INVITO A PRANZO [1962]

La telefonata che lo invitava a pranzo arrivò la sera del 27 settembre. Era il segretario del vicesindaco di Milano, il democristiano Luigi Meda, il quale per scambiare alcuni punti di vista, chiedeva se era disponibile ad incontrarsi con il suo capo nel celebre ristorante La Giarrettiera, in galleria.

Il viceconsole onorario Isu Elias, che esercitava la carica in assenza del titolare, il Conte di Altea, in vacanza in Spagna, accettò l’invito.

Per risparmiargli noie ed attese, il segretario del vicesindaco assicurò che una macchina con autista lo avrebbe aspettato sotto il consolato e condotto direttamente al ristorante.

Puntualmente, la mattina dopo, passato mezzogiorno, il segretario del vicesindaco bussò al portone del consolato spagnolo.

L’uomo, che appariva piuttosto giovane, accompagnò il viceconsole fino all’auto in attesa e lo fece accomodare nei posti di dietro, mentre lui si sistemava accano all’autista.

Nel momento in cui quest‘ultimo metteva in moto, però, le porte posteriori si spalancarono e due giovani armati di pistole salirono a bordo, spingendo il diplomatico nel mezzo.

A quel punto, la macchina partì a tutta velocità.

Solo qualche giorno prima, esattamente il 22 settembre, il Tribunale Militare di Barcellona aveva condannato tre giovani appartenenti alle Juventudes Libertarias (JJ.LL.), Jorge Conill, Marcelino Jimenez e Antonio Mur, a pesantissime pene detentive.

I tre erano accusati di aver posto, nella notte tra il 29 e il 30 giugno precedenti, delle bombe davanti ad una sezione della Falange spagnola, in una sede dell’Opus Dei e su una finestra dell’Istituto Nacional de Prevision. Tre bombe che aveva fatto, in realtà, molto più rumore che danni.

Il procuratore aveva, però, fatto ricorso richiedendo per Conill, che era stato condannato a 30 anni, la pena di morte.

Quel che non risultava dagli atti del processo, perché doveva rimanere assolutamente segreto, e che, però, giustificava la richiesta della pena più estrema, era che Conill aveva fatto parte di un complotto ordito dagli anarchici, in collaborazione con i separatisti baschi, per attentare alla vita del Generalissimo Francisco Franco.

Il tentativo si sarebbe dovuto attuare a San Sebastian, in agosto, fuori dalla residenza del dittatore, il Palazzo d’Aiete, il cui arrivo era previsto a breve, quando questi sarebbe passato con l’auto.

La pioggia insistente di quei giorni, aveva spinto gli attentatori a non aspettare più a lungo. La carica fu così fatta saltare il giorno 18 agosto a scopo dimostrativo.

Il dittatore aveva fatto il suo ingresso nel Palazzo esattamente ventiquattr’ore dopo, non senza notare il notevole cratere lasciato sulla strada dall’esplosione a lui, senza ombra di dubbio, diretta.

Un affronto da lavare con il sangue, appunto.

Gli autori del sequestro del viceconsole Elias erano otto giovani, quattro anarchici e quattro socialisti rivoluzionari, tutti dall’età compresa tra i 21 e i 22 anni.

Si trattava di Amedeo Bertolo, Almone Fornaciari, Luigi Gerli e Gianfranco Pedron, gli anarchici, Vittorio De Tassis, Giorgio Bertani, Gianbattista Novello-Paglianti e Alberto Tomiolo, i socialisti.

Tra loro si conoscevano perché gli anarchici, all’epoca, senza nemmeno un posto dove riunirsi, chiedevano ospitalità ai locali dei giovani socialisti, arrivando poi a discutere in modo costruttivo su molte questioni, tra le quali figurava la solidarietà ai combattenti per la libertà in Spagna.

Tre di loro, Bertolo, Gerli e De Tassis, nell’estate precedente, avevano conosciuto personalmente i giovani condannati a Barcellona, durante un giro nella penisola iberica volto ad aiutare la resistenza clandestina antifranchista.

Sul mio “galletto” – ricorda Bertolo – avevo un ciclostile mascherato da cassetta da pittore: nei tubi da pittore c’era inchiostro da ciclostile, nella cassetta invece c’era un telaio che serviva a serigrafare col rullino. Con questa attrezzatura mi fermavo nelle città previste, alloggiavo presso un albergo, ciclostilavo volantini ed altro materiale propagandistico che poi consegnavo al contatto locale, quindi cambiavo città. Gli altri due compagni fecero insieme un altro percorso, indipendente dal mio. Ci ritrovammo infine a Barcellona, dove ebbimo l’occasione di conoscere vari compagni, tra i quali Jorge Conill Valls, Antonio Mur Peiron e Jimenéz Cubas: com’è naturale in simili particolari situazioni, a cementare la solidarietà politica sorse tra noi un’intensa fraterna amicizia.

L’idea del sequestro l’avevano avuta gli anarchici, subito dopo la notizia della condanna e del relativo ricorso per ottenere la pena di morte. L’obbiettivo era quello di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su ciò che stava accadendo in Spagna e, con ciò, impedire l’esecuzione.

Ma bisognava fare in fretta, molto in fretta, perché la revisione del processo era prevista per i primi giorni d’ottobre.

Il problema era che da soli non ce la potevano fare, sia come numero di partecipanti che come disponibilità economiche, senza contare che nessuno di loro era in grado di guidare una macchina. Fu così che avevano deciso di coinvolgere i loro nuovi amici socialisti.

“Mentre ci stavamo dando da fare, apprendemmo da un piccolo trafiletto sul Corriere della Sera che Conill Valls era stato condannato a morte, mentre agli altri due era stati dati trent’anni di galera a testa. Mancava, secondo la prassi giuridica spagnola, la conferma della condanna a morte da parte del governatore militare della regione di Barcellona. Non c’era tempo da perdere: decidemmo così di dare immediata esecuzione al piano di sequestro.”

L’auto era stata affittata a Verona da Tomiolo, l’unico in possesso della patente, per 31.000 lire e, dopo, gli avevano modificato la targa.

e poco importava che il titolare, il console conte di Altea, fosse in vacanza. Il suo sostituto, anche da un punto di vista simbolico, andava benissimo, visto che era risaputo che, ai tempi della seconda guerra mondiale, Elias aveva favorito la fuga dall’Italia della famiglia di Claretta Petacci, l’amante di Mussolini.

La macchina con a bordo il viceconsole rapito arrivò infine nel piccolissimo paese di Cugliate Fabiasco, abitato da 178 anime, a 5o km da Milano e, soprattutto, a 5 km dal confine con la Svizzera, dove gli anarchici, da tempo, avevano una piccola baita in comodato d’uso.

La notizia del rapimento ebbe, naturalmente, un larga eco in Italia, ma anche nel resto d’Europa, ma, nonostante la ridda di voci, gli inquirenti, e con loro, la stampa, non riuscivano a spiegare il gesto e men che meno a fare ipotesi sugli autori.

Almeno fino a quando, due giorni dopo il sequestro, la moglie del diplomatico non ricevette due lettere.

Una, da parte del marito:

Carissima Diddy, sto bene e vi prego di stare tranquilli. Tanti bacioni alla mamma, alla Mucci e a tutti gli altri. A te tutto l’amore del tuo Isu

L’altra, che spiegava i motivi del gesto:

Sequestriamo il viceconsole di Spagna a Milano, per cercare d’impedire l’esecuzione capitale di tre giovani antifascisti condannati a Barcellona. Il dottor Elias non corre nessun pericolo. Garantiamo la sua liberazione non appena, grazie alla notizia del sequestro, si sarà fatto sapere al mondo il triste destino dei nostri tre compagni a Barcellona. Viva la Spagna Libera.

In realtà, qualcuno aveva avuto paura. Forse, si era spaventato per la reazione a livello internazionale. Sì, perché le due missive non erano state inviate dal gruppo, ma erano state farina del sacco di un solo individuo.

Si trattava del Tomiolo che, invece di tornare a Verona ed attendere come era stato concordato, si era recato dal suo avvocato, il quale gli aveva vivamente sconsigliato di fidarsi di quelle teste calde degli anarchici, che potevano far finire in tragedia la storia, e si era raccomandato di contattare i giornalisti di Stasera, testata vicina alle posizioni politiche del suo cliente.

E poi, come si sa, in questi casi, soprattutto se si ha spifferato qualcosa a dei giornalisti, le voci presero a girare incontrollate. Prima tra colleghi. In seguito, in altri ambienti, fino ad arrivare alle orecchie della polizia.

Fortunatamente, la voce della fuga di notizie raggiunse anche i diretti interessati.

A questo punto decidemmo di liberare il nostro ostaggio. In un primo momento si era pensato di rilasciarlo direttamente a Ginevra, nella sede della Società delle Nazioni (ed era già stato messo a punto un piano operativo, con la collaborazione di alcuni compagni spagnoli), in modo da aggiungere un altro elemento clamoroso nella nostra lotta antifranchista. Ma per ragioni di ordine tecnico fummo costretti ad una soluzione di ripiego, costrettivi anche dal fatto che in giro si cominciava a sapere troppe cose intorno al sequestro e, di conseguenza, ai suoi autori.

A quel punto, la corsa alla liberazione dell’ostaggio divenne solamente una questione di velocità.

Il primo ad arrivare alla baita di Cugliate Fabiasco fu Nino Puleio, un giornalista di ABC, che, come raccontò in seguito, aveva ricevuto una misteriosa telefonata anonima.

De Tassis, credendo che si trattasse del giornalista designato, gli lasciò il viceconsole in consegna e si dileguò velocemente.

Quando, meno di un’ora dopo, Bertolo, accompagnato da un redattore de Il Giorno, arrivò alla baita, la trovò vuota.

Per ultima, giunse la polizia, tre ore dopo la liberazione di Elias, rimanendo a mani vuote.

Nonostante tutto, le forme furono salvate dal fatto che gli anarchici avevano tempestivamente inviato un comunicato all’agenzia Ansa preannunciando la liberazione del diplomatico.

Comunicato della Fijl (Feceración Ibérica de Juventudes Libertarias)

I giovani del mondo libero non possono ignorare i crimini che commette il governo franchista contro la libertà e la vita dei poveri spagnoli. Il sequestro è stato organizzato per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale riguardo alla triste sorte dei tre giovani anarchici condannati a Barcellona. Nostro obbiettivo è quello di suscitare alle persone oneste e democratiche del mondo intero, un moto di solidarietà morale e materiale nei confronti del popolo spagnolo. Rilasciamo, come promesso, il viceconsole, per dimostrare che i nostri metodi non sono come quelli che utilizzano Franco e la sua polizia falangista. Milano, 1º di ottobre.”

Il primo ad essere arrestato, il giorno dopo, fu Gianfranco Pedron, grazie alla denuncia della padrona della casa in cui viveva in affitto. Via via, nel giro di quindici giorni, vennero fermati tutti gli altri che avevano, direttamente o indirettamente, partecipato al sequestro. Tutti tranne il Bertolo, che era riuscito in modo rocambolesco a raggiungere Parigi.

Il 4 ottobre, la baita utilizzata per ospitare il viceconsole prese misteriosamente fuoco, distruggendola completamente. L‘episodio venne rapidamente liquidato come incendio accidentale dovuto ad un mozzicone di sigaretta gettato da uno dei vari curiosi in visita sulla scena del crimine.

Ma ci fu anche chi avanzò l’ipotesi di una ritorsione da parte dei fascisti.

Il 5 ottobre, il Tribunale Militare di Barcellona si pronunciò sul ricorso del Procuratore contro Conill, Jimenez e Mur decidendo clamorosamente di respingere la richiesta della pubblica accusa per la pena di morte e di confermare la sentenza di primo grado.

Un avvenimento più unico che raro nella pluriventennale dittatura di Franco, in cui praticamente ogni richiesta di esecuzione sottoposta alla visione del Generalissimo veniva firmata senza pensarci due volte.

Il fatto ancor più incredibile fu che un’agenzia di stampa diffondesse la notizia esattamente opposta – e cioè, che il giudice avesse accolto della condanna a morte per Conill e 30 anni per gli altri due – notizia poi diffusa dai principali quotidiani di tutta Europa.

Questa (falsa) notizia spinse l’allora cardinale di Milano e futuro papa Paolo VI, Giovanni Battista Montini, ad inviare un messaggio privato al generale Franco:

A nome degli studenti cattolici milanesi e mio personale, prego vostra eccellenza di usare clemenza nei confronti degli studenti lavoratori condannati affinché possano essere salvate vite umane e sia chiaro che l’ordine pubblico in un paese cattolico possa essere difeso diversamente che in paesi senza fede ai quali non appartengono i costumi cristiani.

Richiesta perfettamente inutile poiché la sentenza contro la pena di morte era già stata emessa (e non ci dato di sapere quale fu, se ci fu, la risposta di Franco).

Il 21 novembre del 1962, ci fu invece la sentenza per i ragazzi e altri implicati nel sequestro del diplomatico spagnolo.

Un processo trasformato in un atto d’accusa al regime franchista e che si concluse con condanne estremamente leggere.

Si andava dai quattro mesi di carcere per due giornalisti accusati di favoreggiamento ai sette mesi per De Tassis, Pedron, Gerli, Tomiolo e Bertolo, che si era clamorosamente presentato in aula all’inizio del processo eludendo la sorveglianza e consegnando la sua pistola direttamente al giudice.

Le pene vennero subito comunque sospese.

Nella motivazione della sentenza, si leggeva che venivano concesse le attenuanti per aver agito gli imputati per ragioni di particolare valore morale e sociale.

Rimasi in carcere solamente il tempo necessario allo svolgimento del processo. Tutto ciò che facemmo valse la pena, poiché salvammo la vita a un compagno – sebbene egli abbia poi dichiarato che gliela aveva salvata il Papa – e dimostrammo che, nonostante tutti gli errori commessi, con un po’ di entusiasmo si possono ottenere risultati importanti pur senza disporre di grandi mezzi.”