L’ANGELO DI USHUAIA [1909]

C’era il sole ma faceva freddo quella mattina del 1º maggio del 1909, a Buenos Aires.

In città erano previsti due cortei. Uno organizzato dalla Union General de Trabajadores (UGT), socialista, e l’altro dalla Federacion Obrera Regional Argentina, anarchica. A mezzogiorno, i primi manifestanti cominciarono ad affluire in plaza Lorea, gente povera, la maggior parte immigrati provenienti da Italia, Russia, Catalunya. Bandiere, canti, slogan. Erano gli anarchici.

Alle due, la piazza era ormai piena e la tensione era, nel frattempo, salita. Manifestanti avevano attaccato alcuni negozi che avevano deciso di non aderire allo sciopero. La polizia aveva circondato la piazza. L’arrivo dell’auto del capo della polizia, il colonnello Ramon Falcon, aveva acceso ancora di più gli animi.

Non era poi così strano che la sua presenza avesse ancor di più peggiorato una situazione già pesante.

Falcon veniva dalla carriera militare ed aveva partecipato alla celebre Campagna del Deserto. contro la popolazione autoctona del sud dell’Argentina. Si era ritirato nel 1898, con il grado di colonnello. Era stato eletto deputato e, pi, nel 1906, aveva ricevuto l’incarico di capo della polizia della Capital Federal.

Già il 1º maggio di quello stesso anno, in occasione della sciopero generale internazionale indetto dai sindacati socialisti e anarchici di tutto il mondo, non aveva esitato a lanciare uno squadrone di cavalleria all’attacco dei manifestanti indifesi, provocando numerosi morti e feriti.

L’anno dopo, di fronte ad uno sciopero dei pagamenti degli affitti degli inquilini delle case popolari dovuto all’aumento della retta, non aveva esitato ad ordinare sgomberi massicci in pieno inverno.

le versioni di ciò che avvenne a quel punto furono molte e tutte diverse tra loro.

Falcon fu visto mentre parlava con il comandante dello squadrone di cavalleria dispiegato per l’occasione e, dopo il breve conciliabolo, risalire in macchina e allontanarsi.

Poco dopo, nella piazza, risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco. Chi fu a sparare non venne mai chiarito ma, di fatto, fu come il segnale per lanciare alla carica lo squadrone contro i manifestanti.

Mezz’ora dopo, nella piazza restavano solo un silenzio irreale interrotto dal lamento di decine di feriti, in terra cappelli, bandiere, pozze di sangue e i cadaveri di almeno tre persone.

Sì, perché, anche il numero dei morti non fu mai accertato con precisione. La versione ufficiale fu di tre morti e di 39 feriti gravi, di cui due morirono nei giorni successivi. Altre fonti indicarono il numero dei morti a cinque più altri quattro nei giorni successivi. Naturalmente, i morti e i feriti si contarono esclusivamente tra le fila dei manifestanti. 

Sia come sia, il clamore per la mattanza, nel paese, fu, giustamente, enorme.

Il sindacato anarchico decretò fin dal primo momento uno sciopero generale indefinito fino alle dimissioni del capo della polizia Falcon e, per una volta, anche i socialisti si unirono alla protesta.

Il presidente della repubblica, José Figueroa, scese in campo di persona per dichiarare che Falcon sarebbe rimasto al suo posto a tutti i costi fino al termine del suo mandato.

Lo sciopero generale durò una settimana, paralizzando il paese, fino ai funerali di alcune delle vittime, il cui corteo funebre fu seguito da 60.000 persone.

Il colonnello Falcon, nonostante tutte le minacce di morte ricevute da parte degli anarchici, continuò ad esercitare il suo mestiere come se niente fosse successo. Si spostava in auto con il suo autista e segretario personale al seguito ma senza scorta, pur di non dare la sensazione di avere paura.

Sicuramente sottovalutava la gente con cui aveva a che fare.

Nella tarda mattinata del 14 novembre di quello stesso anno, il colonnello Falcon lasciò il cimitero della Recoleta dove era stato ad assistere alle esequie del suo amico e direttore della Penitenciaria Nacional, Antonio Balloé, deceduto pochi giorni prima.

La vettura condotta dall’autista, che ospitava anche il segretario del capo della polizia, Alberto Latirgau, si diresse verso avenida Callao per svoltare verso sud.

I conduttori delle due auto che seguivano furono i testimoni di ciò che avvenne una volta che il veicolo di Falcon ebbe svoltato l’angolo. I due concordarono nel descrivere la scena: un giovane che di corsa inseguiva la macchina e che aveva qualcosa in mano, come un pacco. Uno di loro arrivò a pensare che, dalla macchina, era caduto qualcosa e che quell’individuo stesse solo cercando di riportarla al legittimo proprietario.

Ma, una volta arrivato all’altezza dell’auto, il giovane aveva tirato l’oggetto al suo interno.

L’esplosione fu quasi immediata.

Lo sconosciuto si diede immediatamente alla fuga, inseguito, dopo un momento di comprensibile sconcerto, da quanti avevano assistito alla scena, ai quali, mano a mano, si aggregarono altri passanti tra cui due poliziotti.

Il giovane attentatore individuò in un palazzo in costruzione

il luogo in cui potersi nascondere, ma venne rapidamente individuato dalla folla inferocita. Temendo di essere linciato, allora, tirò fuori il revolver, se lo puntò al cuore e fece fuoco.

Fu forse per la precipitosità del gesto, comunque il fatto fu che fallì il bersaglio, procurandosi solo una ferita al costato, e la folla assetata di sangue fu su di lui. Solo la presenza dei due uomini in divisa lo salvò da una morte sicura.

La rudimentale bomba era esplosa all’interno della vettura, ai piedi del colonnello Falcon e del suo segretario, e le schegge avevano dilaniato le gambe dei uomini, lasciando illeso l’autista.

Quando erano arrivati i soccorsi, i due erano ancora vivi ed erano stati portati all’ospedale più vicino in condizioni disperate. I chirurghi avevano cercato di salvarli la vita, amputando gli arti inferiori, ma tutto era risultato inutile.

Il colonnello Falcon era morto dissanguato alle due del pomeriggio, Lartigau lo aveva seguito poche ore dopo.

Ma chi era l’assassino? Perché lo aveva fatto? Chi erano i suoi complici?

Silenzio.

Botte, e ancora silenzio.

Un silenzio inquietante e pesante, come le nuvole oscure che si addensano all’orizzonte appena prima della tempesta.

Un silenzio talmente assordante da indurre il presidente della repubblica José Figueroa a decretare lo stato d’assedio.

Si temeva un complotto per assassinare altre alte cariche dello stato.

Finché non si riuscì a svelare l’identità dell’attentatore.

Si chiamava Simon Radowitzky.

Nato in un anno imprecisato all’inizio dell’ultimo decennio del secolo appena passato, in un piccolo paese dell’Ucraina da una famiglia di operai di origine ebraica.

Anarchico fin dall’età di dieci anni quando, abbandonata la scuola e iniziato un lavoro come apprendista fabbro, venne iniziato agli ideali libertari dalla figlia del suo maestro.

A quattordici anni, operaio giornaliero nella metallurgia, venne ferito dalla sciabolata di un cosacco durante una manifestazione per la riduzione dell’orario di lavoro. La ferita lo costrinse a sei mesi di convalescenza a letto. Una volta tornato alla vita di tutti i giorni, venne arrestato e condannato a quattro mesi di carcere perché sorpreso a distribuire stampa dal carattere sovversivo.

Dopo la rivoluzione del 1905, per la posizione ricoperta, nonostante la giovane età, nel soviet della fabbrica in cui lavorava, fu costretto a fuggire dal paese per evitare una scontata condanna ai lavori forzati in Siberia.

Era infine sbarcato a Buenos Aires nel marzo del 1908.

Aveva trovato lavoro nelle officine del Ferrocarril Central Argentino ed era entrato in contatto con gli ambienti locali anarchici e con la numerosa comunità di rifugiati russi.

Venne il tempo del processo. Un processo dall’esito scontato, visto che l’imputato aveva già da tempo confessato di essere l’unico ideatore ed esecutore del crimine e che non esisteva alcuna prova che potesse dimostrare il contrario.

La questione a cui si ridusse il dibattimento fu quello di quale pena commutare al reo confesso.

Il pubblico ministero, sostenuto dalla quasi totalità dell’opinione pubblica borghese, fece subito richiesta per un’esemplare pena di morte che, per la legge argentina, si poteva applicare solo ai maggiori di età, all’epoca, 21 anni.

Ma, quanti anni aveva Simon Radowitsky?

Sulla stampa era apparsa la notizia che il feroce assassino avesse all’incirca 27 anni.

Il diretto interessato aveva dichiarato di averne 18.

Il giudice chiese allora una perizia medica in grado di stabilire l’età dell’imputato.

Due dei periti fissarono a 21 anni l’età del ragazzo, gli altri due a 25.

Per il pubblico ministero, era fatta: l’età media venne fissata a 22 anni e mezzo. Perfettamente in grado di affrontare il plotone d’esecuzione …

A salvare Simon dalla morte arrivò un vecchio, dai capelli e dalla lunga barba bianca. Disse di chiamarsi anche lui Radowitzky, Mosè, e di essere lo zio dell’imputato. Portava con se un pezzo di carta arrolato.

Il documento era scritto in cirillico e, affidato alle cure di un traduttore, risultò essere l’attestato di nascita di Simon. La data indicava il 1891. L’imputato aveva dunque 18 anni come aveva affermato. Ma l’attestato non era mai stato validato in Argentina ed il giudice decise di dichiararlo non valido ai fini del processo in corso.

Tuttavia, la giuria restò comunque influenzata da questo ultimo colpo di scena e non se la sentì di approvare un verdetto di condanna alla pena capitale.

Simon Radowitzky venne condannato al carcere a vita più venti giorni di cella d’isolamento a pane e acqua ogni qual volta si avvicinava l’anniversario del suo crimine.

Simon tornò ben presto, evidentemente suo malgrado, a far parlare di se in modo clamoroso.

Il 6 gennaio del 1911, dalla Penitenciaria Nacional evasero ben tredici uomini. Undici erano detenuti comuni, ma gli altri due di comune non avevano proprio niente. Si trattava degli anarchici Francisco Sotano e Salvador Planas, tutti e due dentro con pesantissime condanne per i loro tentativi di assassinare i presidenti della repubblica allora in carica.

Evasione avvenuta attraverso il più classico dei tunnel a forma di U scavato proprio sotto il muro di cinta del carcere.

L’indagine successiva fece venire alla luce una situazione a dir poco preoccupante, almeno dal punto di vista delle autorità.

Dettagli inquietanti che non facevano presagire niente di nuovo. E, di nuovo, spaventosi silenzi.

Gli evasi “politici” avevano trovato un auto ad attenderli ed avevano cambiato subito gli abiti, a giudicare dalle divise da carcerati trovate abbandonate nei dintorni. Gli altri evasi, evidentemente a rimorchio, si erano gettati in una fuga disperata ed erano stati ripresi quasi tutti.

Pochi minuti prima della clamorosa evasione, Simon era stato convocato nella stamperia del penitenziario per sbrigare delle commissioni, ma era stato visto in compagnia di Francisco e Salvador sempre più spesso negli ultimi tempi.

Simon, era stato osservato, godeva della simpatia di tutti i detenuti all’interno del carcere e anche da una buona parte dei guardiani, e sembrava essere stato, in qualche modo, l’ispiratore di ciò che era accaduto.

Ma non c’erano prove. Simon non parlava. Un silenzio che faceva venire voglia di pensare di tutto. Un silenzio che resisteva alle botte, alle minacce, alle privazioni.

Imperturbabile come solo un silenzio può essere. Un silenzio con un retrogusto beffardo, come un sorriso di sbieco, che affiora in un angolo della bocca …

Come conseguenza, le autorità, timorose di ciò che poteva accadere, decisero di procedere con le misure estreme: la deportazione del pericoloso ergastolano nel campo di detenzione di Ushuaia, nell’inospitale Terra del Fuoco, nell’estremo sud dello stato, dove fuggire sarebbe stato praticamente impossibile.

Finito di costruire nel 1904, il bagno penale di Ushuaia sorgeva ad est dell’omonima città, situata nella Isla Grande della Terra del Fuoco, ed era destinato ai criminali comuni recidivi e di alta pericolosità sociale, ma anche per i prigionieri politici. Era noto, e lo fu per altri quattro decenni, per il duro trattamento riservato ai suoi ospiti, per le proibitive condizioni climatiche e per l’isolata posizione geografica. Tutte condizioni che riducevano i tentativi di fuga vicini allo zero.

Per Radowitzky i giorni sono più duri che per tutti gli altri detenuti. Tutte le volte che si avvicinava la data fatidica del 14 novembre, continuava il castigo dei venti giorni di isolamento a pane e acqua, che era il segno più evidente del trattamento “di favore” che la direzione del carcere e i guardiani, in realtà, gli riservavano quotidianamente.

Tuttavia gli anni passavano e Simon resisteva.

Ma gli anarchici? Che facevano? Si erano dimenticati di lui?

Nel maggio del 1918, la città di Buenos Aires venne letteralmente inondata da un piccolo pamphlet intitolato “il presidio di Ushuaia”. Era stato editato del periodico anarchico La Protesta ed era firmato dal giornalista Marcial Belascoain Sayos. La dedica in calce: “Al mio amico Simon Radowitzky, come un’offerta. Ai vili sbirri, come uno schiaffo”.

Era un atto d’accusa spietato su come veniva trattato Simon, che attaccava ferocemente il direttore dell’istituto, Gregorio Palacios. Si narrava, con uno stile crudo e diretto, ogni sorta di violazioni, anche sessuali, a cui Radowitzky era stato sottoposto da parte di alcune guardie, di cui si facevano nomi e cognomi, istigate direttamente dal loro superiore.

Belascoain concludeva con queste parole: “Generoso amico, Simon, migliore amico, vivi senza speranza, nella notte oscura del tuo martirio circondato da bestie feroci che ti perseguitano, senza un raggio di sole che ti accarezzi, ma con il cuore dei tuoi amici, di quelli che ti capiscono e ti amano […]. Vadano a te queste righe che riassumono l’affetto di chi ti ama; di chi comincia a preparare il grande evento di riportarti alla vita strappandoti alla ferocia dei criminali carcerieri, che tanto ti hanno fatto soffrire.”

Il 9 novembre di quello stesso anno, i giornali della Capitale Federale intitolavano: IL 7 NOVEMBRE RADOWITSKY È EVASO DAL CARCERE DI USHUAIA!

Nessuno c’era mai riuscito prima ed il clamore fu enorme-

Il piano era stato preparato dagli anarchici, che avevano raccolto i soldi necessari ed avevano affidato l’impresa al creolo Apolinario Barrera che, a sua volta, aveva scelto il giovane cileno Miguel Angel Roscigna come aiutante.

I due avevano raggiunto Punta Arenas verso la fine di ottobre. Lì, avevano incontrato i dirigenti locali della Federacion Obrera che li avevano presentato un vecchio slavo, proprietario della piccola goletta “Ooky”. Avevano affittato l’imbarcazione con il relativo equipaggio ed erano partiti in direzione di Ushuaia, dove erano giunti il 4 novembre.

Tre giorni dopo, Barrera aveva visto avvicinarsi alla baia dove avevano attraccato un uomo con la divisa da guardiano e, istintivamente, aveva impugnato la pistola pensando di essere caduto in una trappola.

Ma quello gli aveva gridato:

– Apolinario!

– Simon!

I due non si erano mai visti prima di allora ma si erano abbracciati come fratelli.

Simon, non si sa in quale modo, era riuscito a procurarsi un’uniforme da guardia e, così vestito, era uscito dall’officina meccanica nella quale lavorava e, da lì, si era diretto verso l’uscita. Con una freddezza incredibile era uscito dal portone senza che nessuno lo riconoscesse. Simon aveva attraversato il cimitero e poi aveva intrapreso la strada del monte dietro il quale, secondo il piano, lo aspettava la nave che lo doveva portare via per sempre.

L’evasione fu denunciata al direttore Palacios alle ore 09:22 di quella mattina. Questo voleva dire che il fuggitivo aveva forse poco più di due ore di vantaggio.

Oltre alle ricerche intorno al carcere, venne approntata una lancia per pattugliare la costa negli immediati dintorni.

A bordo di “Ooky”, intanto, Simon si era cambiato di abiti e, dopo aver salpato, si era messo a discutere con Apolinario sulla mossa successiva. Il piano pensato da Barrera era quello di allontanarsi varie miglia e lasciare Radowitzky in uno dei tanti rifugi della costa con due mesi di scorte, far passare la tempesta che inevitabilmente si sarebbe abbattuta su di loro e, una volta calmate definitivamente le acque, tornarlo a prendere e portarlo finalmente al sicuro.

Ma Simon non se la sentiva. Vedeva la libertà a portata di mano e voleva prenderla, subito.

Chiese di far rotta direttamente su Punta Arenas e da lasciarlo là, in una grande città, dove gli sarebbe stato più facile passare inosservato ed imbarcarsi su qualche nave diretta lontano da quelle terre inospitali.

Quel che né Simon né Apolinario sapevano era che, da Ushuaia, avevano telefonato al governo cileno per avvertire dell’evasione di un pericoloso recluso e che, ora, sulle loro tracce c’era anche la nave da guerra “Yañez”.

All’alba del quarto giorno di navigazione, la “Ooky” entrò nello stretto di Magellano. Era quasi fatta quando, all’orizzonte, si intravide il fumo nero di una grande nave che sembrava dirigersi proprio verso di loro. Intuendo il pericolo, Simon chiese ai suoi compagni di avvicinarsi il più possibile alla costa della penisola di Brunswick. A duecento metri dalla costa, si buttò in acqua, raggiungendo terra a nuoto.

Poco tempo dopo, la “Yañez” riuscì a raggiungere la goletta ponendo sotto stato di arresto l’intero equipaggio.

Una volta sbarcati tutti in terra cilena, vennero condotti in prigione. Alla fine, fu il macchinista della “Ooky” il primo a confessare. Avevano effettivamente trasportato l’evaso Simon Radowitzky. Fu così che scattò la caccia all’uomo.

Simon fu ritrovato da una pattuglia dell’esercito cileno a circa 12 km di distanza da Punte Arenas mentre, stremato e mezzo congelato, stava disperatamente cercando di raggiungere la città.

Una delle evasioni più clamorose della storia dell’Argentina era terminata. Era durata lo spazio di poco più di quattro giorni.

Per rivedere Ushuaia, però, Simon dovette aspettare altre due settimane.

Varcò le porte del carcere di notte, perché gli altri detenuti non si accorgessero dell’ingresso di quello che ormai era diventato l’eroe di tutti. Precauzione inutile.

L’anarchico fu accolto dalla popolazione dell’istituto da una manifestazione di enorme solidarietà, con la classica battitura delle sbarre e al grido “Viva Simon! Mueran los perros samosos!”.

Fu questa a salvarlo da un molto più che probabile selvaggio pestaggio da parte delle guardie che, per l’occasione, avevano avuto carta bianca dal direttore.

Simon era ormai un angelo per una parte e il diavolo in persona per l’altra. Palacios faceva parte di questi ultimi. E, per evitare che il soggetto in questione contagiasse con le sue pericolose idee più di quanto non avesse già fatto il resto dei suoi “ospiti”, ordinò l’isolamento a mezza razione di Simon a tempo indeterminato.

Simon ritornò a vedere un altro essere umano che non fosse una guardia dopo più di due lunghissimi anni, il 7 gennaio del 1921.

Si trattava di una specie di fantasma, certo, ma ne uscì …

Nei primi anni venti, Radowitzky, che già godeva della più ampia simpatia e del più grande rispetto tra i detenuti, si trasformò in una vera leggenda. L’uomo che risolveva, o almeno provava a risolvere, i problemi dei suoi compagni di sventura. L’uomo a cui rivolgersi per ogni contenzioso personale con la direzione, per ogni lite con le guardie, per organizzare proteste per le condizioni di vita.

Tutto ciò nel microcosmo di Ushuaia perché, fuori da quell’universo in miniatura, il suo nome era, se si escludono gli anarchici, ormai niente altro che un vago ricordo.

Fino a che, nel 1925, non se ne ricordò un giornalista di La Razon, uno dei maggiori quotidiani della Capital Federal, che attraversò tutta l’Argentina per andare ad intervistarlo. Questo fu il primo impatto del giornalista con l’anarchico:

Simon Rodowitzky è un soggetto di statura media, magro, la fronte larga e un po’ di calvizie, mandibola prominente, grandi sopracciglia e gli occhi piccoli, luminosi. Il volto è pallido e sugli zigomi si osservano alcune vene rosse. Ha 34 anni ed è 16 che è nel presidio, in cui ha svolto parecchi lavori. La sua cella è un esempio di pulizia e in essa vi sono alcuni ritratti di famiglia. […] È disposto a parlare, diremo quasi loquace. Ma a volte, per la mancanza di abitudine alle lunghe conversazioni, ripete ciò che già ha detto. È semplice nelle sue espressioni e qualche volta gli scappa qualcosa in gergo creolo, ma subito si corregge e si scusa.

Successivamente vi fu un’altra intervista, effettuata questa volta dal giornalista Eduardo Barbero del prestigioso quotidiano Critica, inviato in quelle terre a casa del tragico naufragio del “Monte Cervantes”, in cui i detenuti di Ushuaia erano stati impiegati nelle operazioni di soccorso. Approfittando di questo fatto, Barbero si recò nel bagno penale per raccogliere le parole del giustiziere di Falcon.

Anche lui, come il suo collega, rimase impressionato dalla figura di Simon, definendolo quasi come un personaggio dostoiewskiano, con aurea mistica attorno, praticamente insensibile al dolore, in possesso di un sorriso disarmante, come solo i bambini possono avere.

E d’altronde, come si poteva leggere nelle pubblicazioni anarchiche dell’epoca, in cui il nome di Radowitsky veniva evocato ogni poche pagine, con epiteti che certamente avevano molto più a che fare con l’iconografia cristiana più che con quella di supposti mangiapreti. Angelo. Martire. Santo.

Il numero del giornale che conteneva l’articolo ebbe un successo inaspettato, andando esaurito in pochissimo tempo.

A partire dalla pubblicazione dell’intervista, le manifestazioni in favore della liberazione di Radowitsky non fecero che aumentare di numero e crescere nel pubblico intervenuto.

La questione arrivò, infine, sul tavolo del neoeletto presidente della repubblica, Hipolito Yrigoyen, capo del Partito Radicale che, in passato, aveva dichiarato che avrebbe concesso l’indulto all’anarchico.

Il provvedimento venne concesso il 14 aprile del 1930, ma con l’obbligo dell’espatrio. Radowitsky non avrebbe più rivisto il suolo argentino.

Esattamente un mese dopo, Radowitsky, a bordo di una nave della marina militare, arrivò a Buenos Aires e fu immediatamente trasferito su un’altra imbarcazione diretta a Montevideo, in Uruguay. Simon dovette aspettare a bordo per giorni prima che i suoi compagni fossero in grado di procurargli dei documenti d’identità, che lui aveva perso da anni, e il denaro necessario per pagare il viaggio.

“Simon, un niño grande”, dicevano di lui coloro che lo conobbero nel periodo di Montevideo.

Simon trovò subito lavoro come meccanico e, dopo venti lunghi anni passati nel gelo e nella solitudine, cominciò ad assaporare di nuovo la vita. Gli piaceva, quando poteva, stendersi al sole sulla spiaggia. Era felice di conoscere nuovi amici e curioso per tutto ciò che gli stava attorno. Ma durò poco.

Il 31 marzo 1933, un colpo di stato dei militari diede pieni poteri al presidente Gabriel Terra. Simon fu arrestati poco tempo dopo per attività contrarie al regime. Aiutava a stampare giornali e manifesti clandestini, che venivano distribuiti di notte.

Venne internato nell’isola di Flores, insieme ad altri oppositori. Ma, quando questi ultimi vennero rilasciati, pochi mesi dopo, Simon venne trattenuto in carcere.

Verso la fine del 1934, gli venne proposta l’espulsione in un paese terzo in base alla legge sugli stranieri indesiderati. Ma Rodowitzky, dopo aver accarezzato l’idea di tornare in Russia, consigliato dai compagni e dal suo avvocato, il socialista Emilio Frugoni, decise di non accettare, per non costituire un pericoloso precedente per tutti gli altri stranieri rifugiati.

Simon decise di andarsene nel 1937, come tantissimi altri anarchici della sua generazione, per andare a combattere in Spagna, dove infuriava la guerra civile.

Al suo arrivo a Barcelona nell’estate, il russo chiese di essere inviato sul fronte di Aragona, ma i dirigenti della Confederacion Nacional del Trabajo (C.N.T.), dato il suo stato di mito vivente, non intendevano accontentarlo. Fu Gregorio Jover, comandante della 28 Divisione, ex Colonna Ascaso prima della militarizzazione delle milizie, a fargli accettare un posizione di compromesso. Radowitsky avrebbe avuto l’incarico di fare da collegamento tra le varie brigate della divisione.

Tuttavia, la voglia di combattere di Simon era così grande che, nella battaglia di Teruel, una delle più lunghe e sanguinose di tutta la guerra, prese il fucile e raggiunse la prima linea.

Dopo tre mesi terribili, terminati con la sconfitta dei repubblicani, Radowitsky, debilitato dalla durezza delle condizioni di vita e dal peggioramento della tubercolosi contratta ai tempi di Ushuaia, venne praticamente obbligato ad accettare un posto nelle retrovie, nel ramo della propaganda della C.N.T..

Con la caduta di Barcelona, alla fine di gennaio del 1939, Simon raggiunse la frontiera francese mettendo in salvo, con l’aiuto di Martin Gudell, gli archivi del Sindacato.

In Francia, venne internato nel campo di Saint Cyprien, uno dei più grandi allestiti per i rifugiati repubblicani spagnoli. Che poi, altro non era che una grande distesa di terra e sabbia delimitata dal filo spinato e sorvegliata da soldati senegalesi, in cui un chilo di pane doveva essere spartito per 25 uomini.

Radowitsky decise di evadere e tentare la sorte fin dal primo momento. Con l’aiuto di compagni dentro e fuori del campo, riuscì a fuggire ed a raggiungere Montpellier. Da lì, a Parigi e poi in Belgio, riuscendo ad imbarcarsi su una nave con destinazione Veracruz, presentando un falso passaporto cubano.

In Messico, uno dei pochi paesi ad aver concretamente aiutato gli esuli repubblicani e, forse, il solo a non aver mai riconosciuto ufficialmente la Spagna di Franco, Simon arrivò nel giugno del 1939.

Venne accolto fin dal primo momento dai compagni di Veracruz e poi si trasferì a Città del Messico.

Nel D.F., trovato un impiego tramite l’interessamento del poeta uruguayo Angel Falco, allora console del suo paese, Simon continuò a lavorare per editare la stampa del movimento.

Simon Radowitsky morì il 29 febbraio del 1956.

La leggenda vuole che fu a causa di un attacco cardiaco nel suo nuovo posto di lavoro che, come non poteva essere altrimenti per lui, “l’uomo con il sorriso di un bambino”, era quello di operaio in una fabbrica di giocattoli.