval

Chiamato a rispondere di furto e incendio, oltre che tentato omicidio di pubblico ufficiale, l’11 febbraio del 1887, Duval si spogliò dei panni dell’imputato per indossare quelli dell’accusatore, in un celebre discorso davanti alla corte.

Non sono un ladro ne’ un assassino: sono semplicemente un ribelle. Non vi riconosco il diritto di interrogarmi, perché qui, sono io l’accusatore.

Accuso questa società matrigna e corrotta, in cui l’orgia, l’ozio e la rapina trionfano impuniti e anzi venerati, sulla miseria e sul dolore degli sfruttati. Voi cianciate di furti, voi mi chiamate ladro come se un lavoratore che ha dato alla società trent’anni della sua avvilente fatica per poi non avere neppure il pane per sfamarsi, un cencio per coprirsi, un canile in cui rifugiarsi, potesse mai essere un ladro. Voi sapete bene che mentite, voi sapete meglio di me che e’ furto lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che se al mondo vi sono dei ladri, questi vanno cercati tra coloro che oziando gozzovigliano a spese dei miserabili, i quali producono tutto, con le proprie mani martoriate.


Voi stessi sareste capaci di condividere ciò che sto per dirvi: che scopo dell’essere umano è la libertà e il benessere. Ma la prima non può trionfare se non grazie alla rivolta contro chi devasta la civile convivenza perseguendo soltanto il proprio profitto, e il secondo si realizzerà soltanto con la violenta distruzione degli intollerabili privilegi di un’oligarchia razziatrice.

E’ per questo che sono anarchico. Perché ho il diritto di essere libero riconoscendo come limite alla mia libertà la libertà altrui. E ho consacrato ogni mio pensiero, ogni mia parola e ogni mio sforzo, tutta la vita, a debellare i vostri insani principi di autorità e proprietà, aspirando a distruggere il vecchio ordine sociale, perché non ritengo assurdo ne’ utopico che dalle nostre menti, dai nostri cuori e dalle nostre braccia possa scaturire un mondo migliore, dove libertà e benessere siano il frutto dell’eguaglianza e dell’armonia, in una società che bandisca lo sfruttamento e persegua le regole della solidarietà e della reciprocità, in nome del rispetto della vita umana che voi, difendendo i più sordidi interessi delle classi privilegiate, soffocate con leggi che insegnano e propagano il disprezzo e la sopraffazione.

Sareste così temerari da negare tutto ciò?

A smentirvi basterebbero le brutali statistiche delle quali cito qualche esempio: nelle fabbriche di vernici o di specchi, i lavoratori sono avvelenati dai sali di piombo e di mercurio, falciati a migliaia nel vigore degli anni, quando sappiamo che la scienza ha dimostrato che questi micidiali sistemi di produzione potrebbero, con poca spesa e minimo sacrificio, essere sostituiti da metodi e prodotti inoffensivi. Le fabbriche di giocattoli intossicano con eguale disinvoltura gli operai che li confezionano e i bambini a cui sono destinati, per non parlare delle miniere, bolge orrende dove migliaia di disgraziati, estranei al mondo, al sole, a un barlume di affetto, sono destinati all’abbrutimento per fare la fortuna di un ignobile pugno di parassiti. Tutto il vostro sistema di produzione e’ un insulto alla vita, e un crimine contro l’umanità.

E lo sfruttamento dell’uomo non e’ ancora il più feroce e cinico: che dire dello sfruttamento della donna, verso la quale la vostra società e’ addirittura più spietata?

Oh, io le ho viste, e tante, gagliarde, nel fiore della giovinezza, piene di salute, arrivare dalle campagne avare alla città piovra. Rideva nei loro occhi la speranza, con sana freschezza nutrivano la fiducia di giungere finalmente nella terra promessa del lavoro, della prosperità, del benessere. Le ho riviste qualche tempo dopo, uscire dai vostri ergastoli senz’aria e senza luce che chiamate fabbriche, lavorando dieci, dodici o quattordici ore per il pane, sognando un’agiatezza che l’onesta fatica non concederà mai, le ho riviste anemiche, stanche, esauste, nauseate da un lavoro schiavista e dal vostro cinismo. Le ho riviste a tarda notte nelle taverne dei sobborghi, sul lastricato, tra le pozzanghere, guadagnarsi il pane e un rifugio ricorrendo al più umiliante mercimonio. Le ho riviste nelle celle delle gendarmerie, schedate, bollate dal marchio dell’infamia, queste poverette che la vostra società ipocrita relega al margine. Le ho viste intristirsi, inasprirsi sotto la sferza della fatica e della miseria, non credere più nella vita, non credere più nell’avvenire, non credere più nell’amore, proprio loro che all’amore si erano concesse sorridendo e avevano salutato la nuova culla con lacrime di gioia. E sotto quell’accidia ho visto germinare le delusioni che si trasformano in disperazione, scatenando violenze e l’abbandono della famiglia, questo istituto a vostro dire sacro di cui vi autoproclamate sacerdoti, custodi e paladini.

E in cuor mio, non vi ho più perdonato.

Sono un operaio che non ha sopportato a capo chino, e prima, ero carne da cannone, tornato dalla bassa macelleria del 1870 straziato dalle ferite e spezzato dai reumatismi. Nei tristi androni dell’ospedale ho avuto tempo, molto tempo, per riflettere su quanto la patria aveva voluto da me e quanto la patria mi aveva dato. Prima mi avete annebbiato il cervello di menzogne, odio e furore selvaggio, per poi farmi avventare in nome dell’onore e della gloria della Francia, tra rulli di tamburi e squilli di fanfare, contro il nemico.

Il nemico? Li ho visti faccia a faccia, i nemici: erano poveracci come noi, che avanzavano verso la carneficina mesti, docili, inconsapevoli quanto noi di essere strumento di calcoli che di là come di qua dalla frontiera rinsaldavano i diritti feudali di vita e di morte sui sudditi.

Il nemico e’ qui. Dentro le frontiere segnate dal capriccio e dalla bramosia di profitto dei governi. L’umanità che soffre e lavora, quella e’ la nostra patria. Il nemico, e’ l’oligarchia ladra che si ingozza sul nostro sudore. Non ci ingannate più.

Voi ci avete spediti al di là del mare contro popoli che chiedevano soltanto di mantenere inviolato il proprio focolare. In nome della vostra civiltà ci avete incitato allo stupro, al saccheggio, alla strage, per sete di conquista. E dopo tanto orrore e ferocia, avete la sfrontatezza di giudicare i disgraziati che vedendosi negato il diritto a una dignitosa esistenza, hanno avuto almeno il coraggio di andarsi a prendere il necessario là dove abbonda il superfluo?

Ecco perché mi trovo qui: per aver gridato forte e chiaro ciò che Proudhon si e’ limitato a pronunciare a bassa voce davanti a un’accademia di benpensanti: che la proprietà, se non nasce dal lavoro, se non germoglia dal risparmio, dall’abnegazione, dall’onesto vivere, e’ un furto. Voi avete fatto della proprietà un’istituzione. Egoista e una pratica selvaggia a cui tributate venerazione, mentre i miserabili devono a essa i dolori, l’odio e le maledizioni.

Io non tendo la mano a chiedere l’elemosina. Io pretendo che mi sia riconosciuto il diritto a riprendermi ciò che mi e’ stato tolto da una congrega di accaparratori, ladri e corrotti.

Non mi ingannate più. E, in cuor mio, non vi perdono.

Questo discorso venne stampato e distribuito in 50.000 copie.

Il giorno dopo, nonostante non avesse ucciso nessuno, Duval venne condannato a morte. Subito dopo la lettura della sentenza, fuori dal tribunale scoppiarono violenti tumulti.

Il 28 febbraio successivo, la pena venne commutata nei lavori forzati a vita.

Duval venne imbarcato con destinazione Nuova Caledonia, ma la sua lotta era tutt’altro che finita.

LES ITALIENS

Luigi e Vittorio erano amici fin dall’infanzia. Entrambi nati a Reggio Emilia ad un anno di distanza l’uno dall’altro.

Luigi Parmeggiani era il più anziano, essendo nato nel 1858. figlio di poveri braccianti agricoli, era entrato presto in contatto con ambienti internazionalisti. Di professione tipografo, nel 1979, aveva lasciato l’Italia per sfuggire al servizio militare e si era trasferito in Francia, dove aveva esercitato umili lavori spostandosi di città in città, fino a quando, nel 1885, con la sua compagna di allora, la sarta Maria Carronis, non si era stabilito a Parigi, al numero 42 di rue Bert, nel XI arrondissement.

Vittorio Pini, era figlio di un volontario garibaldino. Durante l’infanzia, a causa della miseria in cui viveva la sua famiglia, aveva visto morire sei dei suoi fratelli de anche il padre, in una branda di un ospizio di carità.

A 12 anni, dopo un biennio di scuola elementare, era entrato a lavorare in una tipografia come apprendista. Lavorando poi nella tipografia di un giornale di tendenza repubblicana, Vittorio aveva iniziato ad interessarsi alla politica, finendo per definirsi internazionalista dopo aver ascoltato un discorso di Giuseppe Barbanti.

Trasferitosi a Milano, Pini aveva partecipato ad uno sciopero generale dei tipografi.lo sciopero si era protratto per ben sei mesi e si era concluso con una sonora sconfitta da parte dei lavoratori. Vittorio aveva perso come conseguenza sia il posto di lavoro sia la fiducia nello sciopero come strumento di lotta degli sfruttati.

Il giovane si era allora arruolato nei pompieri ed aveva ricevuto una medaglia al valore per aver salvato un’intera famiglia dalle fiamme. In seguito alla morte di un lontano parente, Vittorio aveva lasciato il posto di vigile del fuoco e aveva tentato di aprire un piccolo negozio in proprio, ma le cose non erano andate come aveva sperato.

Dopo aver lavorato brevemente come scrivano presso la pretura di Milano, aveva deciso di emigrare in Svizzera e, da lì, nel 1886, aveva deciso di raggiungere il suo amico Luigi a Parigi.

Nella capitale francese, Pini si era adattato a fare diversi mestieri,il garzone di stalla, il venditore ambulante, il calzolaio, ma, soprattutto, si era convertito definitivamente all’anarchismo. Decise, in questo senso, furono le palesi ingiustizie sociali che poteva osservare in una così grande città, la lettura di “Le parole di un ribelle” di Kropotkin e, naturalmente, la frequentazione della casa di Luigi Parmeggiani.

L’appartamento di rue Bert, infatti, era diventato il punto di ritrovo di un buon numero di ex comunardi e di estremisti fuoriusciti dall’Italia e da altri paesi.

Pini e Parmeggiani, insieme agli altri romagnoli Caio Zavoli, Alessandro Marocco e Vito Solieri, de ai fratelli belgi Placide e Julien Schouppe, fondarono diversi gruppi anarchici dai nomi abbastanza evocativi di quella che ne era la filosofia, quali Gli Intransigenti di Parigi e Londra, I Ribelli di Saint-Denis, Gli Straccioni di Parigi e Il Gruppo degli Introvabili.

In ogni occasione, sostenevano che l’espropiazione serviva, da una parte, ad affermare il diritto all’esistenza del popolo e, dall’altra parte, a fornire gli strumenti necessari per la distruzione della società borghese.

La banda, d’altronde, si preoccupò di far seguire i fatti alle parole.

In questo periodo, Vittorio Pini divenne una figura quasi leggendaria in seno al movimento anarchico, ma non solo.

Pini e i suoi complici misero a segno numerosi spettacolari colpi tra Parigi e dintorni.

Generoso, umile, dotato di una straordinaria forza fisica, Antonio Agresti ricorderà che, una volta, non riuscendo ad aprire una cassaforte, Pini l’aveva smurata, l’aveva avvolta in un tappeto e, caricatola sulle spalle, se l’era portata via in pieno giorno.

Anche anarchici che non ne condividevano affatto le idee, come l’italiano Saverio Merlino, non potevano che restare ammirati di fronte alla sua audacia.

D’altra parte, lo pseudo scienziato Lombroso, per le sue teorie, lo aveva preso come esemplare caratteristico di “criminale-nato”.

Il ricavato delle rapine e dei furti andava a finanziare la propaganda anarchica.

Il gruppo cosmopolita si era organizzato sfruttando i contatti di cui godeva anche all’estero. Grazie ad un’impresa di trasporti messa su da Marocco, si riciclava la refurtiva a Londra e a Bruxelles.

Una stamperia clandestina venne impiantata al numero 11 di rue Bellefond. Qua si stampavano, con Pini come correttore, manifesti, opuscoli e, a partire dal settembre del 1887, il giornale in lingua italiana Il Ciclone.

Tramite questo periodico, si difendeva l’espropiazione e l’azione violenta come metodi di lotta e si polemizzava con l’ala organizzatrice del movimento anarchico e con i socialisti, posizioni difese anche nel circolo della Lega cosmopolita fondata da Charles Malato, che Pini e Parmeggiani frequentavano regolarmente.

Uno dei pamphlet stampati in rue Bellefond ebbe una diffusione particolarmente ampia all’epoca. Si trattava de “L’Indicateur anarchiste”, una sorta di manuale dell’anarchico illegalista, in cui vi si poteva apprendere a fabbricare bombe, scassinare casseforti, erigere barricate, ecc., molto probabilmente redatto dal Parmeggiani.

Il 4 giugno del 1887, Parmeggiani venne colpito da un decreto di espulsione da parte del governo francese. Arrestato due mesi dopo, venne accompagnato alla frontiera belga, dopo qualche settimana di carcere.

Il reggiano si recò prima a Bruxelles, poi a Londra e, da lì, rientrò clandestinamente a Parigi.

Secondo un rapporto di Monsieur Goron, capo della Sûreté, nel 1988, il gruppo di Pini e Parmeggiani avrebbe messo a segno una dozzina di colpi, per un valore di circa 400.000 franchi, sarebbe stata responsabile dell’accoltellamento di un tale Faina, presunto agente del governo italiano a Parigi, di alcune esplosioni e del tentativo di far saltare in aria la casa del generale Menabrea, ambasciatore italiano a Parigi, responsabile, secondo loro, dell’arresto di Parmeggiani.

Vittorio Pini

Nell’ottobre dello stesso anno, la stamperia clandestina diede alla luce un piccolo pamphlet intitolato “Manifesto degli anarchici in lingua italiana al popolo d’Italia”, scritto da Marocco con la collaborazione di Solieri, Zavoli ed altri anarchici romagnoli. La seconda parte di tale manifesto era dedicata al rivoluzionario Amilcare Cipriani, che veniva tacciato di impostore e di traditore della rivoluzione sociale.

In difesa di Cipriani, intervennero dall’Italia i socialisti Celso Ceretti e Camillo Prampolini che, dalle pagine di Il Sole dell’Avvenire e La Giustizia, insinuarono il sospetto che gli autori del manifesto fossero agenti al soldo della polizia.

Luigi e Vittorio decisero di lavare l’offesa e partirono per la penisola.

Il 13 febbraio del 1889, Ceretti venne accoltellato a Mirandola.

Tre giorni dopo, Pini e Parmeggiani vennero intercettati dalla polizia mentre si stavano recando a Reggio Emilia per riservare lo stesso trattamento a Prampolini. Ne nacque un breve scontro a fuoco al termine del quale i due riuscirono a far perdere le proprie tracce ed a riparare in Francia.

Vittorio Pini venne arrestato il 19 luglio successivo, si pensa grazie alla collaborazione dell’internazionalista e confidente della polizia italiana Carlo Terzaghi, che pochi giorni prima aveva contattato l’anarchico sotto falso nome. La perquisizione a casa di Vittorio portò alla scoperta di numerosi attrezzi da scasso e alcuni oggetti di refurtiva.

Lo stesso giorno, vennero fermati i due fratelli Schouppe e Maria Soenen, compagna di Julien.

Parmeggiani riuscì ancora una volta a sfuggire alla cattura e, dopo qualche mese di peregrinazioni in mezza Europa, fece di nuovo la sua apparizione a Londra.

Il processo a Pini e a suoi tre complici ebbe luogo il 4 e 5 novembre 1889.

L’italiano si assunse tutte le responsabilità, tentando di far scagionare i compagni, e, come già aveva fatto Duval, rivendicò il valore politico delle sue azioni. E anche il suo discorso davanti alla corte fu stampato e diffuso in migliaia di copie.

Le condanne furono di 20 anni di lavori forzati per Pini, 10 anni per Placide Schouppe, 5 anni per Julien e Marie. Alla lettura della sentenza, Pini gridò:

Viva l’Anarchia! A Morte i ladri!”

I quattro partirono per il bagno penale della Guyana il 15 agosto 1890.

NON È SUCCESSO NIENTE

Mai si venne a sapere perché quell’uomo chiamata Pierre Lucas si fosse recato al teatro de la Gaieté nel centro di Le Havre quella sera del 22 gennaio del 1888, per ascoltare una conferenza della vecchia comunarda e nota anarchica Louise Michel.

Bisogna che la società sia rinnovata, e vorremmo che non fosse fatto con il sangue. È con la pace ed il lavoro che lo vorremmo raggiungere questo risultato. Ma se i borghesi non vogliono essere con noi, la Rivoluzione, che è inevitabile, la faremo contro di loro. Si farà con noi, con voi o contro di voi. Scegliete”, disse Louise Michel.

Così come mai si seppe quale e come, tra tutti i discorsi di Louise, avesse sconvolto la mente di quell’uomo chiamato Pierre Lucas.

L’uomo chiamato Pierre Lucas non aveva mai, prima di allora, messo piede in una riunione pubblica.

Mischiato alla folla, da un corridoio del teatro, Pierrre Lucas ascoltò parole e pensieri a cui non aveva mai pensato.

Qualcuno, attorno a lui, gli offrì del vino.

Qualcuno, attorno a lui, cominciò a fischiare.

Qualcuno, attorno a lui, cominciò ad inveire.

Qualcuno, di nuovo, gli offrì del vino.

Qualcuno, forse, gli mise in mano dei soldi …

Chissà, forse era proprio questa donna, o meglio i suoi discorsi diabolici, ad essere la causa di tutta quell’infelicità da cui si vedeva circondato – potrebbe aver pensato Pierre Lucas.

Il fatto fu che quell’uomo, quella sera, ad un certo punto, uscì dal teatro de andò ad acquistare un revolver per 15 franchi. Poi, si recò in una taverna per continuare a bere.

Il giorno dopo, Pierre Lucas, alle ore venti, si recò alla salle de l’Élisée dove, alla presenza di altre 2.000 persone, Louise Michel doveva tenere la sua seconda conferenza,

L’anarchica stava parlando contro la guerra, soprattutto contro quelle coloniali, che spingevano i soldati a diventare assassini, ladri e stupratori.

Ad un certo punto, un uomo alto, robusto, vestito interamente di nero, con gli occhi scuri ed un estremo pallore nel volto, si alzò e chiese la parola.

Pierre Lucas salì così sulla tribuna..

Non vi parlerò in un francese corretto. Non sono un ladro né un assassino. Sono bretone”, disse l’uomo lanciandosi, subito dopo, in un confuso monologo nel suo dialetto.

Louise, allora, si girò verso il banco dei giornalisti:

Non ci capisco niente

Nemmeno noi”, le risposero loro.

Qualcuno si alzò per suggerire a Lucas di finire l’intervento e di mettersi seduto. Lui obbedì docilmente e Louise poté continuare il suo discorso.

Improvvisamente, si sente un botto. Sento un bruciore all’orecchio. Lucas è in piedi dietro di me, impugnando il revolver come lo avrebbe fatto un bambino di due anni. Tutti sono in piedi. Allora dico alla folla: “Non è successo niente! È un imbecille che ha sparato a salve!””

Nel frattempo, Lucas sparò un’altra volta prima di essere immobilizzato e quasi linciato dagli amici della donna.

Louise Michel si salvò miracolosamente. Delle due pallottole che le erano entrate in testa, i medici non riuscirono ad estrarre che una.

La vecchia rivoluzionaria si limitò a vivere il resto della vita che le restava con un proiettile nella testa e senza un pezzo d’orecchio.

Attentato a Louise Michel

Nonostante che Michel si fosse rifiutata di sporgere denuncia contro il suo aggressore, Pierre Lucas dovette comunque sottoporsi ad un processo.

Se l’ho colpita, è perché questa idea mi è venuta in testa. Ero esasperato.

Lucas era un uomo sposato, di 33 anni, aveva un figlio.

Avevo bevuto molto e non ho capito cosa si diceva. Non ho l’istruzione necessaria.

Interrogata dal procuratore, Louise continuò a sostenere l’incapacità d’intendere per l’oumo e si negò per un’eventuale testimonianza in tribunale.

Ciononostante, in molti, negli ambienti anarchici, si convinsero che Pierre Lucasfosse in realtà una persona al soldo, o quantomeno,manipolata dalla polizia, incitato a commettere l’attentato.

I due protagonisti dell’episodio, dal canto loro, si tennero per un tempo in contatto epistolario.

La sua lettera mi ha fatto un enorme piacere; questa prova, ancora una volta, che abbiamo avuto ragione ad avervi considerato come allucinato e, di conseguenza, come non poteva essere sottoposto a giudizio ….

Pierre Lucas morì a Le Havre il 17 gennaio 1890 a causa della tisi.

DISORDINE, DISORDINE E ANCORA DISORDINE

Il Circolo Anarchico Internazionale, che teneva regolari riunioni nella salle Horel, in rue Aumaire, nel III arrondissement di Parigi, era il circolo più importante, uno spazio di confronto e di discussione aperto a tutti gli anarchici francesi e provenienti da fuori, dal novembre del 1888.

Il Circolo era stato fondato da un gruppo di individui raccolti intorno alla redazione del periodico Ça ira, tra cui c’erano due figure importanti per la storia dell’anarchismo di questo periodo, Charles Malato ed Émile Pouget.

Charles Malato era figlio di un nobile rivoluzionario italiano che aveva combattuto nei falliti moti del 1848 nel suo paese e che aveva cercato esilio in Francia.

Charles era dunque nato in questa terra, a Fourg precisamente, nel settembre del 1857. Il padre, da buon rivoluzionario, era anche accorso a difendere Parigi al fianco dei comunardi, guadagnandosi così una condanna alla deportazione nella Nuova Caledonia, dove si era portato la moglie e il figlio.

Laggiù, quindi, Charles aveva passato la fine della propria adolescenza e, laggiù, aveva perso la madre prima che fosse proclamata l’amnistia generale.

Charles aveva fatto ritorno a Parigi con il padre, andando ad abitare nel XX arrondissement, da lui stesso definito più tardi “un inferno sociale”, nel sordido passage Papier (oggi passage du Surmelin).

D’istruzione comunque elevata, aveva cominciato a lavorare come redattore prima presso l’Agence Continental, poi al giornale La Gazzette du Soir.

In seguito, Malato aveva creato la propria agenzia di stampa, l’Agenzia Cosmopolita, di cui era “allo stesso tempo direttore, traduttore, copista, segretario e amministratore”.

Nel 1886, con l’aiuto di due amici, fondò un giornale, La Révolution cosmopolite, che in breve abbracciò le idee anarchiche.

L’anarchismo di Malato era impregnato di elementi insurrezionalisti, quasi garibaldini, seguendo un po’ quelle che erano state le idee di suo padre, in contrasto sia con l’ortodossia di Jean Grave e La Révolte, sia con la corrente illegalista. Questo fino all’incontro con Émile Pouget, che gli fece cambiare il suo punto di vista.

Charles Malato

Nato nel 1860 in una famiglia borghese di un piccolo villaggio dei Pirenei centrali, Émile Pouget aveva perso prematuramente il padre notaio e, la madre si era risposata con un fervente repubblicano che aveva anche fondato un giornale per esprimere i suoi concetti politici.

Alla morte di quest’ultimo, a diciassette anni, Pouget aveva lasciato il liceo e si era trasferito a Parigi per lavorare come impiegato al Bon Marché.

Diventato anarchico grazie alla lettura di La Révolution sociale e ai discorsi di Louise Michel, aveva conosciuto il vecchio comunardo Émile Digeon, una sorta di “padre spirituale”, che lo aveva incitato a prendere parte alla creazione di un sindicato degli impiegati di commercio.

Sempre con Digeon, frequentava un gruppo anarchico che aveva la sua sede da père Rousseau, un commerciante di vini al 131 di rue Saint-Martin, nel IV arrondissement.

Arrestato insieme a Louise Michel de altri in occasione della manifestazione dei disoccupati del 1883 sfociata nel saccheggio di alcune panetterie, una perquisizione a casa sua aveva portato alla scoperta da parte della polizia di un revolver a sei colpi, di diverse fiale di prodotti chimici esplosivi e di 600 esemplari dell’opuscolo antimilitarista “À l’armée” (all’esercito). Tutto ciò, gli era costato una condanna ad otto anni.

Pouget era stato liberato con l’amnistia del 1886 de aveva cominciato a frequentare il circolo letterario della Butte, in Montmartre, dove aveva fatto la conoscenza di Malato.

Émile Pouget

Nel maggio del 1888, con altri compagni, fondò il bimensile anarchico Ça ira. Il progetto era molto ambizioso e, oltre all’apertura del Circolo Internazionale, prevedeva anche la trasformazione del periodico in quotidiano. Per questo, Pouget aveva fondato una società a capitale variabile che doveva emettere 10.000 obbligazioni a 5 franchi per finanziare il giornale.

Questa idea era però stata messa da parte a causa delle persecuzioni dovute alla pubblicazione di un articolo, intitolato “Silence aux povres”, su Ça ira.

Pouget si lanciò allora in un progetto personale e, alla fine di novembre del 1889, uscì il primo numero di Père Peinard, “un ciabattino pieno di idee che gli frullano nel cervello”, settimanale di sedici pagine.

Con questo giornale, Pouget si sarebbe rivelato come uno dei più grandi giornalisti popolari dell’epoca, capace di trasmettere con parole semplici e comprensibili le idee anarchiche contro lo stato, la chiesa, l’esercito, i padroni ma, soprattutto, l’idea dello sciopero generale insurrezionale.

Sì, in nome di Dio, non c’è nient’altro che questo oggi: lo sciopero generale!

Vedete quello che succederebbe se in quindici giorni non ci fosse più carbone. Le fabbriche chiuderebbero, le grandi città non avrebbero più gas, le ferrovie si fermerebbero.

Improvvisamente, il povero si riposerebbe. E questo gli darebbe il tempo di riflettere: capirebbe che viene vilmente derubato dai padroni e potrebbe capitare che si togliesse le sanguisuga di dosso!

L’idea ebbe un notevole successo, raccogliendo un gran numero di adesioni, tra cui quella di Malato. Ma un personaggio che frequentava il Circolo Internazionale e la redazione di Ça ira, avrebbe portato un certo scompiglio tra le fila anarchiche.

Pierre Martinet, detto Pol,era sempre stato una testa calda.

Nato nel 1848, figlio di un proprietario terriero del Gard, ancor prima di essere segnalato dalla polizia come anarchico nel 1884, aveva già collezionato diverse condanne, per porto d’armi proibite, appropriazione indebita, grida sediziose, incitazione a commettere un crimine, oltraggio a pubblico ufficiale, furto, oltraggio alla pubblica decenza.

All’epoca della segnalazione poliziesca, collaborava al giornale Terre et Liberté. Nel gennaio del 1885, un episodio aveva messo in discussione la sua appartenenza al movimento. Chiamato a testimoniare a discarico di un operaio accusato di tentativo di linciaggio di un poliziotto in borghese durante un comizio, con il suo casellario giudiziario, Martinet aveva pregiudicato l’imputato de era stato chiamato a rispondere di ciò in un’assemblea pubblica indetta dalla redazione di Terre et Liberté.

Alla fine, gli era stato accordato di restare nel movimento ma a condizione di parlare solo a proprio nome.

Poco dopo, Marrtinet si era spostato a Bruxelles ma era stato espulso dal Belgio a causa di un reato a mezzo stampa, per aver denunciato una tratta delle bianche.

Si era quindi spostato a Roubaix dove, grazie alle sue indubbie doti oratorie, era diventato uno dei principali animatori del gruppo anarchico locale. Aveva dato vita ad un piccolo giornale, Le Paria, come lui stesso si definiva, e continuato a collezionare condanne in mezza Francia, per interruzione di comizio elettorale, violazione di divieto di soggiorno, percosse e lesioni.

Pol fece la sua riapparizione a Parigi nella seconda metà del 1889.

Cominciò a frequentare il Circolo Internazionale, accompagnato sempre dal suo discepolo Eugène Renard e da Geoge Daherme, facendo propaganda a favore di un anarchismo ultraindividualista, dell’illegalismo e contro l’organizzazione e l’idea dello sciopero generale propugnata da Pouget. Andava anche a disturbare regolarmente i comizi degli oratori socialisti.

Da un rapporto della polizia:

Notate tutti gli scontri, a volte sanguinosi, che si sonno prodotti durante le riunioni degli ultimi due anni e in alcuni giornali e cercatene gli autori. È sempre Martinet che propone e il suo gregge che lo segue […] È impossibile sapere cosa vuole questa sfinge anarchica, le cui azioni e parole sono così spesso contraddittorie, da un giorno all’altro. In ogni caso, se fa il gioco di qualcuno, questo qualcuno non deve essere troppo felice.”

Essenzialmente per queste ragioni, Martinet venne escluso dal progetto di fare di Ça ira un quotidiano. Lui reagì fondando un altro proprio giornale, che sarebbe vissuto lo spazio di quattro numeri, La Sociale, e partecipò al congresso internazionale anarchico di Parigi, tenutosi nella salle du Commerce dal 1 all’8 settembre 1889, con un intervento che aveva fatto notare alla polizia:

Martinet è il capo della sinistra anarchica; si è ripromesso di rivoluzionare il partito.

Pierre Pol Martinet

Oltre alle polemiche sulla ripresa individuale, nel Circolo Internazionale, il paria Pol, all’inizio del 1890, ne aggiunse un’altra, facendo propaganda contro la partecipazione degli anarchici allo sciopero generale internazionale programmato nella giornata del 1º maggio dai socialisti.

Questa volta, a mettere tutti d’accordo, ci pensò la polizia, provvedendo ad arrestare

preventivamente tutti gli anarchici di spicco, Malato, Pouget e Martinet compresi.

Stranamente, quest’ultimo venne subito rilasciato, a differenza di tutti gli altri. Questo fatto diede modo al giornale socialista L’Égalité di scrivere pubblicamente che Martinet era un confidente della polizia.

La risposta non si fece attendere molto.

La sera del 16 giugno, Pol e i suoi attaccarono la sede del periodico socialista seminando schiaffi, bastonate e distruzione.

L’appuntamento con il 1º maggio, però, era stato soltanto rimandato.

Il 1º maggio del 1891 sarebbe stato il giorno che, come una miccia accesa, avrebbe provocato l’esplosione di tutta una serie di tragici eventi.